Esistono archivi, dizionari, glossari e strutture di catalogazione che raccolgono un’ampia nozionistica riguardante ciò che possiamo definire dispositivi di violenza: mezzi di difesa e di offesa che caratterizzano attivamente il conflitto in generale, e che sono presenti in tutte le epoche della storia. All’interno di questo registro il concetto di arma assume diverse accezioni, amplificandosi più di quanto comunemente si creda, e ripresentandosi sotto forma di macchine, strumenti e macrostrutture simboliche come “bandiera”, “stato” e “nazione”. A completare questo quadro linguistico è l’incorporazione di codici e simboli che vengono rappresentati da abiti, divise, e uniformi, ma anche da processi di assoggettamento che si instaurano attraverso l’adozione di questi ruoli.
Il 24 ottobre si è tenuto in Piazza VIII Agosto a Bologna il ciclo di azioni performative AFELIO (2023) di Gaia De Megni — presentato da Xing con Gloria Dorliguzzo1 e Marta Tabacco. Il progetto nasce dalla ricerca sulle ritualità della condizione militare, e tenta di analizzare le peculiarità che caratterizzano il complesso di azioni svolte sul posto di guardia, più precisamente quelle dell’Arlington National Cemetery in Virgina. Il titolo rende esplicite le caratteristiche dell’operazione: ciclicità e ripetizione. L’afelio è infatti il punto di massima distanza di un corpo orbitante all’interno del sistema solare dal Sole stesso, un punto che viene ciclicamente raggiunto e poi abbandonato per ritornare al perielio, quello di minima.
Allo scoccare di ogni ora l’artista ha messo in scena nel fianco prolungato della piazza un cambio della guardia eseguito da due figure femminili. L’azione si svolge a partire dal lato destro del versante, per poi concludersi sul lato opposto; al centro, invece, una danza. Lo scambio originario tra il soldato montante e smontante ricorre ad alcuni precisissimi movimenti che accompagnano la consegna della postazione e dell’arma, che viene roteata e maneggiata secondo le sue finalità originarie, tra cui la riproduzione di una presa di mira, in questo caso di un soggetto inesistente. Attraverso questa riappropriazione viene messo in gioco un linguaggio dei gesti, dei movimenti, degli atteggiamenti. Un prolungamento di significato, che grazie alla fisionomia e le combinazioni gestuali, consegue sino a farne dei segni, e a fare di questi segni una sorta d’alfabeto (Artaud). Il linguaggio rituale estrapolato ha sia la funzione della resa a feticcio di un dispositivo, sia quella di fornire un modello estremamente rigoroso di condotte e comportamenti.
Le divise nere indossate dalle performer sono svuotate di ogni simbologia di appartenenza e di ogni riferimento spettacolarizzante — non vi è nessuna pretesa di unificazione tra linguaggi ufficiali e coscienze del pubblico, quanto forse la necessità di mettere in luce le ritualità a supporto della resa mitologia della violenza. L’arma in questione è stata completamente ridotta a sagoma, e quello che ne è rimasto è la riproduzione di sé stessa, ossia un fucile in vetro trasparente che ricalca il modello M16A2, tra i più precisi tra quelli utilizzati dall’esercito statunitense e impiegati nella Guerra del Vietnam, oggi relegato a mero oggetto di galateo militare. Il suono stesso del fucile, durante i movimenti delle guardie in scena è quasi reso totalmente vuoto grazie alla sua nuova conformazione. Lo stesso vale per le medaglie e le decorazioni sulle divise, vetrini liberati di qualsiasi espressione istituzionale. Non c’è più nessuna vittoria, onore o atto eroico da commemorare.
Per dirla come Godard, se “un cinema politico si situa sempre sul terreno della ripetizione, una ripetizione che non fa che replicare la creazione cosmogonica, presentandosi come nient’altro che il doppio della storia”2, allora il cambio della guardia di Gaia De Megni può essere concepito come tassello di un’immagine continuamente reiterata, smontata e rimontata fino all’esasperazione del suo contenuto. Il risultato di questa operazione appare allora come un contenitore svuotato del suo contenuto originario, una sorta di mosaico in cui ogni tassello tende a eludere sé stesso, in cui ogni movimento non è altro che il negativo della propria condizione originaria.