Ogni desiderio è una fessura labile e seducente, una soglia rivelatrice tra conquista e assoggettamento, tra velato e svelato. Attraente e ipnotica, questa fessura è la chiave per comprendere la collezione che Marco Rambaldi, in collaborazione con Zalando, ha presentato il 20 settembre presso la floricoltura Radaelli nel quartiere di Dergano a Milano per la Fashion Week SS 24.
La collezione è dedicata a Elisabetta detta “Bettina”, una donna di professione prostituta che, alla luce dei violenti interrogatori tenuti dall’inquisizione generale del Sant’Uffizio di Bologna nel 1662, fu accusata di fare sortilegi a scopo amoroso e incarcerata per stregoneria. Come molte altre donne relegate ai margini di un sistema inquinato, Bettina fu incarcerata per aver praticato sortilegi di vario tipo, pratiche che evadevano dalla consueta “educazione” femminile dell’epoca, completamente asservita al patriarcato e al lavoro di cura.
“Mai più nessuna che arda sul rogo dell’esclusione, mai più nessuna che debba scusarsi di partecipare all’unione” ha scritto Marco Rambaldi nel comunicato stampa avvolto da un piccolo centrino bianco cucito all’uncinetto e da una minuta pianta grassa, richiamo alla macchia mediterranea ma anche a una forma di attenzione verso il vivente. Su queste note amare il brand introduce la sfilata, invitando l’audience a fare un radicale lavoro di approfondimento critico per riposizionare lo sguardo sul corpo politico della collezione più che su quello estetico.
Malafemmina: poco di buono, volubile in amore, meretrice, libera; oltre che il titolo della collezione, è il manifesto che Rambaldi propone per la stagione Primavera/Estate 2024. Un invito alla liberazione dagli ordini gerarchici e politici che hanno sempre enfatizzato l’invalicabile confine tra l’Io e l’Altro. Le trasparenze delle lavorazioni all’uncinetto, le sfumature di rosa e i cuori, elementi cardine della ricerca di Rambaldi, oltre che far risuonare l’immaginario estetico dell’Italia Meridionale, si trasformano in elementi iconografici del desiderio, ancora fessure attraverso cui scrutare geografie antiche come la pietra, corpi nudi pronti a disidentificarsi da ogni stereotipo di rappresentazione e classificazione.
Malafemmina sembra auspicare a una dimensione radicale del desiderio, nel quale oggetto e soggetto sono rovesciati e invertiti. Il vestito non è più l’oggetto capitalizzato del desiderio, strumento di bellezza, ma si mostra come suo antagonista, come un dispositivo in grado di proiettare il desiderio stesso; lo denuda, lo scopre, lo abbatte, mostrandone le fragilità, le incomprensioni. Rambaldi scoperchia i corpi più che coprirli, li asseconda nella loro complessità seguendone le forme e le diversità, riscrivendo infine la grammatica del vestire fuori dalle categorizzazioni di genere.
Raul Vaneigeim in Noi che desideriamo senza fine (1999) scriveva “Noi siamo i figli di un mondo devastato, che provano a rinascere in un mondo da creare. Imparare a diventare umani è la sola radicalità”. Legare il concetto di radicalità a quello di umanità è necessario per comprendere in che modo ogni azione ha un peso specifico e decisivo su quello che è il nostro futuro, non mediante dettami produttivi, capitalistici e competitivi, ma secondo una dimensione di amore verso la complessità di ogni forma vitale. Vestirsi, nella condizione che ci propone Marco Rambaldi, diviene un atto di radicalità che interconnette, in una dimensione collettiva e plurale, il mondo e i corpi; il vestito indossato si fa soglia sottile, trasparente e lacerata, come pelle esso stesso, mostra il nuovo oggetto del desiderio, che non è più il vestito in sé, ma quello che esso stesso risalta e lascia intravedere, l’umano.
È sulle note di Minuetto di Mia Martini che si chiude la sfilata; le modelle, con le scarpe in mano, disinibite come in un fine serata di settembre, sfiorano il terreno con i piedi e si ricongiungono infine con il suolo umido.