La Galleria Umberto Di Marino è lieta di annunciare “Why a Fable?”, settima mostra personale di Eugenio Tibaldi. L’artista presenterà negli spazi di Casa Di Marino il progetto nato da La forma spezzata, una serie di sette teche in tecnica mista ispirate all’omonima favola per bambini da lui scritta e disegnata, prodotta dalla Fondazione Pietro ed Alberto Rossini ed edita da Allemandi. Le sette opere rappresentano la personale interpretazione di Tibaldi dei sette capitoli del libro, ripercorrendo le suggestioni di una generazione, quella degli anni 80 e 90, raccontandone un viaggio dal sapore agrodolce utilizzando l’allegoria rassicurante di una civiltà di ratti, inventando un topos della provincia italiana verosimile in forme diverse per tante aree della penisola.
La forma spezzata è dunque una favola immediata, che ha il vantaggio di rifuggire la narrazione del reale fondandola su una presunzione descrittiva, un vantaggio che le permette di evitare l’imperativo della ricerca di un insegnamento, della corretta informazione che perviene a una morale, alla univoca soluzione del problema; a quei ragionevoli buoni propositi che generano grassi e vantaggiosi affari. Sarebbe ridondante spiegarne il contenuto e scontato doverne raccontare ulteriormente le personali visioni che ispirano le sette teche in mostra, ma forse potrebbe essere più interessante cercare di capire, come suggerisce il titolo della mostra, perché Tibaldi ha utilizzato questa forma narrativa come pretesto per la sua nuova produzione.
Attraverso la Favola l’artista disegna la sua via di fuga dal loop dello specchio di derridiana memoria nel quale l’alterità è relegata a mera presenza. Una piccola lanterna giocosa per scacciare l’indomita tendenza dell’umanità all’oblio. L’invenzione ex nihilo della favola non crea nulla, nel senso teologico del termine “la favola non fa che inventare ricorrendo ad un lessico e a delle regole sintattiche, ad un codice in uso, a delle convenzioni alle quali si sottomette in un certo modo. Ma essa dà luogo ad un avvenimento, racconta una storia fittizia e produce una macchina introducendo uno scarto all’interno dell’uso abituale del discorso, disorientando in una certa misura l’habitus d’attesa e di ricezione di cui essa ha tuttavia bisogno; essa forma un inizio e parla di questo inizio, e, all’interno di questo doppio gesto indivisibile, inaugura. È in ciò che risiede questa singolarità e questa novità senza le quali non ci sarebbe invenzione”.
Lo scarto di cui parla Jacques Derrida è evidente nella concezione stessa del progetto; un libro che indaga la distanza che si genera nella lettura ai bambini, che rideranno della forma, dei topi, delle paradossali avventure di quella comunità, ma che nell’adulto, inizierà a prendere il gusto amaro di una specifica parte della propria esistenza, delle occasioni sprecate, dell’adesione a forme e modelli che hanno sedotto e abbandonato la provincia Italiana e il suo popolo.
Un crocevia epocale complesso da indagare dal punto di vista sociale e dell’immagine per la quantità di stimoli e desideri innescati dal consumo di massa, che ha prodotto una cultura popolare fatta di svaghi, cibi precotti e dolciumi confezionati pronta a implodere. Eravamo tutto drive-in e merendine. Un periodo cruciale per la storia italiana e per il suo lascito culturale, sfociato in un circolo di attribuzioni di responsabilità tra giovani e vecchie generazioni.
Storie verosimili della tipica educazione sociale di quegli anni, di padri lavoratori e bontemponi e madri casalinghe operose, di pregiudizi e discriminazioni, di dogmi accelerazionisti chi sa fare fa, chi non sa fare studia, del denaro contrapposto alla cultura, del nord al sud, meccanismi culturali che hanno portato a polarizzazioni socio-politiche basate sulla maggiore o minore disponibilità di enciclopedico sapere o di denaro. Eugenio Tibaldi sa di provenire da quella cultura, la conosce profondamente e ne ha udito il tonfo, ma con l’invenzione, con la favola, sente l’esigenza di poterla discutere raccontando una storia per una nuova generazione, compiendo il suo primo passo ideale oltre la nostalgia e prendendone coscienza.
“[…]Il suo mondo immaginario diviene uno specchio nel quale ravvisarsi, vedersi vivere e riconoscersi in ciò che non si sapeva, non si credeva o non si voleva ammettere di essere”. Lo specchio non è più il luogo dell’alienazione e della presenza, ma della rivelazione e della trasformazione. Il mondo immaginario di Tibaldi diventa uno strumento ad-personam, nel caleidoscopio di riferimenti, con il quale ognuno può riscontrare gli appigli per interrogare la realtà e se stessi, per scoprire aspetti nascosti o negati della propria identità e della propria storia.