Silenzioso e schivo – e forse proprio per questo ricco di mistero e senza tempo – l’universo di Marisa Merz torna a Napoli dopo 17 anni dal suo esordio, quando nel 2007 il Museo Madre presentò la sua prima mostra personale in città. Il progetto attualmente in corso da Thomas Dane Gallery, residenza ottocentesca voluta da Beniamino Ruffo di Calabria e dimora negli anni Cinquanta di intellettuali tra cui Benedetto Croce, dimostra ancora una volta, consolidandolo, il sodalizio tra l’opera dell’artista torinese e il capoluogo partenopeo. Il golfo sembra infatti cullare le forme abbozzate delle sue testine in argilla cruda, mentre se si chiudono gli occhi non si fa poi così tanta fatica ad immaginare i suoi volti su carta aleggiare nelle chiese del Vomero, del centro storico, o di altri quartieri, come fossero icone bizantine contemporanee dai tratti continui, sfuggenti, mai conclusi. Fantasmi palpitanti, le sue opere sono apparizioni gentili, umili e quotidiane che sospendono la visione, cristallizzandosi in una “miriade di espressioni tormentate”[1] poiché profondamente legate ad un vissuto esistenziale. Voci autobiografiche e registrazioni di accadimenti quotidiani, gli oggetti, le opere, le installazioni e le azioni della Merz sembrano essere così più a loro agio (letteralmente e metaforicamente) negli ambienti domestici e negli angoli imprevedibili della città di Napoli, che nelle sale espositive.
La potenza della cifra intimista e della sensibilità spiccatamente femminile emanata dai suoi lavori è ogni volta ammaliante, e parla un linguaggio espressivo che nel tempo si è impreziosito proprio perché si è rivelato più universale e capace di essere aperto e in costante evoluzione, esprimendo un mondo di moti e tumulti interiori, e un rituale di affetti (per il marito, Mario Merz, e la figlia Beatrice, poi) restituito dall’artista con materiali semplici come argilla, cera, rame, oro, bronzo, tra gli altri, scelti con consapevolezza. “La cera la senti trasparente ma pesa: non è come il vetro, è una sensazione di trasparenza, non la vera trasparenza”.[2] Non c’è pretesa, non c’è forzatura, o imposizione alcuna nei suoi lavori, spesso senza titolo e senza data – come a volerli lasciare fluttuare in una linea spazio-tempo priva di qualsiasi coordinata –, e senza troppi costrutti teorici e testuali a “sorreggerne” possibili interpretazioni. “Accettare un lavoro le cui finalità in certo qual grado sono incognite mi sembra abbia un valore, soprattutto in senso sociale poiché si tratta di sfuggire al controllo dell’istinto che diventa mestiere e di accettare una situazione sconosciuta…”.[3]
Presenza discreta ma importante nell’avanguardia poverista e, come ben noto, unica donna, Merz è stata una costruttrice visionaria, e con lei il suo imperscrutabile procedere artistico che dalla prima personale a Torino nel 1967, fino agli ultimi grandi riconoscimenti internazionali, non ha mai smesso di offrire una trama di vissuto che nel tempo si è fatta densa narrazione capace di toccare alti livelli lirici come testimonia la mostra da Thomas Dane. Le sale della galleria ospitano una serie di lavori scultorei e su carta che dialogano con l’architettura dello spazio espositivo, senza mai sfidarne l’evidente sontuosità. Non è nella loro indole, non lo è mai stato. E se il motivo ricorrente della testa umana e dei volti informi – che nell’artista è ritratto e anche autoritratto – lotta nei disegni a grafite e vernice spray color oro (Senza titolo, n.d.) tra rotondità ovoidali e curvature sfumate, tra figurazione e astrazione, tra primo e secondo piano, con la forza delicata del chiaroscuro, nelle sculture in argilla esso resta abbozzato, quasi primordiale, tanto che quelle testine sembrano creature estranee con “una mente che guarda con gli occhi sopra la fronte”.[4] Nei volumi scultorei più marcati come in Senza titolo (n.d.) – un triangolo in legno, paraffina e fili di rame che ne attraversano l’asse – l’osservatore è invece avvolto in una spirale meditativa che va fino a sù, alla punta estrema della scultura, o fino a giù, alla sua base, a seconda da dove la si osserva. Adagiata su un tappeto al centro dell’ampia e luminosa stanza che dà accesso alla veranda coperta, quest’opera è circondata da disegni di volti che, come custodi, la sorvegliano dall’alto. L’oggetto diventa contenitore di sguardi e di equilibri, e a ben vedere pare uno strumento musicale allungato, un manufatto d’altri tempi, difficilmente identificabile, che condensa nella sua forma semi-irregolare e nel materiale duttile della paraffina un momento poetico e sublime che si diffonde in tutte le stanze e, come una morsa, non ci abbandona mai.