GP: Di dov’era tuo padre?
FS: Di Vignaie, un frazione di Piegaro, vicino Perugia. Conosci Piegaro?
GP: Certo, è a 50 chilometri dal mio paese.
FS: Straordinario!
GP: Senti, tu hai lasciato tuo padre nel…
FS: 1966, con la mostra di Pascali: fu decisivo l’incontro fra me e Pino. Decisivo sul piano umano, sul piano di un sodalizio forte, perché era traumatico staccarmi da mio padre.
GP: Allora tuo padre ha lasciato te?
FS: No, sono io che ho lasciato lui.
GP: Ma lo spazio l’hai mantenuto tu, però. Allora vuol dire che tu hai buttato fuori tuo padre?
FS: Non è proprio cosi. Volevo fare la mostra di Pascali sulla quale lui non era d’accordo. Non ci siamo parlati per tre mesi e lui ha deciso di prendere una nuova galleria in via del Babuino. Non sospettava che ci sarebbero stati tempi bui, che la sua galleria sarebbe stata annientata dallo scoppio che ebbe la mia. Ma è una storia intricata, molto intricata.
GP: Allora tu hai incontrato Pino Pascali. Quando esattamente?
FS: Nel settembre del 1966, due anni prima che morisse.
GP: Come l’hai incontrato?
FS: Sai che… credo di averlo cercato perché io ormai avevo finito il servizio militare e, tornato, fremevo. Avevo visto un quadro di Kounellis, una rosa di impellicciatura di legno, pensa, da Tanino Chiurazzi, ma non ce l’aveva messa Chiurazzi, ce l’aveva messa Rolando Canfora, che era un giovane pittore prediletto da Tanino; allora vidi questo quadro, mi piacque e ne parlai con Calvesi. Gli dissi che mi piaceva Kounellis e lui fu il primo a dirmi: “Guarda, c’è anche un altro bravo, che fa un po’ le shaped canvas”, e si riferiva al Pascali degli animali bianchi, al Mare Bianco, eccetera. E allora io, che avevo in serbo un pensierino su Kounellis, avevo visto quella rosa che mi convinceva molto, andai in cerca di Pascali. Pino e Gianni in qualche modo li sottrassi alla Tartaruga. Plinio faceva una politica appiattente, aveva scelto Schifano al posto di Kounellis e Ceroli al posto di Pascali. Per me le sue scelte erano sbagliate. Poi io ero fresco di energia, avevo 27 anni, sai conta anche quello, lui 45 anni li doveva avere, comunque era un grosso punto di riferimento, dovevo fare i conti con la sua galleria. Mi parve che puntare le mie fiches valesse la pena solo su questi due: Pascali e Kounellis. Infatti esplosero insieme a me. Fu decisivo un incontro, quando organizzai la prima mostra di Pascali in Germania, con un critico tedesco, Udo Kultermann, parlando insieme venne fuori qualcosa degli elementi naturali, non so come Pino e io riuscimmo a intercettare questa cosa. C’era anche il precedente della mostra di Serra da Liverani. Insomma, Pino fu il primo a formalizzare le pozzanghere con l’acqua vera. Da lì nacque la mostra “Fuoco immagine acqua terra” che prese corpo proprio ad Amalfi parlandone sulla spiaggia con Calvesi. Subito dopo si aggregò Kounellis e fece la Margherita di fuoco, tanto è vero che Pino si incazzò e disse: “Porca troia, sto greco”. Perché dalle rose dipinte alla Margherita di fuoco il passo era lungo, ma meno lungo dopo che Pino aveva fatto le pozzanghere con l’acqua vera. Certo, dopo il tempo me l’avrebbe confermato, Kounellis è un pirata creativo, attraversa le generazioni con questi atti di pirateria. È uno che sa fare tutto, può fare Munch, poi può fare il quadro astratto, oppure usare l’oggetto, l’animale, ci ha mostrato che può attraversare tutti gli stili.
GP: Quando sei stato in Germania?
FS: Nel ’67, qualche mese dopo la prima mostra a L’Attico degli animali bianchi di Pascali. In un secondo tempo avevo esposto anche il Mare, con un testo di Vittorio Rubiu. Qui avevo avuto la prima intuizione che con il Mare di Pascali lo spazio di Piazza di Spagna, lo spazio che avevo condiviso con mio padre, non avrebbe retto al tempo che veniva. L’ho capito immediatamente, perché eravamo tutti espulsi dalla galleria, praticamente questo mare sul pavimento non faceva entrare il visitatore.
GP: Di Beuys non avevi ancora sentito parlare?
FS: Guarda, la prima volta che sentimmo parlare di Beuys in maniera fattiva, tangibile, il vero incontro faccia a faccia, prima erano solo voci, lo avemmo con la mostra di Berna “When Attitudes Become Form”, però allora era appena morto Pascali, tant’è vero che noi romani andammo a quell’incontro indeboliti rispetto ai torinesi. Ti sottolineo che la mostra “Fuoco immagine acqua terra” è avvenuta a L’Attico nel maggio del ’67, mentre la prima mostra dell’Arte Povera e dell’ottobre dello stesso anno a Genova, quindi è sicuramente una mostra che precede quella di sei mesi, una mostra in cui appaiono gli elementi naturali, quindi non c’e niente da fare, c’è una precedenza cronologica.
GP: Come era costituita questa mostra?
FS: “Fuoco immagine acqua terra” era il titolo della mostra, i testi erano di Boatto e Calvesi, che naturalmente privilegiavano i connotati dell’acqua di Pascali e del fuoco di Kounellis. Erano gli unici due che puntavano sull’inserimento di elementi della natura.
GP: Ma Pascali non ti aveva mai parlato di Beuys?
FS: Forse accennato, ma non ne sono sicuro. La prima volta fu quella di Berna, in realtà. Si vociferava di Beuys ma una vera coscienza cominciò nella seconda meta del ’68 e Pascali morì nel settembre del ’68.
GP: Io ricordo che parlando con Pascali mi diceva spesso di essere rimasto molto colpito, e con lui Kounellis, dalla mostra di Richard Serra alla galleria La Salita, dove aveva esposto un maiale vivo e degli uccelli impagliati. Te to ricordi tu?
FS: Sì, me la ricordo, perché era un percorso stradale obbligato per me, parcheggiavo la macchina sopra Villa Borghese e scendendo a piedi passavo davanti a La Salita, e vedevo tutte le mostre di Liverani. Questo potrebbe anche avermi in qualche modo fatto muovere o sommuovere, farmi capire che restando troppo a lungo con mio padre avrei perso colpi. Avevo 26 anni e tornato dal militare ribollivo, insomma non potevo limitarmi all’Informale tedesco, gli Hoheme e i Goetz che erano venuti attraverso Crispolti, oppure ad una Pop Art, rispettabile ma di rincalzo, come potevano essere Adami o Telemaque. Allora mi resi conto che dovevo saltare il fosso e le gallerie con cui dovevo fare i conti a Roma erano quelle di De Martiis e di Liverani. Sai, riguardo alla mostra di Serra, Pino ne era rimasto colpito, però ne faceva una questione di primogenitura, nel senso che gli sarebbe interessato esporre un animale vivo in galleria, probabilmente ci pensava, anzi mi disse che ci aveva già pensato prima di Serra, però per lui che già l’avesse fatto Serra gli creava un impedimento psicologico, s’era messo un veto. Invece Kounellis lo fece con i cavalli, l’aveva già fatto con gli uccellini, perché la sua prima mostra a L’Attico nel marzo 1967 fu con le rose di stoffa e gli uccellini vivi. La mostra di Pascali, la prima mostra bianca di Pino, nell’ottobre del ’66, aveva sconvolto Kounellis. Kounellis che dipingeva le sue rose ad olio, con una bella silhouette, poetiche col loro nero in contrasto col bianco, sentì molto l’irruenza con la quale Pino aggrediva to spazio. Mi ricordo che davanti al Mare Bianco con le onde Kounellis si abbassava con l’occhio rasoterra, come fosse a pelo d’acqua, e lo guardava, lo studiava. Dopo quasi dieci mesi avrebbe esposto a L’Attico il campo di cactus, che è una ripresa dello spazio del mare di Pascali. Intanto, come primo passaggio, Kounellis saltò fuori dalle rose dipinte, le ritagliò nella stoffa e le attaccò alla tela con gli automatici. II pezzo centrale della sua prima mostra a L’ Attico era un quadro 3 metri per 2 che aveva ai lati, come cornici, delle gabbiette con uccellini vivi dentro. Ecco, questo era molto bello, molto poetico, però alcuni uccellini morivano. Comunque la mostra era forte. Era marzo 1967. Poi, a novembre dello stesso anno, Kounellis presentò ancora a L’Attico il pappagallo, i cactus, la cotoniera. Finalmente era saltato nello spazio tridimensionale, aveva abbandonato la rosa, il quadro, perché lui fondamentalmente é un pittore, nasce come pittore, sente la bidimensionalità.
GP: Ma tra Kounellis e Pascali, oltre all’amicizia, c’era anche un rapporto intellettuale, di lavoro?
FS: Molto intenso, erano stati vicini in momenti difficili, erano stati insieme all’Accademia con Scialoja. In ogni caso Pino, dote rara, quando gli dissi che avevo l’occhio su Kounellis mi incitò: “Prendilo, è bravo”. E questo lo fece anche per altri artisti, ad esempio voleva che mi interessassi a Mambor che a me allora non convinceva molto. Questa generosità a Pino gli veniva dalla sicurezza nel suo lavoro. Una volta mi disse: “Guarda, di Gianni non puoi essere amico, non te lo consente lui”. Me lo disse, ricordo, scendendo già dal Pincio e mi rimase impresso. Era vero. E qui credo che c’entri ii fatto che Kounellis è greco, rimane sempre una distanza fra noi, non riesco mai a toccarlo nel cuore. Invece con Pino c’era un coinvolgimento emotivo, ma io allora mi coinvolgevo molto più di quanto faccia oggi. L’identificazione di due grosse personalità può diventare una miscela esplosiva. Con Pascali ha funzionato, ma anche con Kounellis. Dimmi tu se lui ha fatto mai una mostra clamorosa come quella dei Cavalli, che è stata la svolta della sua carriera. Harald Szeemann venne a Roma, vide lo spazio del garage e impazzì naturalmente, perché era lo spazio che anticipava il futuro, gli anni ’70. Appena gli mostrai il garage, Gianni decise di metterci i cavalli. Allora Szeemann pubblicò sul catalogo di Berna la foto dei Cavalli, che immediatamente fece il giro del mondo. Il 14 gennaio ’69 ci fu la mostra dei cavalli e ad aprile volai a New York per la prima volta nella mia vita. Prima di partire domandavo a Gian Enzo Sperone che c’era gia stato: “Ma com’è l’America?”. In fondo avevo 29 anni, ero ancora giovane per l’esperienza che avevo, però l’America era questa cosa mitica. Il garage mi poneva su un piano di vantaggio rispetto alle gallerie americane che erano tutte intrappolate dentro i grattacieli, non ce n’era una con questa disponibilità diretta sulla strada. Non avevano spazi reali, erano spazi asettici, dovevi prendere l’ascensore e salire, che so, al quindicesimo piano. Io mi sentivo vincitore avendone uno underground. Avevo la percezione di essere avanti, di aver superato tutti. Infatti la consacrazione della perfomance arrivata a maggio 1969 nel garage de L’Attico, non in America. Là c’era il materiale umano, scultori, musicisti e danzatori si scambiavano concetti fra loro, c’erano tutte le premesse in atto del fenomeno performance, però le gallerie non lo recepivano, non gliene fregava assolutamente nulla. Io invece percepii, con l’aiuto di Simone Forti, gli scambi vitali che gli artisti visivi avevano con artisti di altre discipline. Per di più avevo lo spazio giusto, il garage, e portai la performance a Roma. Il Piano inclinato di Simone è stata la prima performance in assoluto in galleria.
GP: C’era con i torinesi anche un po’ di rivalità?
FS: Beh, si, inizialmente i torinesi non amavano Kounellis, perchè dicevano che era troppo poeta.
GP: Chi diceva questo secondo te?
FS: Probabilmente Pistoletto. Pistoletto aveva un rapporto con Pascali, me lo presentò Pino. Infatti ancora a Piazza di Spagna ci fu la mostra dei suoi specchi, ambientati scenograficamente tra colonne finto-doriche prese in prestito da Cinecittà. Inoltre c’era un vero guardaroba per attori, costumi che i visitatori indossavano specchiandosi. Tra Michelangelo e Pino ci fu un breve intenso sodalizio. Poi Pino morì.
GP: La morte di Pino ti ha un po’ scaricato? Demotivato?
FS: Anzi, al contrario, perché io già cercavo un certo tipo di spazio per la galleria fin da quando avevo esposto il Mare, uno spazio non contemplativo, e con Pino lo stavamo cercando, ma quando lui morì non lo avevamo ancora trovato. Mi ricordo che lui mi spronava a prendere un negozio su strada in via dei Greci. Lui, che mi aveva portato a fare il salto, stranamente si teneva più cauto, io invece ero disposto a rischiare il tutto per tutto. Qualche mese dopo la sua morte presi il garage che risultò essere uno spazio veramente rivoluzionario, l’altro di via dei Greci diventò una boutique come ce ne sono tante, cioè non era il vero salto.
GP: In fondo tu giocavi più cinicamente con l’arte, mentre lui ne aveva un rispetto più sacrale.
FS: Forse. Per me il garage rappresentava una specie di rivoluzione estetica parallela a quella politica in atto.
GP: Il rapporto con Pino Pascali è stato uno dei più forti con un artista?
FS: Intanto per l’età in cui si e più passionali, e poi Kounellis non mi corrispondeva fisicamente, io sono sempre stato uno sportivo, e Pino lo era. Mi ricordo che da San Marino scendevamo a Rimini e giocavamo in un Luna Park al cazzottone che faceva salire una colonna di liquido, mi pare, e facemmo pari.
GP:: Era forte lui?
FS: Sì, era forte.
GP: Ma lui era più piccolo di te?
FS: Un pochino, 4 o 5 centimetri, però era anche stato ciclista, manovrava abilmente gli strumenti, si impegnava fisicamente nel lavoro.
GP: Ma voi siete stati innamorati?
FS: Io e lui? Mentalmente, forse. Ma lo posso dire oggi, prima non lo potevo nemmeno capire. Mi ricordo che mi faceva delle scenate di gelosia se ci davamo un appuntamento da Rosati e io ci andavo con una ragazza. Io non sono omosessuale, non ho mai avuto rapporti con gli uomini.
GP: Ma lui aveva una carica sessuale forte?
FS: Sì, ce l’aveva, ma la questione era molto complessa, lui stava con Maria, la moglie attuale di Pistoletto, e la presentò lui a Michelangelo. Quando i due fecero coppia fissa, allora, si mise a regalarle degli anelli fatti da lui, con ciuffi di pelo blu, delle cose pazzesche, dei gioielli strani. Era come se, stando ora col suo amico, potesse amarla più liberamente. Qualcosa di complesso c’era, e infatti Maria è rimasta felicemente con Michelangelo.
GP: Ma Pino aveva le ossessioni tipicamente italiane del Sud Italia, per quanto riguarda il sesso, oppure rappresentava una parte secondaria della sua vita?
FS: Non lo so, il lavoro di Pascali fino a un certo punto ha una simbologia sessuale.
GP: Ma io volevo chiederti: la sessualità era solo questa?
FS: Non dico solo questa, ma principalmente questa.
GP: Magari la sessualità naturale ne veniva leggermente ridotta.
FS: Può essere, la motocicletta stessa era erotica, tutto era erotico intorno a lui, era molto carnale la sua presenza.
GP: Lui è stato molto corteggiato da critici omosessuali, immagino.
FS: Penso di sì, c’erano molti bei giovani artisti a Roma in quel periodo. Kounellis non lo era, per esempio, e gli omosessuali non lo amavano, però io l’ho preso in galleria fregandomene del suo aspetto; ê stato uno dei pochi casi che posso additare perché probabilmente si potrebbe dire che mi piacciono gli artisti belli… Bisognava che mi corrispondessero anche fisicamente perché ci fosse quel rapporto intenso che ti dicevo prima. Tant’è vero che la sostituzione, quando morì Pino, non avvenne immediatamente. Con Kounellis ci fu lo scoppio dei cavalli, poi io gli offrii, nel’72, di inaugurare anche via del Paradiso, ed era una grossa cosa in quel momento, perché avendo fatto piazza pulita con il garage, la puzza di benzina, le frenate, il sudore dei danzatori, ti trovavi in questo spazio connotato da fregi e soffitti affrescati. Dare la prima chance di una mostra in quel luogo ad un artista era un bel vantaggio. Gianni fece una specie di retrospettiva, molto bella. Poi presentai Paolini, il suo lavoro calzava a pennello, mi faceva capire l’avvitarsi dell’arte su se stessa. Stavo dicendo che non mi potevo completamente identificare con Kounellis e lì lanciai De Dominicis. Però era diverso. Intanto non eravamo coetanei, lui ha 7 o 8 anni meno di me, e poi era concettuale rispetto alla lana di Kounellis e all’acqua di Pascali, era più rarefatto, non si vedeva quasi più l’oggetto.
GP: Ma questi tuoi artisti, Pascali, Kounellis, Mattiacci, ecc., avevano anche un’attitudine alla strategia?
FS: Pascali ce l’aveva, nel senso dell’accaparrarsi, dell’avocare a sé il consenso dei critici più importanti come Argan, Brandi, Bucarelli, Boatto, Calvesi, Menna, Rubiu. Mai ci fu un tale consenso di critica intorno ad un artista cosi giovane che esponeva da un paio d’anni. Forse, nel caso dei romani, l’unico analogo in tempi attuali è Nunzio, anche se non so se sia legittimo fare paragoni tra Pascali e Nunzio.
GP: Quindi, forse, Pascali aveva capito che il successo, la notorietà passava attraverso il consenso, specialmente della critica.
FS: Sì, questo era molto chiaro in tutti noi, tant’è vero che per me fin dall’inizio è stata un’esigenza culturale e al catalogo con la presentazione sono ancora affezionato, anche se negli anni 60 e 70 sparì. Non avevano più, i critici, gli strumenti per leggere le cose che facevo, cose effimere, bruciate nell’attimo, e quindi il catalogo era diventato una forma elefantiaca, più lenta. Infatti pubblicai Album, un volume fotografico e autobiografico.
GP: Cos’era successo a quel tempo, per cui eri sotto analisi?
FS: Dopo la morte di Pascali tutta la mia nevrosi è deflagrata. La perdita era stata enorme, certi nodi venivano al pettine. Avevo fatto già un lavoro molto buono con mio padre, il modello di mio padre era questo: la galleria, e poi alla sera il rifugio nella sua casa borghese. Cioè nel suo privato non filtrava più niente di quel mondo artistico. Invece frequentando io giorno e notte artisti coetanei più disinibiti di me sul piano del comportamento, anche se non immuni da nevrosi, non potevo più separare pubblico e privato.
GP: L’analisi era un’esperienza intellettuale o una necessita?
FS: Necessità, molto forte, probabilmente mi sarei suicidato, non scherzo.
GP: Una volta Carandente mi disse una cosa molto dura nei tuoi confronti a proposito di Pino: che to ti eri intestardito a non volerlo portare in Svezia da un famoso chirurgo che operava al cervello. Ti ricordi?
FS: Se ne dicevano tante, eravamo tutti sconvolti. Nell’incidente di motocicletta l’impatto della testa di Pino col suolo era stato cosi forte che la materia celebrale gli era uscita dalle orecchie, a quel punto non c’era molto da recuperare. Rimase più di una settimana sotto il polmone d’acciaio, dopo che l’avevano già operato al cervello, e poi se fosse riuscito a vivere in quali condizioni sarebbe rimasto? Io ricordo che guardavo i crani e le nuche degli artisti presenti nell’anticamera della sala di rianimazione e mi dicevo: perché proprio la testa di Pino e non la loro? Era la disperazione che mi faceva pensare cosi.
GP: Ma l’incidente come avvenne esattamente?
FS: Un’automobile fece un’inversione ad U al Muro Torto, una manovra severamente vietata, e Pino bloccò la sua motocicletta. Ma la frenata lo proiettò oltre il tetto dell’automobile facendolo atterrare al suolo senza casco. Paradossalmente il fatto che fosse un uomo forte — la frenata — l’ha perduto. In precedenza avevo organizzato al museo di Wiesbaden una mostra con Bignardi, Kounellis, Lombardo, Mattiacci e Pascali. Alcuni di noi andarono di persona. E mi ricordo che Pino volle recarsi assolutamente a una trentina di chilometri da Wiesbaden, dove c’era un costruttore artigianale di moto, famoso nel mondo, ne costruiva solo dieci esemplari all’anno, per comprarsi questa moto pazzesca. Nonostante questa sua passione Pino non era un vero centauro. I suoi compagni motociclisti dopo la sua morte dissero che era troppo emotivo per guidarla bene. Ed io lo avevo sperimentato tornando indietro da Parigi in macchina dopo la mostra da Iolas, lui guidava e io avevo paura, andava troppo sotto ai camion, insomma ti sentivi in pericolo con lui sia sulla moto che in auto.