Pubblicato originariamente su Flash Art Italia n. 257 aprile—maggio 2006.
Quando La Tartaruga a Roma si rifiutò di esporre le Armi (1965) di Pino Pascali, l’artista reagì noleggiando un camion e trasportando il lavoro a Torino, dove la Galleria Gian Enzo Sperone aveva accettato di esporlo. Sembra che il gallerista di Pascali considerasse il suo nuovo lavoro inaccettabile, derivativo rispetto alla Pop Art. Sperone, da parte sua, non muoveva questo tipo d’obiezioni; aveva presentato mostre di Roy Lichtenstein, James Rosenquist, Andy Warhol, e Jim Dine, e allestito una collettiva intitolata “Pop Art” in cui aveva incluso i “quadri specchianti” di Michelangelo Pistoletto. Era stato Pistoletto, infatti, a suggerire d’invitare Pascali a esporre le sue Armi da Sperone, in una mostra che inaugurò nel gennaio 1966.
Retrospettivamente, la mostra rappresentò un crocevia, un momento decisivo per gli artisti; sia Pascali che Pistoletto stavano sviluppando un metodo di lavoro che era basato sulla massima autonomia nei riguardi delle pressioni esterne, sia del mercato sia rispetto alle aspettative su come un artista avrebbe dovuto operare. Questi artisti erano particolarmente sensibili al fatto di essere etichettati o alla richiesta di seguire un determinato stile o usare particolari materiali. In un’intervista con la critica Marisa Volpi della rivista Marcatrè, Pascali dichiarò che lui e Pistoletto condividevano il rifiuto a identificarsi con un singolo corpo di opere o di tecniche. Aggiunse che sarebbe stato pericoloso: “Altrimenti diventa un fatto mitico, invece tutto deve essere aperto, non compromesso. Appena hai fatto una cosa, la cosa è finita. Anche quello che uno dice deve lasciare adito a molte possibilità, non chiudersi in una affermazione”.
A un visitatore che avesse visto ciascun ciclo di opere di Pascali separatamente, poteva essere perdonato il fatto di pensare che si trattasse di lavori di artisti diversi. Nei quattro anni che precedettero la sua morte, nel settembre 1968, Pascali reinventò se stesso continuamente con un’audacia e una genialità che ispirò meraviglia e ammirazione sia fra i suoi compagni artisti che fra i critici. Un primo apprendistato registrò esperimenti più esitanti e derivativi. Araba Fenice (1959) è un collage tridimensionale neo-dadaista che unisce una serie di materiali e oggetti trovati, fra cui una ruota di bicicletta, l’ala di un deltaplano, e un ombrello. Della Fenice restano solo delle fotografie poiché si tratta di uno di quei primi lavori, distrutti dal padre dell’artista, per sua stessa volontà, dopo la morte. Queste immagini mostrano l’artista in strani equipaggiamenti, testimonianza del suo amore per la performance improvvisata e il gusto per il fantastico e il mitologico. Con Armi, Pascali, dopo un periodo in cui aveva lavorato soprattutto con la tela, tornò ad usare materiali simili a quelli dell’Araba Fenice: scarti metallici, specialmente parti di automobili rottamate. Tuttavia l’intenzione non era più quella di usare i frammenti in sé, per esaltare le caratteristiche delle parti usate e usurate, o per creare giustapposizioni bizzarre. Invece Pascali mascherò la natura e la precedente funzione dei materiali con una stesura di pittura verde mimetico. La vernice mimetica nascondeva anche i segni dell’intervento artistico: gli oggetti non sembravano opere (diversamente dall’Araba Fenice) e così, paradossalmente, il mimetico li faceva apparire fuori luogo nel contesto della galleria. Come per molte delle opere, dalla serie dei “Quadri oggetto”, al Bacino di donna (1964) e all’Omaggio a Billie Holiday (1964), fino alle “sculture bianche”, come la Decapitazione della scultura ( 1966), la qualità della superficie è ciò che interessa a Pascali. Essa crea un’apparenza ingannevole, la finzione della rappresentazione. Pascali amava mettere per iscritto i titoli, come per C-A-N-N-O-N-I: ciascuna lettera vista come carattere o fonema isolato che poi si unisce in una parola. La sua pratica formale rigorosa e precisa è linguisticamente consapevole, una caratteristica che lo ha reso attraente specialmente agli occhi di un artista come Alighiero Boetti il cui Mimetico (1966) entrò in giocoso dialogo con le “Armi”. Pascali parla dello spettatore che mette in relazione l’oggetto all’idea o immagine mentale piuttosto che alla “realtà manifesta”. Allo stesso tempo, mette in atto una deliberata provocazione politica: la famosa Colomba della pace (1958) di Picasso è un uccello bianco stilizzato con un ramo d’ulivo; l’opera di Pascali dallo stesso titolo è una bomba.
Gli storici e i critici italiani hanno teso a sminuire il significato dell’arte e della cultura americana per gli artisti italiani degli anni ’60. La sua influenza è stata letta in termini di prestiti marginali e citazioni, con poche conseguenze per una poetica con differente tradizione ed evoluzione. Oppure l’arte statunitense è stata assimilata alla Pop Art e considerata inseparabile dalla società dei consumi o dalla civiltà dell’immagine. Al contrario, l’artigianalità e gli attributi d’unicità dell’arte europea sono stati contrapposti alla produzione industriale e seriale che si sostiene caratterizzi l’arte Minimal e la Pop.
Nel caso di Pascali e della serie dei “Quadri oggetto”, le tele centinate che rappresentano parti del corpo femminile (labbra, busti, sessi) si pensa abbiano una vaga somiglianza alle immagini erotizzate di Tom Wesselmann. Il sovradimensionamento di oggetti a monumenti, o, nell’esempio di Colosseo (1964), il sottodimensionamento di un monumento a oggetto, è legato ai lavori di Claes Oldenburg dei primi anni’ 60. È noto inoltre che Pascali come Oldenburg desiderasse sabotare la scultura tradizionale e la sua idea di massa e volume. Questi paralleli, tuttavia, sono spesso considerati poco rilevanti. Maggiore importanza è data alla consumata maestria di Pascali e a modelli derivati dagli archetipi della cultura mediterranea, piuttosto che dai tabelloni pubblicitari americani.
La comprensione di Pascali come artista essenzialmente italiano, porta in primo piano fonti più vicine a casa: le bestie favolose all’entrata della Basilica romanica di San Nicola a Bari; le rocce e la costa vicina alla casa dei genitori in Puglia; la statuaria barocca romana, come l’elefante con l’obelisco in Piazza della Minerva; i monumenti neoclassici con il loro gelido marmo bianco e la loro accentuata stilizzazione; o, in tempi più recenti, il programma di Giacomo Balla e Fortunato Depero per la “Ricostruzione futurista dell’Universo”; gli esperimenti di Alberto Burri e Piero Manzoni con svariati materiali, naturali e sintetici.
Tuttavia, l’enfasi sull’italianità o l’identità mediterranea di Pascali non rivela ciò che è veramente radicale nella sua opera, se non si analizza come l’artista abbia giocato con identità e tradizione, grazie anche ad influenze culturali esterne. Ogni generazione di artisti italiani del Ventesimo secolo, dai Futuristi all’Arte Povera, si è dovuta inevitabilmente confrontare con l’imponente presenza del suo patrimonio culturale. Pino Pascali rivelò alla critica Carla Lonzi di sentirsi intrappolato e inferiore, trovandosi in uno spazio come quello della Cappella Sistina, e che “per vincere queste immagini, dobbiamo vederle freddamente e, proprio fisicamente per quello che sono e verificare che possibilità hanno per poter esistere ancora. Se questa possibilità è una finzione, uno accetta la finzione”.
Nella generazione precedente, artisti come Lucio Fontana e Alberto Burri, non sperimentarono questo tipo di ansia esistenziale e senso di mancanza d’appartenenza culturale. Pascali aveva la sensazione travolgente di essere minacciato dal vuoto o di esserne all’interno. Tuttavia piuttosto che tentare di riempire il vuoto producendo monumenti progettati per durare, “vere” sculture di bronzo o marmo, Pascali costruì quel vuoto dentro al suo lavoro. Se Pascali evoca gli archetipi di antiche civiltà e mondi naturali scomparsi, o se usa forme evocative della statuaria di marmo bianco o rovine portate alla luce, lo fa unendo liberamente immagini e materiali legati alla vita quotidiana. Non si tratta di una strategia di demistificazione. Pascali vedeva la galleria d’arte come una specie di chiesa e l’artista come la persona che si serviva dei suoi pulpiti e dei suoi altari. Senza la galleria, l’artista era solo un altro artigiano. Il punto non era di distruggere l’Arte come Dada, ma reinventarne continuamente le forme. Per Pascali questa compulsione a innovare non fu mai questione di moda, sebbene fosse cosciente che l’innovazione era un elemento motore del sistema socioeconomico contemporaneo.
Invece Pascali affermò che il lavoro doveva essere nuovo ai suoi occhi, non semplicemente agli occhi degli altri. Produrre nuovi lavori era un imperativo esistenziale analogo alla necessità biologica del serpente di cambiare pelle. I suoi contemporanei rimarcarono quest’energia inesausta. Luciano Fabro descrisse Pascali come: “Uno che si sentiva di dover nuotare a tutto fiato per poter stare a galla”. Il critico Marisa Volpi notò la sua costante attenzione a ciò che gli stava intorno: “Vede un materiale peloso e blu, pensa di fare un ragno; passa vicino ad un termosifone e vuol fare un oggetto che emani calore. Lui è il tipico artista che non cerca, ma trova”. Se Pascali, da giovane, era più rispettoso delle gerarchie culturali, più tardi prese confidenza nella sua abilità di disegnare immagini “dall’interno”: immagini legate alla sua infanzia, alle sue fantasie sessuali, ai grandi magazzini, alle pietre per lastricare e alle pozzanghere, ai fumetti, alle storie d’ avventura, ai film di Tarzan. La sua immaginazione era nutrita più dalle immagini che dai testi, più dalla narrativa pulp che dalla letteratura.
Pascali lavorò per un po’ per una piccola compagnia cinematografica vicino agli studi di Cinecittà, aiutando nella produzione di corti pubblicitari ricchi d’immagini sui “costumi di gente esotica”. La sua ricerca fu specialmente nutrita d’immagini africane, un tipo d’immaginario coloniale pieno di danze tribali e animali (rinoceronti, zebre, elefanti, e giraffe).
Molte fotografie, rifotografate e ritoccate, migrarono verso lo studio di Pascali. Essendosi diplomato in scenografia all’ Accademia di Belle Arti di Roma con Toti Scialoja, Pascali ottenne, per circa quattro anni, un lavoro, come scenografo per la RAI, lavoro che non abbandonò fino al 1967, quando iniziò a dedicarsi a tempo pieno alla sua opera. Il lavoro commerciale e le fonti culturali popolari dell’arte di Pascali non sono state esplorate a fondo fino a poco tempo fa. Ci sono diverse ragioni plausibili per questa reticenza, non ultimi, come Carla Lonzi commentò immediatamente dopo la Biennale di Venezia del 1964, certi atteggiamenti culturali radicati:” I nostri moralisti […] si sono chiesti se un’arte che facesse ricorso a oggetti e immagini preesistenti, frutto di una civiltà tecnologica dovesse interpretarsi come una denuncia di detta civiltà oppure come una colpevole accettazione di essa.” La precisione e concisione delle “sculture bianche” di Pascali suggerisce un occhio affinato dall’apprezzamento dei fumetti con il loro linguaggio metonimico elementare e condensato: le pinne nere sono tutto quello che necessita per immaginare gli squali; il gibbo nello spazio vuoto evoca il contorno familiare dell’immagine popolare del mostro di Lochness. B.C., uno dei fumetti preferiti da Pascali, comprendeva perfino un dinosauro crestato fra i protagonisti.
L’ingegnoso ponte sospeso (Ponte, 1968), le Liane (1968), e la Trappola (1968), sono tutti ispirati ai film di Tarzan. Pascali aveva pure una scimmietta domestica chiamata Cita. L’arco di Ulisse (1968) e Penne di Esopo (1968) alludono al mondo antico, ma come nota Pietro Marino: “la cultura ‘agraria’ di Pascali sta nell’evocazione di un Mito che nasce dentro e non contro la cultura mass-mediale”.
Tuttavia, ciò che è importante è la risemantizzazione del mito e della fiaba che Pascali opera. Un punto di riferimento importante qui è Roy Lichtenstein, forse l’artista Pop più ammirato dai contemporanei italiani; parlando del ruolo della fiction nel determinare l’identificazione, Pascali disse: “Lui [Lichtenstein] in fondo è così: ridipinge il quadro di Picasso con il metodo dei fumetti. Io fingo di fare delle sculture, ma che non diventino quelle sculture che fingono di essere: voglio che diventino una cosa leggera, che siano quello che sono, il che non spiega proprio niente”.
Quando guardiamo Ponte più da vicino, per esempio, scopriamo che non è fatto di materiali naturali ma di pagliette di lana d’acciao. È da notare che il termine “lana d’acciao” sposa il manufatto con il naturale (come, tra l’altro, fa l’inglese “steel wool”), il che deve aver deliziato Pascali, artista che amava giocare con le parole. I suoi Bachi da setola (1968) sono fatti di spazzole di materiale acrilico (setole acquistate alla UPIM) — opere dai colori sgargianti che si riferiscono, attraverso il titolo, ma anche per la loro forma, al baco da seta. I materiali di una società industriale e tecnologica sono usati per creare oggetti-immagine appartenenti a qualche perduta arcadia naturale.
Pascali chiamava il suo lavoro “finte sculture”. Se le sue Armi si riferivano a una realtà contemporanea, i successivi cicli di opere evocavano una sorta d’universo parallelo. Fabio Sargentini, gallerista e amico intimo di Pascali, disse che l’artista aveva creato un'”arca di Noè”; inoltre, le “sculture bianche” erano non solo creature fittizie ma anche vuote e prive di peso, leggere abbastanza da essere sollevate e trasportate da una persona.
Pascali impiegava materiali naturali, ma lo faceva senza nessun dedizione all’autenticità o alle proprietà intrinseche. In Metro cubo di terra (1967) ricoprì un supporto di legno con della terra a creare un’illusione puramente visiva che non trasmettesse alcun senso di profondità o peso. Le opere che si servivano dell’acqua erano più complesse. L’acqua affascinava palesemente Pascali. I suoi studi fotografici di pozzanghere e di strutture nel mare esplorano la giustapposizione di rigido e fluido, linee geometriche e miriadi di riflessi. La sua opera più importante, nella personale alla Galleria L’Attico del novembre 1966, intitolata Mare consisteva di unità uguali di tela bianca centinata rappresentanti le onde, un lavoro che segnava un decisivo slittamento di orientamento dalla verticalità del muro all’orizzontalità del pavimento, coprendo lo spazio solitamente occupato dallo spettatore. Nel giugno dell’anno successivo, Pascali colse l’opportunità di una collettiva a Foligno per presentare un altro paesaggio marino, questa volta usando acqua reale distribuita in trenta bassi contenitori geometrici d’alluminio di uguali dimensioni. Questo lavoro, 32 mq di mare circa (1967), poteva cambiare configurazione, e Pascali aggiunse polvere d’anilina per variare il colore dell’ acqua da blu a verde. Tuttavia, qui l’acqua lo interessa principalmente per le sue qualità specchianti.
Il mare, diversamente dalla precedente versione, è piatto e immobile. Pascali riflette ingegnosamente il titolo della mostra “Lo spazio dell’immagine” nella sua opera. Tuttavia non è meno un lavoro di finzione delle sue tele, non ultimo perché l’acqua “riflette” un cielo blu. Come ha scritto il critico Vittorio Rubiu, Pascali produsse” un’acqua geometricamente modellata e sottilmente interpretata nella sua sostanza plastica e cromatica, quasi a conferirle una solidità altrimente inconcepibile con la sua natura”. Un altro critico disse che “Il mare di anilina… diveniva una vetrata, un pavimento, l’occhio liquido del cielo, la lama riflettente di uno smalto”. L’acqua, in altre parole, può essere qualsiasi cosa, pur continuando ad essere acqua.
Un mese prima, nel giugno 1967, alla storica collettiva “Fuoooooco Immmmagine Accqqqua Terrrrrra” tenutasi all’Attico di Fabio Sargentini, Pascali aveva presentato la sua prima opera che faceva uso dell’acqua, Pozzanghere, mentre Jannis Kounellis il suo primo lavoro che utilizzava il fuoco – una fiamma a getto al centro di un fiore di metallo intitolato Margherita. I saggi in catalogo di Alberto Boatto e Maurizio Calvesi spostavano l’attenzione sulla presenza di “elementi primordiali” su “le materie prime di cui gli antichi pensavano essere fatto l’universo”.
Termini chiave nel discorso critico dell’Arte Povera erano già stati delucidati diversi mesi prima che Germano Celant inventasse il termine per la mostra genovese del settembre 1967. Retrospettivamente, tuttavia, l’assimilazione di Pascali e Kounellis e l’ascrizione a una poetica condivisa appare chiaramente problematica.
Come Kounellis ha sottolineato, c’era una differenza fondamentale nel loro approccio: il suo mucchio di carbone all’Attico era solo quello — un mucchio di carbone; il cubo di terra di Pascali, d’altro canto, era non tanto terra quanto l’idea di terra. Pascali, in altre parole, rimaneva all’interno del dominio della rappresentazione. Gran parte del suo lavoro voleva rappresentare ciò che non esisteva, attraverso espedienti manifesti, e popolare un universo immaginario con figure del suo mondo interiore. Le differenze andavano anche oltre: il lavoro di Kounellis recava i segni della storia e del passaggio del tempo; quello di Pascali, al contrario, evocava mondi in cui la storia e il passaggio del tempo spiccavano per la loro assenza.
All’epoca — quando gli artisti dell’Arte Povera avevano raggiunto un crescente riconoscimento internazionale, grazie anche al termine che è entrato nella Storia dell’Arte — Pino Pascali sembrava evadere la categorizzazione.
Un lavoro che per Kounellis contiene “una certa idea molto poeticizzata della Pop Art”, non ha mai aderito perfettamente alle definizioni dell’Arte Povera sviluppate da Celant. La carriera di Pascali inoltre ebbe vita breve, se non meteorica, e solo 120 opere gli sono sopravvissute, poche delle quali sono state messe sul mercato. Questo aiuta a spiegare perché nel 1981 Pascali fosse un artista virtualmente dimenticato; Alberto Boatto lamenta: “Non ne scorgo traccia. È molto raro incontrare un’opera dell’artista in una mostra o in una vendita all’asta”. Le recenti grandi retrospettive, di Madrid nel 2001, e di Napoli nel 2004, e la vendita di opere importanti, hanno riportato Pascali sotto i riflettori. Ma egli rimane un artista che non ha ricevuto il tipo d’attenzione critica internazionale paragonabile a quella di altri artisti italiani della sua generazione. È possibile che proprio il carattere di leggerezza e giocosità della sua arte gli abbia impedito di essere preso seriamente? Le discussioni di Pascali con Carla Lonzi mostrano un artista consapevole del pericolo che il suo lavoro potesse essere interpretato come un’estensione della scenografia teatrale e conseguentemente squalificato dal punto di vista artistico.
I critici in Italia sono stati sensibili a questo rischio, e hanno risposto enfatizzando il suo posto all’interno di una gloriosa tradizione centenaria. Pino Pascali, tuttavia, rifiutò di cercare rifugio sia nella tradizione che nell’idea di arte.
Respinse anche la legittimità offerta dal conformismo politico e ideologico. Alla Biennale di Venezia del 1968, poco prima della sua morte, Pascali discusse apertamente con gli studenti dimostranti e volle esporre il suo lavoro quando la maggioranza degli altri artisti avevano ritirato il proprio; in una dichiarazione scrisse: “ L’artista deve essere isolato poiché solo così può responsabilizzare al massimo il proprio gesto, senza andarsi a cercare un appoggio collettivo”.