La doppia personale di Seth Price e Kristi Cavataro è un dialogo intergenerazionale tra due artisti newyorkersi che si interrogano sul senso dell’umano oggi, senza preconcetti né riverenze per il sistema. Nel loro lavoro impiegano processi meccanici di mondi non immediatamente riconducibili all’arte contemporanea, sedotti dalle relazioni tecno-simbiotiche che ridefiniscono azione e autorialità nella vita quotidiana. Price è artista, scrittore e compositore; interprete di un’arte in bilico tra significato, materiale e distribuzione che ha il suo precursore in Duchamp e il cui potenziale concettuale è amplificato dal digitale. Dai tempi del suo influente saggio-opera d’arte Dispersion (2002), Price fa un uso dissacrante delle discipline artistiche e della tecnologia, rifuggendo stili e definizioni. Cavataro, invece, millenial votata alla fisicità dell’analogico, propone una soggettività latente, che si esprime negli interstizi di una manualità che connota artigianato ma anche, con discrezione, la produzione industriale. Le loro appropriazioni esatte di tecniche e i rimandi comuni a membrane, cloni e forme ibride producono un senso di smarrimento nel visitatore, travolto da un misto di familiare e distopico, ma soprattutto abituato dalla società dell’informazione a un consumo immediato e bulimico che i due artisti non concedono.
Per la sua mostra “Before and After Writing”, Price triangola scrittura, riproduzione visiva e intento scultoreo in un leporello aperto su un tavolo che divide il salone di Palazzo Degas. Le pagine mostrano paesaggi naturali realizzati con una fotocamera sferica (HDRI) e un software di mappatura tecnologica; strumenti impiegati in ambito commerciale e forense per creare rappresentazioni realistiche di realtà virtuali a partire da migliaia di scatti digitali. Le immagini sono quindi intervallate da diciotto brevi testi scritti in prima persona plurale per dare voce a misteriose civiltà vissute prima dell’invenzione della scrittura, oltre 5500 anni fa. Qui Price affronta le preoccupazioni della società contemporanea con un intervento ironico e irriverente su guerre, macchine, pandemie e suprematismo bianco che coglie con distacco parascientifico e temporale il paradosso del progresso. A parete, intorno al leporello e in un’altra sala, opere in grande formato realizzate con tecniche miste, prevalentemente stampa, acrilico e gesso, sono popolate da maschere informi, alcune riempite con immagini di tessuto muscolare umano.
Queste apparizioni spettrali o fortemente realistiche sembrano suggerire delle presenze umane fuori dal tempo: siamo noi? Sono gli umanoidi di 20.000 anni fa, o come scrive Price “BCE before current era”?
Infine, la terza sala è una stanza d’ascolto dedicata alla musica elettronica sperimentale, con il nuovo disco vinile di Price e un cofanetto rimasterizzato delle sue tracce musicali dal 1994 a oggi, tra suoni sintetici e rumori di oggetti. Al muro, invece, ci sono i suoi disegni. Per l’opera Startup Era (2015) ne ha realizzati dieci, espressi e pronti all’uso: protagonisti sono caricature di animali umanizzati sulla falsa riga delle pubblicità della metropolitana di New York durante il boom di app come Uber. Più che ingenui, sono frivoli e triviali, come l’ottimismo consumistico generato dalla società turbo-capitalistica americana. Due disegni più recenti, Untitled (2020) e Forest Life (2021), indagano la relazione ambivalente dell’artista con il corpo durante il lockdown per la pandemia da Covid-19. Le figure sembrano colte nella pratica degli asana, le posture dello yoga, ma sono frammentate e impertinenti, distanti insomma dall’immagine composta e serena trasmessa dalla disciplina orientale.
La sensazione di straniamento prosegue tra le sculture in vetro senza titolo di Kristi Cavataro: una produzione omogenea dal punto di vista stilistico e formale, ma analogamente surreale, a tratti aliena. L’artista sceglie il vetro per le sue proprietà plastiche e per la capacità di contenere il colore in un modo intrinseco, che ne determina le caratteristiche di opacità e trasparenza, rispondendo alle condizioni esterne del luogo che lo accoglie come un elemento organico. La padronanza della tecnica “copper foil”, inventata dal maestro vetraio Louis Comfort Tiffany dei celebri Tiffany Studios di New York a fine Ottocento e perfezionata dall’Art Nouveau, permette all’artista di produrre un vocabolario astratto e sensuale di forme curvilinee con un distillato di elementi chimici – zinco, stagno e rame – che si insinua tra i tasselli di vetro. Le opere, collocate a pavimento e a parete come protesi dello spazio, sono strutture tubolari cave, involucri che ammiccano alla serialità del materiale, ma subito lo contraddicono, sfidando la forza di gravità con torsioni estreme, al limite della rottura. La ripetizione della stessa configurazione due o tre volte rivela leggeri disallineamenti e una certa tensione tra rigore strutturale e imprevedibilità del materiale che stimola una fruizione più scrupolosa delle sculture, comunque impenetrabili.
Per Cavataro sono oggetti fuori dal linguaggio, sospesi tra corpo e architettura, ma le dimensioni limitate sono l’indizio di una relazione primariamente fisica – e umana – tra artista e opera che ne determina peso, forma e fragilità. Anche le cromie sono lontane dall’effetto déjà vu di un’esperienza commerciale o culturale del vetro: sono traslucide ma anche torbide, sinistre, in contraddizione con le suggestioni rassicuranti del sistema di produzione usato da Cavataro, ma decisamente in dialogo con la natura esoterica e anticonformista dell’opera di Price.