Giù la maschera di

di 14 Maggio 2024

Massimiliano Gioni: Cominciamo dalla fine, con la domanda più ovvia: il Papa preso a sassate e poi, a un anno e mezzo di distanza, un Hitler bambino, che prega in ginocchio: cosa sta succedendo? Non hai più idee e sei a caccia di scandali?
Maurizio Cattelan: In realtà, non ho mai avuto idee: gli artisti non hanno idee. L’immagine del creatore ispirato a caccia di nuove emozioni è solo uno stereotipo, una sceneggiatura da film. Gli artisti macinano, filtrano, collegano e smontano: le idee, se arrivano, nascono da una pratica continua, dal traffico diretto con le cose. Le idee sono cortocircuiti dialettici.

MG: E lo scandalo?
MC: Lo scandalo è un incidente, un effetto collaterale. Io lavoro con le immagini, cercando di riflettere la schizofrenia del reale: lo scandalo lo fanno gli altri, quando cercano di imporre la propria interpretazione come l’unica verità possibile. Per me, invece, ogni reazione è lecita, perché innesca nuovi significati. In fondo gli oggetti sono solo proiezioni del desiderio, immagini di una lotta.

MG: In Polonia il tuo Papa ha scatenato una vera e propria rivolta. Cosa è successo esattamente?
MC: A dicembre ho presentato La Nona Ora in una mostra curata da Harald Szeemann in occasione del centenario della Galleria d’arte moderna di Varsavia. Durante una visita ufficiale, due deputati cattolici si sono scagliati contro la scultura, cercando di liberare il Papa dal peso del meteorite. Era un’azione premeditata, accompagnata da una lettera-manifesto che è finita subito su tutti i giornali polacchi. Il caso poi si è trascinato in Parlamento, dove La Nona Ora è diventata un pretesto per chiedere le dimissioni della Direttrice del museo, che è stata attaccata per le sue origini ebraiche e accusata di voler infangare i simboli della religione cattolica.

MG: Anche la tua era una manovra decisa a tavolino? In fondo siamo quasi ai livelli di Charles Saatchi: fai una scultura di un Papa lapidato e la presenti in Polonia…
MC: Dietro a ogni mostra c’è sempre un invito. In questo caso l’idea era partita da Szeemann, che voleva restituire il Papa ai polacchi. A me piaceva l’idea che questa scultura potesse viaggiare alla stessa velocità del Papa. Wojtyla è stato il primo Papa mobile, il primo Papa televisivo: la sua immagine si è moltiplicata, in mondovisione. Proprio per questo, non mi aspettavo che La Nona Ora potesse indignare qualcuno: pensavo fosse impossibile scambiare un’immagine per la realtà, ma evidentemente la religione, come la pubblicità, ha ancora il potere di trasformare il fumo in arrosto.

Untitled, 1998. Poliestere, abiti, tessuto, 218 x 140 x 60 cm. Collezione Privata. Foto: Armin Linke.
Untitled, 1998. Poliestere, abiti, tessuto, 218 x 140 x 60 cm.
Collezione Privata. Foto: Armin Linke.

MG: Cosa credi che succederà al tuo Adolf Hitler?
MC: Questa volta volevo essere io a distruggerlo. Ho cambiato idea mille volte, ogni giorno: Hitler è un’immagine che fa paura, con la quale è ancora doloroso misurarsi. È una visione che è entrata a far parte della nostra memoria, eppure resta un tabù: Hitler è innominabile, irriproducibile, avvolto in una coltre di silenzio. Non sto cercando di innescare un conflitto né di offendere nessuno, vorrei solo che quell’immagine diventasse un territorio di incontro o una cartina al tornasole delle nostre psicosi.

 

You can count on Me

MG: Tutto il tuo lavoro sembra un tentativo di detronizzare l’autorità: Picasso trasformato in una caricatura di se stesso, una versione miniaturizzata di Beuys messo in castigo in un angolo, i tuoi galleristi costretti a interminabili riti di umiliazione, i musei obbligati a pagarti una vacanza, magari proprio mentre due guardie tengono accese le luci di una galleria, pedalando all’infinito su biciclette nascoste in cantina. Ora la posta in gioco si è fatta più alta: l’attacco è contro il Papa e contro Hitler, ridotti però a maschere di cera. Non è troppo facile prendersela con i manichini?
MC: Mia madre diceva sempre che è impossibile pulire i vetri, se non vedi dove è sporco. Per essere sconfitto, il potere va prima avvicinato: bisogna stanarlo, rimpossessarsene, replicarlo all’infinito, come in laboratorio. Esercitarsi anche sui manichini, se necessario. Ogni sistema ha le sue leggi, che vanno imparate a memoria per capirne le debolezze, per non restare anestetizzati.

MG: È per questo che usi immagini scioccanti?
MC: Quando ero piccolo, i miei vicini erano quasi tutti ebrei. Nelle loro case non c’erano immagini sacre, mentre i miei genitori avevano ricoperto le pareti con dipinti di santi e Madonne. Forse la mia ossessione per le immagini viene da lì, da quelle case nude e dalla superstizione della mia famiglia: ho imparato a temere le icone, e allo stesso tempo ho capito che non ti puoi fidare di nessuna immagine.

MG: Eppure tutta la tua opera ruota attorno al potere delle immagini e dell’informazione: anzi c’è chi dice che sei solo un pubblicitario.
MC: La pubblicità è una macchina da consensi: pretende di dire la verità. L’arte al contrario è condannata a mentire. Bugie tutti i giorni. Le migliori opere d’arte non esprimono mai giudizi morali, non prendono posizione. Sono lì a restituirci la tragica complessità del banale.

MG: Quella di impostore è un’altra accusa che ti viene mossa molto spesso: a molti dà fastidio che il tuo lavoro sia solo una parodia della rivoluzione, che in realtà nasconde un irrefrenabile desiderio di potere.
MC: Il problema è che non puoi tagliarti un orecchio tutti i giorni, fare un po’ di Van Gogh e un pizzico di Jackson Pollock. Ci sono momenti in cui sei annoiato, solo o spaventato: ti svegli alla mattina e non sai cosa dire e un’ora dopo sei in macchina, intrappolato nel traffico a parlare da solo. E poi magari vai in un ufficio e fai un bel sorriso alla segretaria e una carognata contro un collega. Io sono solo un prodotto di questa situazione, come te o come chiunque altro. Siamo tutti complici, tutti dalla stessa parte della barricata, costretti a cambiare ruolo, in bilico tra generosità e parassitismo.

 

The third man

MG: Il teatro è un’altra costante del tuo lavoro, con le tue maschere di lattice, gli alter ego, i “Mini-me”, e i cani immobili negli angoli, come sul set di un film di serie B.
MC: Il teatro è una funzione biologica: viviamo intrappolati in una performance senza fine, nella quale continuiamo a rimettere in scena noi stessi.

La Nona Ora, 1999. Poliestere, cera, pigmenti, capelli umani, abiti, accessori, pietra, vetro, tappeto, dimensioni variabili. Veduta dell’installazione presso la Sala delle Cariatidi, Palazzo Reale, Milano 2010. Foto: Zeno Zotti.
La Nona Ora, 1999. Poliestere, cera, pigmenti, capelli umani, abiti, accessori, pietra, vetro, tappeto, dimensioni variabili. Veduta dell’installazione presso la Sala delle Cariatidi, Palazzo Reale, Milano 2010. Foto: Zeno Zotti.

MG: Qual è il tuo ruolo? Buffone di corte o artista?
MC: E il tuo? Bugiardo o giornalista?

MG: In realtà si dice che tu non faccia proprio niente, che la tua opera vada avanti a furti, copie, fotografie strappate dai giornali e trasformate in installazioni.
MC: Ho solo cercato di trasformare la mia debolezza in forza, come fanno tutti: le opere d’arte, anche quelle più misteriose, non sono mai il prodotto di una sola persona. Sono il risultato di una contrattazione tra l’artista e la società. In arte, come nella vita di tutti i giorni, non esistono fatti, ma solo interpretazioni. D’altra parte nessuno ha mai chiesto a Orson Welles perché non ha riscritto il Macbeth invece di limitarsi a dirigerlo. Le immagini e le idee sono lì, appartengono a tutti, a volte basta solo cambiarle di posto. Il problema è che non puoi tracciare mai un confine preciso tra te e il mondo. E io senza gli altri sono vuoto.

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