Tamar Magradze “Thick Skin” eastcontemporary / Milano

10 Maggio 2024

“All’aperto si diventa astratti e impersonali. La nostra individualità ci abbandona del tutto. E poi la Natura è talmente indifferente, talmente impassibile.”

Oscar Wilde, The Decay Of Lying

eastcontemporary è lieta di presentare “Thick Skin”, una mostra personale di Tamar Magradze, un’artista multimediale con sede a Berlino originaria di Tbilisi. La mostra presenta una selezione di dipinti ad olio recenti di Magradze, un medium in cui ha (ri)scoperto la propria pace artistica successivamente alla pratica indipendente dal suo principale strumento di lavoro, l’immagine in movimento, pur attingendo e tornando a confrontarsi con il suo background di nuovi media. Mentre il suo lavoro basato sullo schermo esplora gli scambi socioeconomici attraverso una vasta gamma, che siano gli aspetti burocratici dei regolamenti dei programmi di migrazione, la consapevolezza meta dei sistemi monetari o la transitorietà lucida del tempo nel lavoro di routine, il suo particolare allestimento della mise-en-scène pittorica offre un ritratto esposto piuttosto che espressivo, psicoanalitico, di un soggetto di fronte a un pericolo dialettico. La depressione dello spirito senza una causa apparente, secondo la definizione classica di malinconia, è espressa nei dipinti di Magradze molto prima di immergersi nella loro caratteristica specificità, ma nell’urgenza artistica di parlare nel ritratto, di parlare nel paesaggio.

Dipingere un paesaggio è un processo inscindibile della pratica pittorica ortodossa — ogni artista accademico deve studiarlo. Tuttavia, è solo con ansia ed emozioni tormentate che un artista contemporaneo dirige il suo occhio scrutatore verso l’assolutamente scomodo e il più innaturale per l’umanità — la natura. Magradze si occupa di questi due, sebbene contrastanti, aspetti organici, la trama fisica e metafisica di una persona e di un paesaggio, con pari apprensione e decisioni estetiche coerenti. Sfocare, esagerare e ingrandire e rimpicciolire un paesaggio può essere visto come un gioco visivo spensierato, ma c’è qualcosa di particolarmente politico, persino controverso. Se un ritratto acquisisce un contesto fortemente politico in quanto, il sentimento personale emotivo è politico, assieme alle domande che ne derivano, il potenziale del paesaggio è di diventare uno strumento politico condizionato dall’approccio dell’artista ad esso. L’esecuzione concisa di Magradze, di genere tradizionale, nasce dalla cecità coltivata dello spettatore nei confronti della natura, da lontano, quindi la nebbia e la foschia, un senso di sfocatura e distacco. Elementi, né completamente apocrifi né documentari, tracciano i motivi del lavoro presentato, cucendo insieme in realtà antipodi modi di essere e modi di rappresentazione, seppur rimanendo intenzionalmente apatici.

Questa sottomissione volitiva agli aspetti irritanti dell’esistenza transitoria serve come momento prolifico di ringiovanimento e perseveranza, una catarsi. Sorge la questione del predominio e della gravità della metamorfosi, senza parlare del gesto “Beconiano” di chiamare una collina; È una montagna che si trasforma in un volto o il volto che si ingrandisce cosmicamente in una montagna? È il callo che permea il suolo della pelle o lo spazio interno che perde le sue pareti riparanti di fronte a una pianta che sboccia? Attraverso l’indifferenza perfezionata, i personaggi ambivalenti di Magradze sfuggono all’antropocentrico, così come all’animismo incitato e forzato. È inequivocabile che il peso della leggerezza delle figure sospese non denoti proprietà di apparizione ma la loro quiete anacronistica, una lacuna nell’avvolgimento fallace e una scivolosità del movimento cinematografico della resa idiosincratica di piani multipli, sovrapponendo paesaggi naturali e creature trasformate di origine antropomorfa, le immagini, impregnate di pennellate decise, plasmano una scena che si svela attraverso un’accordatura di strati che invece attraversano un singolo fotogramma visivo.

L’imperturbabilità, suggerita dal titolo della mostra “Thick Skin”, offre un’idea dell’interesse politico dell’artista per la superficie marginale di un dipinto. L’abbandono delle barriere, sia esse il proscenio nel teatro o il vetro riflettente del museo sopra un dipinto su tela esposto al museo, garantisce convenzionalmente il rinvigorimento dell’interesse emotivo del pubblico attraverso il contatto visivo interpersonale, i personaggi di Tamar Magradze fissano tra le sopracciglia, occhi vuoti e sguardi palpabili, anche nei casi dell’annullamento della percezione sensoriale come in Yellow, suggeriscono un brusco cambiamento di direzione nella sua mise-en-scène pittorica, come ad avvicinarsi e premere la faccia su una presunta barriera di vetro. Attraverso la nota psicologica sottostante di ‘sbattere le porte nel silenzio dorato’, un riferimento dalla farsa futuristica di Jacques Tati, questi personaggi che fissano interrogativamente trascendono l’assunto archetipico rurale e gettano luce civica contemporanea sui volti alieni e sui paesaggi ‘di sfondo’ astratti alla proiezione virtuale nella loro materialità.

I ritratti di Magradze dal tono verde, che tracciano paralleli con lo stile del pittore maverick del XX secolo, Natela Iankoshvili, passano attraverso la lente della sincerità artistica simile a quella di Kirchner, fanno eco al bagliore sintetico associato alla vita quotidiana adatta allo schermo e al compagno integrale della sua pratica di nuovi media; La luce artificiale iper-satura affatica le pelli dei suoi personaggi introversi, diventando complice nell’annotazione artistica sul fisico e sullo spirituale, o sulla loro mancanza. Con l’utilizzo di una visione parzialmente negatività , ma essenziale nella sua esistenza, sognando oggetti frontali, l’artista flirta con il mondo, ovvero con la natura imbarazzante. Nel circuito chiuso dell’oggettività del creativo, dove il sentimento espresso nel ritratto di una figura fittizia in vegetazione iperbolizzata rimane molto personale, il personale diventa antropologico. I lavori iniziano a servire come microcosmi che rilasciano la capacità peculiare di tornare all’impersonale, di liquefarsi prima di penetrare nelle pieghe di se stesso.

Gvantsa Jgushia

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