“Sua Maestà Morpheus, re di Slumberland, desidera vedervi”, annuncia un curioso messaggero a Nemo, un bambino che si è appena addormentato. Con queste parole, nel 1905, Winsor McCay dà inizio alle avventure nel mondo dei sogni di Little Nemo, quello che da molti viene ritenuto il migliore fumetto di tutti i tempi, nonché uno dei primi a essere trasposto, già nel 1911, in un pionieristico film d’animazione.
Quando si varca l’ingresso di “Sentimento illumina”, la mostra allestita presso la galleria bolognese P420, è alla stravagante ambasciata di Little Nemo che si potrebbe pensare. Mentre la luce del mattino entra dalla parete frontale interamente vetrata, come se ancora assonnati si ripercorresse un sogno non ancora dimenticato, ci si ritrova tra le opere pittoriche di Piero Manai e i dipinti inediti, appositamente realizzati per l’occasione, di Alessandro Pessoli.
Entrambi attivi alla fine degli anni Ottanta a Bologna, i due hanno fatto appena in tempo a sfiorarsi: quando Manai viene prematuramente a mancare, Pessoli si diploma all’Accademia e inizia la sua carriera artistica. All’artista oggi di casa a Los Angeles, che ha selezionato in prima persona le opere di Manai e ne ha curato l’allestimento, il compito di mettere in scena il dialogo con il compagno di una generazione precedente. Per Pessoli, che in tutta la sua produzione si è sempre avventurato nei regni del dormiveglia, interrogare il pittore tragicamente scomparso ha significato, come in un sogno a occhi aperti, immaginarne le risposte in forma di quadri. Lo spazio della pittura è divenuto in tal modo luogo metafisico deputato a dare voce ai silenzi, a confondere sonno e veglia, a creare un ponte medianico tra la vita e la morte.
L’intera mostra si è fatta uno spazio sentimentale che tenta di illuminare i più intimi recessi, uno scandagliare introspettivo che, senza requie, ricorda quello del filosofo Diogene che in pieno giorno cercava l’uomo con il lanternino. Sono tutti aspetti che si possono cogliere nelle scelte iconografiche e nei raffronti tra le opere che Pessoli ha elaborato e che, soprattutto nella prima delle due sale che compongono la mostra, sembrano obbedire a una generale volontà di animazione del dialogo con Manai. I dipinti vengono disposti sulle pareti bianche della galleria per abbozzare un impaginato a colori e, con esso, un’ipotesi di movimento, come in una fantasmagoria.
Torna in qualche modo il riferimento a Little Nemo, che è del resto una fonte dichiarata di alcuni lavori di Pessoli e che, per diversi aspetti, potrebbe essere considerato un elemento paradigmatico del suo concepire la pittura. Non stupisce che ad accoglierci sia quindi una sua opera che ritrae una sorta di spiritello androgino, un aiutante fiabesco che ci guiderà attraverso la mostra e ci ricorda Flip, l’essere clownesco che accompagna gran parte delle avventure oniriche del piccolo Nemo.
Alla figura leggiadra dipinta da Pessoli, tuttavia, fanno subito da contrappeso i dodici acetati di piccolo formato di Manai, opere sublimi e angoscianti che ci avvertono che l’incubo occuperà gran parte del regno di Morfeo. Tra le opere più significative di Manai, gli acetati appartengono alla sua produzione degli anni Ottanta, periodo in cui, fatalmente segnato dalla malattia, aderisce a un clima figurativo affine al Neoespressionismo tedesco, pur mantenendo una grande originalità.
Nel ritrarre gli aspetti più intimi e infimi del corpo, l’artista dipinge infatti non volti ma maschere, non teste ma frammenti scultorei, non busti ma torsi di statue, talvolta acefale e spesso dagli arti mutilati. Come in un gioco prospettico tra realtà e rappresentazione, i suoi corpi possiedono quindi la preziosità minerale delle statue, sono ibridi nei quali il sangue può rapprendersi e mescolarsi alle screziature del marmo. Le sue sono superfici pittoriche dilavate, dai toni quasi sempre petrosi, che vanno a comporre un paesaggio geologico dell’anima in cui la vena pittorica, quella sanguigna e quella metallifera possono prodigiosamente coincidere, quasi secondo un paradigma fisiognomico. Le opere di Manai sono dunque emblemi di nature morte: dipingerle significa figurare uno spazio fisico e mentale, interiore ed esteriore, che riesce a mantenere vita e morte in una tensione metafisica.
Nel dialogo tra i due artisti, è come se la pittura di Manai avesse aperto una soglia e, raggelatasi di fronte alla morte, la contemplasse, mentre quella di Pessoli avesse deciso di varcarla per farsi un fluire perpetuo, un carosello di immagini che, in un interminabile stop motion, finisse per essere tale e quale alla vita stessa. Pessoli ha infatti sempre avuto un’indole allegramente anarchica verso generi e stili, e ha sempre ibridato con spirito circense finzione e realtà, giocando sull’ambiguità tra decostruzione e ricostruzione dell’immagine. Quest’apparenza da baraccone colorato si coglie soprattutto nei suoi personaggi che popolano la prima sala della galleria e che si trovano a convivere con quelli invece muti, sordi, in qualche modo menomati di Manai. Soprattutto qui, questa strana coesistenza fa della mostra un teatro onirico che, tra il caustico e il trasognato, mette in scena una tragicommedia dell’arte.
Con il passaggio alla seconda sala, il tendone da circo cede invece il posto all’algido luogo di culto. In uno spazio interno, rialzato e con le finestre schermate, come nella cella di un tempio Pessoli ha allestito opere di grande formato nelle quali si fa manifesta l’ispirazione religiosa che da molti anni caratterizza la sua produzione. Disponendo i quadri, suoi e di Manai, a formare dei trittici, l’artista si è richiamato ai modelli per antonomasia del dialogo metafisico con l’aldilà e sembra aver voluto suggerire che l’apparente mutismo di Manai possa essere, in realtà, quello dell’immagine stessa, la quale si troverebbe ad avere qualcosa in comune con la preghiera: è come se la pittura di Pessoli interrogasse quella dell’artista non più in vita, per poi, di fronte al silenzio, comprendere molto di se stessa.
Onirismo, sentimento e pittura, vita e morte. I grandi temi della mostra sono custoditi come in uno scrigno da questa seconda sala e soprattutto con l’ultima opera esposta assumono il massimo dell’evidenza. In Love and Death (dreamer), 2024 Pessoli riprende il Cristo morto di Mantegna, ne contamina l’iconografia con quella della natività (sostituendo al bue una tigre) e visualizza, grazie a una sorta di balloon fiorito, il sogno che levita dalla testa del Messia.
È un manifesto della mostra: il compianto avviene infatti, ancora più che sul Cristo, sul corpo stesso di Manai, che negli anni Ottanta si era fotografato in una mise-en-scène dell’opera di Mantegna1. L’immagine massimamente solenne, l’ultima esposizione prima della sepoltura, conserva in sé la propria futura resurrezione. Nascita e morte, sonno e veglia possono convivere, come sembra suggerirci l’artista, nello spazio della pittura e nel suo potere di rianimazione. Nel sogno, del resto, non ha senso fare distinzioni. Come diceva il piccolo Nemo svegliandosi alla fine di una delle sue avventure, e come forse ci direbbe lo stesso Pessoli: “Stavo ancora sognando! Vorrei dormire senza dover svegliarmi mai”.