Il progetto presenta la rielaborazione digitale di un frame del film Disney “Fantasia” (1940), estratto dal segmento dedicato alla Sinfonia n. 6 in fa maggiore Op. 68 di Ludwig van Beethoven, comunemente detta Pastorale. L’intera scena è dedicata a una giornata nel regno degli dei greci, ambientata nei boschi ai piedi del monte Olimpo, e il frame scelto dall’artista è tratto dall’episodio in cui centauri, fauni e ninfe accolgono l’ebbro Dioniso in groppa a un asino durante un festoso rituale di preparazione del vino novello. Sgambaro interviene sul frame cancellandone i personaggi, trasformando un luogo allegro e animato in paesaggio cupo e desolato. La scena ancestrale, ormai statica e deserta, riflette per l’artista la condizione di isolamento misto a immobilità propria della provincia rurale italiana, spopolata dei suoi abitanti, sintonizzata sul passato e per questo estranea ai linguaggi e al sentire del mondo contemporaneo.
L’intervento di Sgambaro è formato da un’installazione e da un momento performativo: le vetrine dello spazio ospitano l’immagine del paesaggio bucolico svuotato, mentre all’interno un’orchestra esegue il medesimo brano della Pastorale di Beethoven che suona durante la sequenza animata.
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Il fauno entra nel bar e saluta tutti con un gran sorriso e fa un cenno per ordinare una birra piccola e con un veloce balzo all’indietro si siede sul frigo dei gelati.
E allora dico, perché sterzare quando puoi andare dritto? Le vedevo laggiù in fondo, sulla strada, due luci, e mi son detto, sicuro sono due moto affiancate, sicuro sono due centauri che si parlano, e allora mi è venuta l’ideona, gli faccio uno scherzo, sapete che qui la fantasia non manca, mi sono detto, gli passo in mezzo per farli un po’ cagare sotto, così ho spento i fari, perché con le luci spente il pericolo non lo vedi, non so se mi spiego, così ho spento i fari e mi sono detto, perché frenare quando puoi accelerare? e allora accelero e quando sono proprio vicino e sto per passarci in mezzo mi rendo conto che non sono le luci di due motorini affiancati, sono i fari di un camion, gigante, un’autobotte o che so io, me lo vedo davanti e ci vado dritto dentro, sbam, e per fortuna ero così ubriaco che non mi sono fatto un cazzo.
Il fauno alza gli occhiali da sole e li appoggia sulle corna. Si liscia il pizzetto, tossisce e si infila una Chesterfield tra le labbra. Sfrega un cerino sullo zoccolo e la accende. Fa due tiri a capo chino, la brace nascosta nel palmo. Si alza, posa la sigaretta sul bancone, dritta in verticale sul filtro, e con uno sforzo torna a sedersi sul frigo dei gelati.
Cosa stavo dicendo? Sì. Lo sapete qual’è il trucco? Le birre piccole. Sembra un controsenso. Però – e tu che cazzo vuoi, nano? Cosa? Il calippo. Vuoi prendere un calippo? Lo sai con cosa lo fanno il calippo? Il calippo lo fanno con il grasso dei topi. Tu lo mangi il grasso dei topi? No? E allora non mangi neanche il calippo. Fuori dalle palle. Dicevo, perché prendere il boccale piccolo quando esiste quello grande? La birra piccola, in pochi lo sanno, ma mentre parli rimane sempre fresca. La birra da litro ti fa fare bella figura, anche quella media, ma se uno ti conosce già e vuoi farci dei discorsi seri, allora devi prendere la piccola. Rimane fresca e non ti devi bere quel fondo sgasato caldo, tipo piscio di asino. Dov’ero rimasto? Sì. Il camion. Allora, mi sveglio che è l’alba e sono in un fosso. Un fosso di fianco alla strada. Mi alzo tirandomi su per la coda, non so se mi spiego. Mi tocco, neanche un graffio sugli zoccoli. Niente. Andata bene, la fortuna degli sbronzi. Poi mi guardo intorno. Motorino sparito, camion pure. Nulla. C’è solo una macchia sull’asfalto, tipo olio, mi avvicino e la guardo, e mentre la guardo non so perché mi viene in mente un programma che ho visto alla tele il giorno prima. Perché dimenticare quando puoi ricordare? Sul canale del cavaliere c’era uno speciale dove ti facevano vedere com’era la Gioconda senza Gioconda, cioè tutto quello che sta dietro ma senza la tipa che sta davanti. E mi son detto, cazzo. Già mi fate soffrire, mi fate vedere un capolavoro italiano che ci hanno rubato i mangialumache, in più mi ci togliete anche la ragazza italiana che sta lì davanti, che cazzo volete da me. Direte, perché guardare quando puoi tenere gli occhi chiusi? Perché ricordare quando puoi dimenticare? Eppure, mentre me ne sto lì, piegato sulla pozzanghera di olio, che per capirci è tipo quella che crea gli arcobaleni, mentre me ne sto lì piegato in avanti come uno che sbocca e penso al dietro della Gioconda, ecco, non so se mi spiego, sento come una cosa strana. Perché mentire quando puoi dire la verità? In quella macchia d’olio, che è tipo uno specchio nero, qualcosa non funziona. Ci passo sopra una mano, poi l’altra. Niente. Ci soffio sopra. Nulla. In quella superficie lucida c’erano gli alberi, qualche nuvola. Tutto. Mancavo solo io. Non c’ero. Poi mi sono detto, se questo vuol dire qualcosa, e forse voleva davvero dire qualcosa, io comunque non ero lì per ascoltarla quella cosa. Capito? Così ci sono passato sopra con gli zoccoli e sono tornato in paese. Vaffanculo. Perché rendersi conto di una cosa quando puoi far finta di niente?
Il sorriso del fauno si spegne mentre scivola giù dal frigo dei gelati. Sospira, si accende una Chesterfield, fa due tiri e la posa in verticale vicino alla piccola colonna di cenere della precedente, e alza lo sguardo sulle centinaia di altre colonne di cenere impilate sul bancone, sugli scaffali, sulle mensole, sui tavolini, sulle sedie, sul jukebox, sul biliardo, sul pavimento. Si rimette gli occhiali da sole, ruota in aria l’indice per offrire un giro di vodka ed esce dal bar.