Cerco un’immagine da cui partire.
In un appartamento con le persiane chiuse, fra le pareti bianche e le graniglie ocra e grigie del pavimento, mescolate all’odore della mattina e del caldo estivo, nell’ombra della luce ho visto le opere di Alek O. mostrarsi nella loro elaborata compostezza quali padrone di casa. Tra maggio e settembre 2024, in occasione della mostra “They didn’t explain much, and no one dared to ask”, opere nuove e preesistenti dell’artista italo-argentina abitano lo spazio domestico di IUNO in Via Ennio Quirino Visconti 55, a Roma.
Eleganti e sinuosi, i lavori di Alek O. riempiono la stanza con un’energica cascata di parole taciute, sature di una memoria scorporizzata che restituisce vita agli oggetti de-funzionalizzati e ai loro multiformi involucri, tesori di illusioni e universi materiali. Allestite a terra o appese alle pareti, le opere appartengono alle serie Ehi Siri, Lumos e There Was A Lot Of Waiting e sono realizzate con oggetti trouvés. Le prime con lampadari di modernariato, plafoniere assemblate o rielaborate con altri materiali, come un piccolo carrellino in ferro dalla verniciatura sbreccata, color mattone e utilizzando lampadine di differenti temperature, a luce sia fredda che calda, per un diverso effetto cromatico. Le seconde, realizzate con reti per materassi, sono accostate verticalmente ai muri a creare un paesaggio urbano: leggere architetture che definiscono un’ideale geometria spaziale, il cui perimetro è indicato dalle linee blu, tirate mediante un tracciatore a filo. La fitta trama della rete metallica con le sue griglie modulari sembra tracciata graficamente dall’artista per indurre un’instabilità percettiva, oscillante tra figuratività e astrazione, tra immaginazione e razionalismo.
Nella sua pratica, Alek O. lascia il racconto aperto a interpretazioni plurime, con gli oggetti utilizzati nelle sue opere incuriosisce l’osservatore che si domanda se da sempre siano appartenuti all’artista o alla sua famiglia, o piuttosto se siano stati trovati o acquistati, interrogandosi così sulla loro reale origine o funzione. Permane l’impronta di chi ha precedentemente posseduto o utilizzato quegli oggetti, la cui memoria diventa così malleabile, sovrascrivibile, soggetta alle suggestioni e alle modificazioni impresse dall’artista con il suo gesto poetico e da chiunque partecipi a questo gioco di decostruzioni e rielaborazioni estetiche e affettive. Il titolo della mostra rimanda infatti al breve racconto Jury Duty di Lydia Davis, nel quale la storia è intessuta attraverso le risposte di uno solo dei personaggi, senza conoscere le domande, che spetta al lettore intuire. Come nel racconto il lettore è chiamato a partecipare da dentro all’operazione artistica dell’autrice, così le opere di Alek O. richiedono di rifarsi a quel metodo con il quale attribuire nuovi significati e diversa vitalità ai non (più) oggetti, facendo emergere la necessità di una prosa che li svincoli dalla consueta concretezza. Il giorno dell’inaugurazione, l’artista ha realizzato la performance Self-portrait as Elisabetta Benassi (2024), ora documentata in un’immagine fotografica: Alek O. in piedi di fronte alle sue opere, indossa gli abiti di Elisabetta Benassi. La foto e il titolo estremamente esplicativo rendono evidente l’intenzione dell’artista durante l’azione performativa, altrimenti difficilmente percepibile da chi, in quell’occasione, non aveva la consapevolezza che quegli abiti appartenessero realmente a Elisabetta Benassi. L’autoritratto è strumento con il quale misurare la trasformazione che lo scorrere del tempo impone e con il quale interrogare la memoria. Alek O., infatti, si autoritrae nei panni di un’altra artista, con ciò stesso dichiarandole la sua ammirazione e costruendo artatamente una falsificazione che per paradosso – poiché parte del gioco di ri-costruzione dei ricordi – rende più densa di significati la realtà.