La città di Napoli – e il Sud in generale – è da alcuni anni oggetto di una sorta di rivalutazione mediatica e culturale, con un crescente interesse internazionale per la sua storia e il suo folklore che sembra fortificare sia un revival neoborbonico sia una “costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno”1. Ma è Napoli che cambia o è piuttosto un certo immaginario culturale della città che si sta concependo e producendo dall’esterno? Con il superturismo, lo scudetto, le produzioni musicali e televisive in voga, risulta sempre più indispensabile riuscire a problematizzare le recenti trasformazioni tanto sociali quanto urbane che investono la città.
Tra le istituzioni locali e le numerose ricercatrici impegnate in questa prospettiva, si posiziona anche la direzione del Madre di Eva Fabbris che, con “Il resto di niente”, tenta di consolidare un filone già in parte promosso dal museo nell’ultimo anno. Si tratta di una mostra collettiva, il cui titolo è preso in prestito dal romanzo storico di Enzo Striano (Loffredo, 1986) che ricostruisce la breve parentesi della proclamazione della Repubblica Napoletana nel 1799 attraverso la vita dell’intellettuale Eleonora de Fonseca Pimentel. È un libro importante perché approfondisce una delle figure femminili più significative della storia nazionale – più che napoletana – che fu giustiziata dopo pochi mesi dai Borbone per il suo stesso impegno anarchico-popolare. Infatti, il niente (o meglio:‘o riesto ‘e niente) di Striano non racconta propriamente di una trasformazione socioculturale della città, ma piuttosto di un insuccesso, di un annientamento.
Proprio come nel Settecento le architetture di Ferdinando Sanfelice segnarono la sperimentazione progettuale del tempo, la scia della mostra è tracciata nel pensiero architettonico promosso a Napoli nel secondo Novecento da Aldo Loris Rossi e Donatella Mazzoleni, la cui figura professionale trova finalmente con questa occasione un piccolo ricollocamento nella storiografia. Attivi in una Napoli alle prese con il lascito del laurismo, la loro attività di ricerca si inserì attivamente nel dibattito politico e ambientale italiano, guardando contemporaneamente agli scenari metabolisti del Giappone, all’architettura high-tech e all’urban design. Sperimentazione a cui guardava in realtà la maggior parte degli architetti attivi negli anni Sessanta e Settanta, realizzando spesso alcuni tra i progetti più controversi del Novecento italiano, tra cui il Rozzol Melara a Trieste, le sette Vele a Scampia o il quartiere San Pietro (‘le lavatrici’) a Genova. Non si presenta un approfondimento monografico su Loris Rossi e Mazzoleni, né su Napoli. Una serie inedita di disegni su carta, lucidi e stampe su radex dal loro fondo archivistico accompagna l’intero percorso espositivo instaurando un dialogo assai eterogeneo con 12 artisti contemporanei di diversa provenienza e generazione.
Tante le opere commissionate appositamente per la mostra prodotta da Gucci, curata da Eva Fabbris con Giovanna Manzotti, da un’idea di Sabato De Sarno. Tra queste, la serie fotografica Overshoot (2024) di Tobias Zielony – già impegnato in un altro progetto su Scampia con la Galleria Lia Rumma – documenta due note architetture brutaliste a firma di Loris Rossi con Mazzoleni: la Casa del Portuale (1968-1980) e il complesso residenziale di Piazza Grande (1979-1989). Si confronta solo con la superficie dell’articolata configurazione strutturale e formale dell’oggetto architettonico, ampiamente leggibile anche nelle tavole di progetto esposte. In aggiunta alle fotografie del cantiere scattate dallo stesso Loris Rossi, sono stati realizzati alcuni modelli in polistirene e cemento della Casa del Portuale per approfondirne, estraniandoli, precisi elementi volumetrici in scala 1:5. Tra gli immaginari futuristici, Studi compositivi megastrutturali (1968), Materiale abitabile: Città-struttura n. 1 (1969) e n. 2 (1973), riflettono sulla capacità dell’architettura di essere anche città. Propongono un paesaggio urbano fatto di nuclei abitativi modulari e terrazze aggettanti, nella narrazione di una costante ambivalenza tra progetto e utopia, tra materia e interazione nello spazio.
Ad aprire la mostra, un altro tipo di paesaggio è raffigurato attraverso il paradosso linguistico in alcune opere dei Feltri, realizzati negli stessi anni dall’artista milanese Vincenzo Agnetti. Sono pannelli, quasi lapidari, in cui la parola incisa o dipinta è utilizzata come una sorta di codice emotivo oltre che espressivo: Paesaggio – Le strade terminano prima di incominciare (1971), Ritratto di abitante – Abitato dalle case e dal carattere (1971), Ritratto di un abitante – Abitato dalle strade e dai ricordi (1971), Paesaggio – La città appariva banalizzata dalle consuetudini e dai saluti (1972), Work forgotten by heart (1972). In contrasto, nella stessa sala, Catena (2024) si dilata e si espande nello spazio espositivo. È una delle celebri sculture gonfiabili dell’artista Franco Mazzucchelli – ne sono esposte tre – che realizza a partire dagli anni Sessanta per stimolare una forma di interazione dinamica tra un oggetto, lo spazio e i suoi eventuali fruitori. Passando da una sala all’altra, è ancora diversa la percezione dello spazio presentata nell’installazione sonora Brutal Threshold (2024) di Sara Persico, artista napoletana di base a Berlino, in cui l’uso del field recording rende possibile l’immersione in uno specifico paesaggio urbano – non di Napoli, ma di Tripoli.
La città di Berlino è invece osservata nei lavori della serie Cars (2022) di Angharad Williams sottoforma di ritratti a carboncino in scala reale di automobili, l’oggetto per antonomasia della metropoli moderna. Proseguendo nel percorso espositivo, il tema dello spazialismo trova ulteriori possibili accezioni in Cronotopo (1963) e Deep Space (2013) di Nanda Vigo, opere che segnano due precise fasi della ricerca interdisciplinare dell’artista in cui il vigore della luce è in grado di creare nuove dimensioni sensoriali. Le installazioni video di Özgür Kar a guy under the influence (2020) e The Gate (2023) mostrano uno scenario urbano quasi malinconico, una sensazione profonda di essere intrappolati nei costrutti sociali che racconta ironicamente anche Carazia (2020) di Giulio Delvè. RM (Bianca Benenti Oriol e Marco Pezzotta) presenta le due sculture in vetro You Make the Program for Life. You Make the Program (2017) ed altre opere di nuova produzione. A dog, a car, an epidemic of body lice; RATS; Il parco, la panchina, la stazione (tutte 2024) costituiscono un gruppo di ombrelloni istallati all’interno del museo per definire un’atmosfera conviviale e balneare.
E se le ombre Fuorigrotta #2 (2023) di Jim C. Nedd documentano una gioia collettiva per la vittoria dello scudetto calcistico, Sigarette e Signore (1998) di Domenico Salierno racconta una storia di ordinaria emarginazione. Tra le opere più suggestive in mostra, quest’opera è un episodio delle video-poesie concepite dall’artista per il programma televisivo “Tele Luna Partenope”, in cui una voce fuori campo costruisce un monologo immaginario sulle attività quotidiane di una contrabbandiera di sigarette. Offre una metafora sull’esistenza, sulla contrapposizione delle classi sociali, sulle attività degli emarginati sui marciapiedi, che diventano esattamente il resto di niente.