In occasione della terza edizione di Habitat, format ideato da Stefano Raimondi e promosso da ArtVerona, il Time Machine propone la pubblicazione di questo testo dall’archivio di Flash Art per approfondire la vita e l’opera di Fabio Mauri. Negli spazi di ArtVerona, in collaborazione con lo Studio Fabio Mauri di Roma, viene presentata per la prima volta la collezione completa degli Zerbini, uno dei corpus di lavori più iconici ed evocativi dell’artista. Habitat è un progetto che indaga la relazione tra l’opera, lo spazio e il pubblico offrendo ai visitatori l’opportunità di misurarsi con la fisicità e la dimensione spaziale delle opere.
Caroliyn Christov-Bakargiev: Come ti sei avvicinato all’arte?
Fabio Mauri: Ranchetti mi portò alla galleria Barbaroux, in via della Spiga. Entrai – ero solo un bambino – vidi l’Ettore e Andromaca di de Chirico, un quadro di Carrà, uno di Tomea, uno di Tosi e uno di Savinio. Seduti in un angolo, c’erano Tosi, Carrà e Tomea che parlavano. Ho provato una grande emozione. Ho sempre pensato di essere un artista, in realtà. Nella mia famiglia c’erano già stati due artisti, fra cui Battaglia, nell’Ottocento direttore dell’Accademia di San Luca, che dipingeva quadri di realismo storico. Da piccolo disegnavo molto, soprattutto fumetti su grandi block-notes. Li conoscevo perché era stato mio padre a importare in Italia Mickey Mouse e Flash Gordon e a venderli alla Mondadori e alla Nerbini. Ecco perché nel 1958 ripresi a usare il fumetto nelle mie opere. C’è sempre qualcosa di personale, di molto autobiografico nel mio lavoro. Nel 1938, siamo andati a Bologna dove ho conosciuto Pasolini, aveva cinque anni più di me. È il secondo grande amico della mia vita. Ci siamo conosciuti alla GIL (Gioventù Italiana del Littorio), dove il sabato si incontravano i giovani con interessi letterari. Oltre a Pasolini, c’erano Leonetti, Roversi, Ardigò, Serra, Telmon ed un uomo più anziano, Decio Cinti. Era stato segretario di Marinetti, mi fece vedere i quadri dei Futuristi.
CCB: Eravate già critici del fascismo?
FM: Come può esserlo un ragazzo. Ero, per obbligo scolastico, un “balilla” e Pasolini era un “giovane fascista”. Mio padre, inoltre, era un liberale convinto. Ma è chiaro che pur subendo il fascino delle occasioni che la scuola fascista offriva ai giovani, già la nostra cultura non era più fascista. Anzi, la nostra cultura “letteraria” non lo era mai stata. Sapevamo, anche se giovanissimi, che esisteva Gramsci. Ciò non ci impediva di seguire con entusiasmo lezioni di scherma, di violino, di sci, di lotta greco-romana fino ai circoli intellettuali della GIL che organizzavano una rivista, dei dibattiti e degli incontri, vere e proprie competizioni intellettuali. Noi, della squadra di Bologna, al dibattito in occasione della visita di Hitler a Firenze nel 1938, risultammo primi su tutt’Italia. Ho tratto da questa esperienza la performance Che cosa è il fascismo del 1971. Il fascismo ti impegnava in molte attività, era l’unica cosa che c’era. Anche il sole era fascista. Poi arrivò la guerra e gli sfollamenti a causa dei bombardamenti aerei. Cambiò tutto. Stetti per un po’ a Firenze, dove i miei zii, i Bompiani, avevano trasferito la casa editrice. Poi cedette la Linea Gotica. Una parte della società di mio padre arretrò a nord. Finì la guerra. Vidi le fotografie di Buchenwald su la rivista Le Ore, mi convertii al Cristianesimo (la mia famiglia era atea) e mi ammalai. La visione dell’immagine di Ebrea, che ritornerà nella performance del 1971, mi convinse che il male era abissale, e mi fermai, come fulminato. Non parlai più e sentii di dover intraprendere un percorso che non conoscevo. Avevo diciotto anni. Iniziai a leggere la Bibbia e passai alcuni anni, dal 1945 al 1949, tra cliniche e conventi. Ero anoressico, tendevo al suicidio. Vivevo vere e proprie esperienze mistiche. Ad un certo punto mi vietarono di leggere la Bibbia.
CCB: Sei rimasto credente?
FM: C’è uno iato in me fra oggi e l’allora. Sono più giansenista che cattolico. La continuità, forse, è proprio nell’arte. Testimonio a me che dovunque Dio c’è e testimonio a Dio che il mondo è pessimo come lui mi ha mostrato. Non credo al termine “laico”.
CCB: Sono passate le esperienze mistiche del 1949?
FM: Mi sono fermato in una comunità di ragazzi, a Civitavecchia, dove ero capitato per caso con i miei genitori. Ho chiesto di restarci anziché proseguire il viaggio per Milano. Lì sono rimasto sette anni, senza mai uscire. Mi occupavo di ragazzi dai dodici ai diciott’anni. Insegnavo, pulivo, facevo tutto, spiegavo loro l’arte sumera come la pittura di Braque. Seguivo anche un laboratorio di ceramica. Così ho ripreso a dipingere. L’esperienza religiosa “diretta” si diradava nel tempo, fino a scomparire. Ma nel frattempo avevo saltato completamente il periodo del dopoguerra. Tornai a Milano nel 1955. Carlo Cardazzo vide i miei quadri che erano piuttosto espressionisti, mi offrì una mostra alla galleria Il Cavallino, a Venezia. Ho conosciuto Fontana, Dova, Crippa; ma la pulizia del lavoro “spaziale” non mi emozionava. Mi sembrava una finzione industriale, al di là dell’esperienza. Io pensavo a Van Gogh.
CCB: Come sei arrivato a Roma?
FM: Mi sono innamorato di Adriana Asti e andammo a vivere a Roma nel 1956. Ma il nostro matrimonio finì presto. Scrivevo per il teatro, dipingevo, e ripresi a lavorare alla Bompiani di Roma.
CCB: È dopo il tuo arrivo a Roma che si data abitualmente l’inizio del tuo percorso d’artista.
FM: Sì. Alla fine degli anni Cinquanta ho fatto i primi Schermi, i Cassetti, i monocromi. Quasi tutto successe contemporaneamente. Sono gli anni in cui ho conosciuto Elisabetta Catalano che è stata mia compagna per molto tempo. Vidi, attorno al 1956, nelle vetrine della galleria l’Obelisco, un libro aperto che riproduceva un Sacco di Burri. Sentivo di essere di fronte a qualcosa che spostava realmente la pittura. Prima di allora cercavo di fare un quadro “realista” ma veniva sempre espressionista. Cercavo di dipingere la realtà e mi venivano i fumetti. L’opera di Burri mi ha insegnato che la pittura sta dove stai tu. Non la devi inseguire. Tornarono allora tutte le mie passioni: i fumetti, la grafica vetrinistica, le nuove insegne. Cercavo un simbolo che fosse il simbolo dell’epoca contemporanea. Feci dei disegni con solo scritto “The End”, nel 1957 e ‘58. Pensai dunque allo Schermo – come ad uno schermo cinematografico. Il primo, di carta tirata sul telaio, è del 1958. Molti l’hanno visto nel mio studio, anche se è stato esposto al pubblico più tardi. Per me era come lo spazio dell’affresco, e il cinema un moderno luogo di rito.
CCB: Lo schermo bianco era aperto semiologicamente al mondo, era un potenziale “tutto”, lontano dal monocromo riduzionista delle prime avanguardie. Che rapporto c’era fra il tuo monocromo ed altre esperienze come gli Achrome di Manzoni?
FM: Non conoscevo Azimuth, e quindi non conoscevo Manzoni. Sapevo qualcosa di Malevič, ma mi sembrava troppo astratto. Il mio non era un monocromo “dipinto”, facevo un “oggetto”, uno schermo. Era potenzialmente carico e denso di mondo e di immagini. A volte, mettevo le targhe delle macchine sotto gli schermi; a volte, delle sorte di tasche. All’epoca, Cesare Vivaldi era il giovane critico che “capiva” e scriveva. E lui che mi ha fatto conoscere Rotella e che ha curato la mostra “Crack” nel 1960 a Venezia con un mio Schermo. Emilio Villa, invece, era il “vate”. Girava con Turcato e scopriva i giovani talenti. Aveva uno spazio espositivo sulla Via Appia, dal 1959. Liverani e Mara Coccia mi fecero delle mostre personali. Da Plinio [De Martiis] partecipai ad alcune importanti collettive.
Arriva poi il mondo dei consumi, il mondo dei manufatti e dei segnali, delle pompe di benzina. I Cassetti con la pasta Barilla, gli Schermi stessi, sono opere che muovono dal desiderio di entrare in contatto con quella produzione anonima dell’esistenza.
CCB: Quanti Cassetti hai fatto? Che differenza d’atteggiamento c’era fra il tuo lavoro e il New Dada e la Pop americana?
FM: L’epicentro del sistema del consumismo era negli USA. Lì, l’“oggetto” era il simbolo del sistema. Qui c’era un consumo con riserva, con una componente più analitica forse. Ma la natura si sostituiva con l’artificiale anche da noi. Ho fatto una decina di Cassetti mentre dal 1960 al 1964 ho realizzato molti Schermi velati. Poi, venne l’impatto, la Biennale del 1964, quella della Pop art, certo meravigliosa, ma fu causa per me di una grande delusione. Vi ho visto infatti l’epitome della cultura della società dei consumi, in cui tutta l’Europa si trovava fuori gioco. Dal 1964 al 1967/‘68, infatti, ho lavorato ben poco nel campo dell’arte visiva e mi sono dedicato molto più al teatro, realizzando testi, scene e regie. Cercavo di riflettere su cosa fosse veramente l’Europa e quale potesse essere il suo “oggetto ansioso” che ci impediva la sfacciataggine americana. Non era la Coca Cola. Era l’ideologia, semplicemente. L’oggetto ansioso europeo erano le idee. Avevamo Beuys, non Warhol. In quegli anni ho fatto tante cose, con il Gruppo ‘63, con la rivista Quindici. Erano i prodromi del ‘68. Del 1967/‘68 sono le Pile a luce solida e il Cinema a luce solida, in cui la luce non era rappresentata pittoricamente ma resa oggetto tangibile, così come le idee erano le “cose” dell’Europa. Volevo esporre la solidità del pensiero, di ciò che pare effimero o invisibile. Pensare il pensiero come una cosa. Desideravo anche reintrodurre pittori italiani cancellati, in questo caso Depero.
CCB: Da lì a poco vennero le performance, dove hai congiunto gli interessi per il teatro con quelli per la pittura. Anche lì, le parole, il pensiero, hanno un peso reale e concreto.
La figura femminile di Ebrea si taglia i capelli davanti ad uno specchio. Lentamente li incolla per più di un’ora fino a formare il disegno della stella di Davide. La sua nudità è identità ridotta all’osso, come in un dipinto espressionista. Il suo gesto è la dimostrazione tangibile delle implicazioni che possono avere le parole e il pensiero. Con un filo di inquietante “normalità”, tutt’attorno sono collocati finti cimeli di guerra, quelli che uno si immagina sarebbero potuti essere in una casa tedesca borghese qualora gli eventi fossero andati diversamente – “souvenir in pelle ebrea”, come recitano alcune targhette. Ci si avvicina a essi con leggerezza e curiosità. Ma ci si allontana di colpo con disgusto, con il senso di essere stati avvelenati. Era dunque anche un’indagine dei meccanismi tramite i quali le ideologie dominanti operano seduttivamente attraverso segnali e linguaggio, il ricreare una situazione di manipolazione dei segni dove il pubblico viene involontariamente coinvolto in consensi verso ideologie che “sa” essere state storicamente “false”, e il fascismo, come l’antisemitismo, ne è l’esempio estremo per eccellenza.
FM: Nel 1968 decisi di preparare una mostra apertamente “ideologica” esponendo gli objets trouvés del fascismo. Questo progetto è diventato la performance Che cos’è il fascismo del 1971. Volevo riaffrontare le radici della coscienza non solo dell’Italia, ma dell’Europa. Fino al 1970 nessuno voleva parlare più del fascismo. L’Europa l’aveva rimosso. Il marxismo tendeva a dire che eravamo tutti stati antifascisti. Giorgio Pressburger mi chiamò all’Accademia D’Amico per tenere un seminario-corso nel 1970, che doveva concludersi con uno spettacolo. Era un’occasione per realizzare la mostra sul fascismo pensata nel 1968. Per me non si trattava di uno spettacolo. Non c’era dubbio che fosse una mostra d’arte sotto forma di “azione”. Non c’era un decorso degli eventi, una trama, come nel teatro. Era identico a un esercizio spirituale: produceva un’esperienza negli spettatori. Ho cercato di rappresentare i corsi di “mistica fascista” che avevo visto a Firenze. Era del tutto aberrante. Studenti in perfette divise fasciste facevano sedere le persone del pubblico in otto tribune diverse a seconda, per esempio, se appartenevano alle “autorità”, agli “agrari”, o erano “familiari”, “industriali”, o persino “ebrei”. Era la divisione corporativa fascista, riproposta in modo angoscioso e anormale. Natalia Ginzburg rifiutò di salire. Adriana Asti vi salì. Il giorno prima della performance, si scoprì il “golpe Borghese”. Da lì a poco si sarebbe scatenato il terrorismo dei NAR. Eravamo in un momento storico di grande seduzione ideologica, capace di trascinare acriticamente al peggio. Durante la performance, figure in uniformi eseguivano esercizi ginnici, recitavano brani di “mistica fascista” che avevo ritrovato in libri d’epoca. Il tutto in onore della presunta visita di un generale tedesco, Ernst Von Hussel, rappresentato da un manichino di cera, seduto fra il pubblico. Alla conclusione, feci proiettare dei film Luce. Non si erano più proiettati da venticinque anni: le due immagini, scena e film, erano identiche. L’idea di coinvolgere lo spettatore in un’esperienza dove si sentiva festosamente ma inesorabilmente trascinato nell’esperienza diretta di un male, era riuscita. Nel 1971 feci anche Ebrea a Venezia alla galleria Barozzi, quindi da Acme/Monti a Brescia. Il contesto della galleria improvvisamente divenne il luogo giusto per sperimentare le performance. Quando l’azione era finita, restavano in mostra una ventina di opere – La Poltrona, Il Gioiello, I Saponi, Il Cavallo con finimenti “in pelle ebrea”, ecc. L’ho riallestita più volte, quell’anno. L’ho riproposta quest’anno allo Studio Casali a Milano e nella mostra Molteplici Culture nella cantina del Convento di S. Egidio a Roma.
CCB: Da un punto di vista formale, come si distinguono le performance dalla tua esperienza teatrale?
FM: Rispetto al teatro (che ne è stato comunque molto influenzato negli ultimi vent’anni), la performance è un rito chiuso. C’è un senso occulto. È un “mistero”. Il pubblico assiste da fuori. Il teatro, invece, è sociale, è per un pubblico che ha pagato un biglietto, detiene un diritto, deve essere convinto e quasi battuto da ciò che avviene in scena. La performance viene fuori dalla pittura, come ne viene fuori il martello di Jim Dine o il violoncello di Kounellis. Se togli la tela di Kounellis, la ballerina è in sé un oggetto. La persona è uno schermo, nelle mie performance. Tant’è vero che ho usato le persone come veri schermi sui quali proiettare veri film, per esempio in Oscuramento (1975) e Senza (1975). Le fonti del mio lavoro di performance sono nel mio teatro, non nelle esperienze artistiche parallele, come il Fluxus. Per me la performance è una logica evoluzione del quadro. È un collage con oggetti viventi, uomini o animali, per esempio il cane, in Dramophone (1976).
CCB: Quali sono le intenzioni della tua ultima mostra “Studenti” a Milano, alla nuova galleria L’Eroica? La mostra, in cui prevale il piombo come materiale, è orchestrata come un unico grande allestimento diviso su due piani. Quello di sotto si propone come un laboratorio o bottega frequentata da numerosi allievi pittori, mentre il piano di sopra sembra piuttosto uno spazio pubblico, la vetrina di un negozio con la merce in esposizione.
FM: Come sempre nelle mie opere, volevo analizzare un elemento biografico, una passione, o una costante della mia vita: in questo caso l’insegnamento. Tutta la vita ho lavorato con studenti. Non me ne ero accorto. Ancora oggi insegno all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila. Volevo analizzare l’eros e l’epos del rapporto con lo studente. Fin dall’asilo mi sentivo un “diverso”, non accomunato agli altri ragazzetti. Avevo già allora un atteggiamento “docente”. La giovinezza dello studente non è per nulla un’anticamera. C’è un’innocenza fisica, di non sapienza, di inesperienza che rende atti a dire qualunque cosa. Osservo con attenzione e compassione e sento che è possibile tutto per i giovani uomini. È possibile muoversi verso un’aberrazione oppure costruire una forza e un fondamento. La mia tendenza giansenista è forte: li vedo come se fossero cavalcati dal demonio o da un possibile Dio.
CCB: Ricorrono le immagini di mutande femminili, nelle parti intitolate Architetture intime.
FM: Scelgo le allieve come figure simboliche ricorrenti, è vero. L’eros verso i ragazzi è un puro eros. C’è un desiderio inconscio di possedere la gioventù. Insegnare è, o può essere, uno stupro. I giovani che fucilano o quelli che vengono fucilati a Tienanmen sono gli stessi. Un giovane uomo non è in grado di decidere gran che, viene condotto a quel rito. La scuola è un luogo importante come il Parlamento. È il vero luogo della soluzione dei problemi. Ma non se ne accorge nessuno. Due generazioni si danno tempo, convivono, dedicate con forte complicità a conoscere. Accade solo a scuola.
CCB: Gli studenti sono anche un’immagine o una metafora dello stato attuale della nostra civiltà. Per esempio l’impero sovietico si è sgretolato, ma non si sa cosa possa seguirlo date le energie “giovani” e imprevedibili in campo.
FM: Certo. È caduta la fiducia in qualunque legge di gravità. Mentre invece la gravità c’è. Ma l’intenzione della mostra riguarda soprattutto il mio rapporto con questi “altri”, gli studenti, diversi perché non dotati di una cultura garante. Al piano di sotto, volevo ripetere il clima del “è tutto possibile”, e i “quadri” che si trovano lì sembrano fatti da persone diverse, dagli “altri” che sono parte di noi stessi ovviamente. La mostra è un’installazione, in quanto vuole dare il senso di una visione unitaria delle possibili diversità. Ma ogni singolo oggetto è una mia opera. In uno studio di pittore ci sono molti altri pittori che uno avrebbe potuto essere. Ogni lavoro in “Studenti” è in realtà unico e completo.
CCB: Tutto sembra indicare una posizione relativista, in fin dei conti.
FM: In parte. C’è una dialettica nel lavoro. Quando faccio un quadro è come se fosse l’ultimo. Quando scrivo è come se fosse un penultimo pensiero. Ma entro queste due cose, mi chiedo di continuo cosa sto facendo e cosa sia l’atto dell’arte. Perché un disegno 70 × 100 è accettato? Avendo deciso che fare arte è fare poesia, ossia introdurre un elemento di sincretismo e quindi di logica assolutamente superiore, ho un atteggiamento classico, diciamo. Ma la sperimentalità è simultanea. Ogni piccolo quadro di “Studenti” tende a un suo assoluto. L’assoluto, nozione simile a quella dell’infinito, è nozione relativa. Nessuna cultura è definitiva, ma lo è rispetto alla mia cognizione che esplora la versione più estrema di un concetto relativo. La relatività, dico, non cancella le differenze né le scale di misura. L’opera è la cultura del tempo, la lingua del tempo, il Medioevo, il Rinascimento, per intenderci. La nostra epoca lascia dei segmenti. Ogni lavoro (oggetto fisicamente delimitabile) è il tentativo di immobilizzare il senso. Uno scampolo di poesia che è di per sé un estremo, un assoluto storico, cioè “relativo”, appunto. In un discorso assolutamente relativo il mondo si rifà semplicemente oggettivo.
CCB: Tanti materiali, tanti quadri, tanti segmenti. Cosa significa dunque l’impressione di ingombro, presente anche nella mostra “Casa d’artista” alla galleria Anna D’Ascanio nel 1990?
FM: C’è spesso ingombro nel mio lavoro. C’era anche nelle performance. Tendo a rendere la vita non così facile al visitatore della mostra. Invado lo spazio pacifico museale. Non tollero che il visitatore sia un passante. Devo obbligarlo a stare attento. E come nella performance: deve essere difficile “vederla”. La sistemo in un posto cui è difficile accedere. Il visitatore è un partecipante attivo contrastato, non facilitato. L’arte necessita del consumatore in un rapporto diverso dal consumatore d’altro genere. Non voglio innanzitutto compiacere, spesso mi accade di infierire. Non dimentico mai il pubblico. È di lui che parlo. Faccio di continuo appello all’emozione dell’intelligenza.