Che cos’è davvero “Panorama”? Una mostra diffusa, un momento di incontro, un’opportunità per riscoprire l’Italia meno nota, una sintesi tra mercato e cultura? Probabilmente è un po’ tutte queste cose insieme. Giunta alla sua quarta edizione, “Panorama” ha inaugurato la stagione post-estiva, questa volta nella suggestiva cornice del Monferrato, in Piemonte. Organizzata dal consorzio di gallerie d’arte Italics, l’esposizione, curata da Carlo Falciani, si è svolta nell’arco di quattro giorni snodandosi tra i borghi di Camagna, Vignale, Montemagno e Castagnole, coinvolgendo spazi inusuali, riaperti e allestiti appositamente per l’occasione. È stato un vero piacere camminare tra i paesaggi collinari, accarezzati dalla brezza settembrina, per poi visitare le architetture storiche locali, dove le opere d’arte dialogavano in modo, per così dire, naturale con gli spazi circostanti.
Ma procediamo con ordine: il tema centrale della mostra traeva ispirazione da La Civil Conversazione di Stefano Guazzo, un classico rinascimentale di grande successo tanto in Italia quanto in Europa, ambientato proprio a Casale Monferrato. Il volume, pubblicato per la prima volta nel 1574 e articolato in quattro libri, si sviluppa attraverso un dialogo tra un uomo, isolato dalla società dopo una lunga convalescenza post-pandemica, e un amico medico. Nel corso della conversazione, i due personaggi affrontano una serie di temi, con particolare attenzione alle regole del dialogo, che Guazzo considera una pratica essenziale per il progresso etico dell’individuo e il fondamento di una società governata dalla ragione. La Civil Conversazione è stata assunta così a filo conduttore dell’esposizione, un monito che si ritrovava in ogni borgo con l’esposizione di una copia originale del volume. Ciò che veniva proposto era dunque un viaggio fisico e intellettivo tra una sezione e l’altra della mostra, volto ad esplorare tematiche fondamentali e universali quali lavoro e radici, ritratto e identità, caducità e morte, e infine, la sacralità dell’arte.
Il percorso iniziava a Camagna, dove l’ex Cottolengo di Casale ha ospitato opere legate al rapporto, appunto, tra lavoro e radici. Nella vecchia cappella dell’edificio era esposta The Paradoxical Nature of Life (2023) di Arcangelo Sassolino (Galleria dello Scudo), un’incudine di 280 chili sospesa su una lastra di vetro, che, con la sua tensione tra forza e fragilità, sembrava evocare l’attesa di un evento catastrofico che però non accade mai. Di grande interesse la sala dedicata alla serie fotografica Sulle Langhe (1973) di Franco Vimercati (Galleria Raffaella Cortese) – raramente esposta – in cui le immagini in bianco e nero dei volti di un villaggio piemontese ritraggono un passato ormai lontano, riportando alla memoria gli abitanti, i loro mestieri e le tradizioni della campagna. Accanto a queste fotografie si trovavano oggetti forgiati dai maestri d’armi del XVIII-XIX secolo – incudini, morse da banco, laminatoi – rimandi al lavoro nel suo aspetto più pragmatico. Infine, l’opera video dell’artista giapponese Shimabuku, Let’s Make Cows Fly! (Hokkaido) (ZERO…) (2022), con il suo spirito giocoso, mostrava dipinti volanti su aquiloni a forma di mucca, offrendoci un’opportunità per interrogare il mondo da un diverso punto di vista.
Nella parte sottostante dell’edificio erano esposte opere di artisti come Binta Diaw (Prometeo Gallery Ida Pisani): nel video Essere Corpo (2019), l’artista esplora le origini primordiali dell’essere umano e le capacità sensoriali primarie del corpo, in una realtà che spesso ci allontana da esse. A Vignale, il tema del ritratto e dell’identità veniva affrontato principalmente nella meravigliosa sede di Palazzo Callori, dove, all’ingresso, si era avvolti da un profumo di sapone di Marsiglia che guidava verso l’opera di Elisabetta Di Maggio (Studio Trisorio), Rape (2001), una lastra di saponette disposte a terra che creava una bellissima contraddizione tra l’aspetto familiare del sapone e la sofferenza delle scritte incise su di esse, a ricordarci che alcune violenze e dolori non possono essere semplicemente lavati via. Al piano superiore, la sezione dedicata al tema del ritratto – a tratti forse troppo didascalica – si sviluppava con opere che spaziavano dalla testa di Ulpia Marciana (120-130 d.C), ai feltri di Vincenzo Agnetti (Osart Gallery), al quadro Kim 2 (2008) di Alex Katz (Monica De Cardenas), fino ai Senza Titolo (2024) di Damien Meade (CAR Gallery), i cui colori si armonizzavano sorprendentemente con le zoccolature delle pareti.
A Montemagno, la sezione dedicata alla caducità e alla morte accoglieva i visitatori presso la monumentale Scala Barocca con i suoni di Run Fast and Bite Hard (Entre Chien et Loup) (2022) di Marzia Migliora (Galleria Lia Rumma), una sinfonia di suoni di bosco e canti di uccelli, realizzata registrando la voce di un un chioccolatore – antica pratica legata alla battuta di caccia – in collaborazione con rumoristi del cinema. Ma, a catturare maggiormente l’attenzione era, sempre di Migliora, Prey (2020): un blocco di salgemma trafitto da un arpione, esposto all’interno di una vetrina museale vittoriana. L’opera, se da un lato evoca immediatamente le cacce agli animali giganteschi di epoche passate, dall’altro ci pone di fronte a una riflessione più profonda sulle modalità e le ragioni delle esposizioni museali. Al Castello di Montemagno, i lavori si moltiplicavano: i visitatori erano accolti da un allestimento che creava una suggestiva veduta prospettica, dominata da The Jumpsuit Theme Series (2023) di Sara Enrico (Vistamare), con i suoi iconici corpi distorti, una ricerca a partire dalla tuta come struttura malleabile e scolpibile. Apparentemente sullo sfondo della sala, si trovava The Fall (Mountains View from Lausanne) (2020) di Latifa Echakhch (kauffman repetto), un paesaggio montano rappresentato come un fondale scenografico collassato, con parte della tela dipinta sospesa e l’altra abbandonata sul pavimento, a creare l’illusione di un cielo sul punto di precipitare.
La mostra si concludeva a Castagnole, con il tema della sacralità dell’arte, anche in senso laico. Nell’ex Asilo Regina Elena si trovava l’installazione Pannocchia (2016-2024) di Invernomuto (Pinksummer), che, invadendo lo spazio con una musica devozionale indiana, evocava la natura agreste del territorio e i riti legati alla terra. Nel loggiato superiore dell’edificio, l’opera site-specific Passi (2024) di Alfredo Pirri (Galleria Tucci Russo), che, con il suo pavimento di specchi, invitava i visitatori a camminare con un doppio sguardo, rivolto sia verso di sé che verso l’esterno. Infine, Luca Vitone – invitato a partecipare da Falciani stesso – chiudeva simbolicamente la mostra con Per l’eternità (2013), un’opera senza nulla da vedere, ma tutta da respirare; il profumo caratteristico richiamava inconsciamente l’inalazione delle polveri di Eternit, un riferimento preciso alla chiusura della fabbrica di Eternit a Casale Monferrato nel 1986, i cui effetti devastanti sulla popolazione, con morti causate dalla dispersione delle polveri, sono ancora evidenti.
In questo viaggio proposto dal curatore, dalla terra allo spirito, dall’oggetto alla sua smaterializzazione, “Panorama” si è confermata come una mostra profondamente italiana, radicata nel territorio e, in questa edizione, nei grandi temi della storia dell’arte. Condivisibile o meno, Falciani ha scelto un approccio che si distanzia dalle mode curatoriali del momento – se così vogliamo definire i temi che animano il dibattito contemporaneo – per concentrarsi su questioni universali come la vita, la morte e l’identità. Non è stata una mostra dirompente, ma certamente di alta qualità, grazie all’attenta selezione degli artisti e a un dialogo riuscito con le opere, i luoghi e il patrimonio storico locale. “Panorama” si conferma un’ottima formula espositiva e, alla fine, si è rivelata anche quest’anno per quello che è: una grande festa dell’arte.