Pirelli HangarBicocca presenta “A Seed Under Our Tongue”, la prima mostra antologica in Italia dedicata a Saodat Ismailova, una delle artiste contemporanee più innovative della sua generazione, che lavora all’intersezione tra cinema, suono e arte visiva. I suoi film e le sue installazioni, con la loro suggestiva iconografia e le loro narrazioni ipnotiche, riflettono sul potere della natura, l’eredità coloniale e il delicato rapporto tra umanità e ambiente. Esplorando la memoria collettiva, i saperi ancestrali e la rappresentazione della femminilità, Ismailova attinge al patrimonio sociopolitico e culturale della sua terra d’origine, l’Asia centrale, per evocare temi universali.
Con nuove produzioni commissionate da Pirelli HangarBicocca, la mostra costituisce la prima rassegna personale dedicata a Saodat Ismailova in un’istituzione italiana. Le opere, che includono film, sculture e installazioni, realizzate dall’artista nella sua ventennale ricerca, sono presentate in un ambiente spaziale appositamente concepito. Riflettendo sul concetto di trasmissione – di conoscenze, così come di storie, memorie o territori naturali – e sulle sue implicazioni, “A Seed Under Our Tongue” unisce differenti narrazioni, creando un’atmosfera stratificata. Attraverso un’intricata sovrapposizione di ricordi, paesaggi, immagini, tempi e storie diversi, personali e collettivi, i visitatori si trovano immersi in una complessa realtà culturale, sociale e politica.
“Penso che il cinema sia come un contenitore, che trasporta e ricorda tutto”, afferma Ismailova. Il titolo della mostra, “A Seed Under Our Tongue”, è un riferimento alle nuove opere esposte: tra queste il film in progress Arslanbob (2023-24) e le sculture collegate, il seme d’oro di Amanat (2024) e il calco in resina di una grotta in The Mountain Our Bodies Emptied (2024). Prendendo spunto da una leggenda locale – che parla di un seme di dattero nascosto sotto la lingua e tramandato attraverso epoche e persone diverse fino a trasformarsi – la mostra riunisce dodici opere, sei film e sette sculture, che esplorano il concetto di trasmissione e l’idea, nelle parole dell’artista, “che siamo responsabili delle sette generazioni che ci hanno preceduto e delle sette che verranno dopo di noi”.
La trasmissione, tema ricorrente nell’opera di Ismailova, comporta il rischio della perdita, ma contiene anche le nozioni di ciclicità e circolarità. Allo stesso modo, la struttura della mostra riflette e ruota intorno a queste implicazioni, seguendo le storie dei due principali fiumi dell’Asia centrale, l’Amu Darya e il Syr Darya (Oxus e Jaxartes in greco), le cui acque un tempo alimentavano l’ormai arido Lago d’Aral. Disegnato in collaborazione con lo studio di architettura Grace di Milano, il layout di mostra si sviluppa tra le due grandi installazioni a tre canali che racchiudono l’intero spazio espositivo: Stains of Oxus (2016) e Arslanbob (2023-24), film girati rispettivamente sulle rive dell’Amu Darya e nell’area oltre il Syr Darya, nell’attuale Kirghizistan. La mostra ripercorre metaforicamente il viaggio del seme di dattero – dal suo inizio, conservato nella bocca di una figura mitica di nome Arslanbob, fino al suo dono a colui che sarebbe diventato il più importante e noto mistico dell’Asia centrale, Akhmad Yassawi, che con esso fondò la foresta di noci nota col nome di Arslanbob – sottolineando la natura contraddittoria di qualsiasi forma di trasmissione, che consente a un dattero di farsi noce. La mostra si apre con Stains of Oxus (2016), film che segue il corso del fiume Amu Darya/Oxus, raccogliendo i sogni delle persone che vivono lungo le sue sponde e raccontando la trasformazione del suo paesaggio, in particolare il drastico ridimensionamento subito durante i piani d’irrigazione sovietici. Nella regione, i sogni rappresentano un mezzo per mettersi in contatto con gli antenati e ricevere i loro messaggi. L’opera, come spiega l’artista, “è un viaggio topografico, dalla sorgente al delta del fiume, e solleva domande sull’ecosistema e sul paesaggio dell’Asia centrale, ma anche sulla tradizione del prendersi cura e del legame con i corpi idrici. Il film evidenzia in modo poetico il problema della cattiva gestione dell’acqua nella regione”.
In modo simmetrico rispetto a Stains of Oxus, all’estremità opposta della mostra troviamo Arslanbob, l’ultimo film di Ismailova, ancora in lavorazione, girato nell’omonimo noceto del Kirghizistan meridionale e sul vicino monte Sulaiman-Too, antico luogo di culto dell’Asia centrale. Sito avvolto da un’aura mistica e luogo di pratiche pre-islamiche, si trova nella fertile Valle di Ferghana, una delle aree più densamente popolate del mondo. Traducibile letteralmente come “la porta della tigre”, Arslanbob si collega anche ad altre opere della mostra, come la scultura in vetro A Guide (2024), oggetto ibrido in vetro composto da ossa di una mano umana e da quelle di una zampa di tigre.
Al centro dello spazio, due aree di proiezione, una di spalle l’altra, presentano in loop quattro film. Da un lato, The Haunted (2017) è un incontro simbolico e suggestivo con la tigre del Turkestan, estinta in epoca sovietica in seguito al processo di industrializzazione. L’animale diviene metafora della ricchezza di tutte le lingue, memorie e paesaggi che stanno scomparendo o che vengono alterati da sistemi di controllo e di potere. Considerata un archetipo sacro e messaggero degli antenati, la tigre continua a vivere oggi nella memoria collettiva e nei sogni delle persone. Il film si alterna a 18,000 Worlds (2023), basato su un montaggio di filmati raccolti nell’archivio dell’artista nel corso di anni. L’opera è ispirata alla concezione del filosofo persiano del XII secolo Sohrawardi, secondo cui noi viviamo in uno dei 18.000 mondi che compongono l’universo: un’idea, questa, che Ismailova ha appreso dalla nonna, figura centrale per la sua formazione. Il film riflette anche sull’idea di resistenza e di speranza di fronte a una globalizzazione inevitabile, presentando mondi e voci differenti che si oppongono al suo impatto.
Dall’altro lato, Chillahona (2022) si alterna a Two Horizons (2017). Presentata in anteprima in Italia in occasione della Biennale di Venezia nel 2022, Chillahona è un’installazione video a tre canali accompagnata da un grande ricamo, che traspone elementi del film nel tessuto. Reinterpretazione moderna del ricamo “cosmologico” uzbeko noto come falak, questo oggetto è stato disegnato da Ismailova e realizzato da Madina Kasimbaeva: rappresenta una cosmologia in dialogo con le immagini del film, che affronta il senso di vuoto e disordine durante il periodo della Perestrojka in Uzbekistan, a seguito del crollo dell’Unione Sovietica. Il titolo fa riferimento al numero 40, altamente simbolico nella tradizione, e alla pratica catartica femminile di osservare il silenzio per 40 giorni: Chilla significa infatti 40 in lingua persiana. In un’indagine che abbraccia un mito antico e storia moderna, Two Horizons ruota attorno all’idea di vita eterna. Il film intreccia la leggenda del primo sciamano, di nome Qorqut, che cercò di raggiungere l’immortalità sfidando la gravità, con le vicende della stazione spaziale sovietica di Baikonur, sulle rive del Syr Daria, dove Yuri Gagarin orbitò per la prima volta intorno alla Terra nel 1961.
Installate attorno ai film, insieme alle sculture già citate Amanat, A Guide e The Mountain Our Bodies Emptied, troviamo nuove opere e interventi che sviluppano e danno forma concreta alle storie e ai temi affrontati nelle immagini in movimento. The Haunted (2024), ad esempio, interpreta e traspone visivamente l’omonimo film del 2017 in un pannello tessuto a mano di seta e velluto, coinvolgendo artigiani del luogo e forme d’arte tradizionali e sottolineando anche la concezione che l’artista ha del film come di un intreccio. In una nuova installazione, Ismailova utilizza il crine di cavallo, materiale distintivo nella sua pratica e impiegato un tempo nella regione per segnalare le tombe dei santi o per la produzione di veli femminili. In mostra è l’elemento centrale della scultura sospesa lunga 11 metri lungo la quale vengono proiettate le parole del giovane poeta contemporaneo uzbeko Jontemir Jondor. Mentre per il nuovo lavoro che utilizza immagini d’archivio girate sul monte Sulaiman-Too nel 1928, proiettate su 24 pannelli di seta fluttuanti, Ismailova riflette sul formato del cinema (le proporzioni dello schermo così come la velocità di 24 fotogrammi al secondo) e sulla natura stratificata delle storie, suggerendo ciò che si perde o resta nascosto sotto la superficie visibile.
Infine, la forma del monte Sulaiman-Too, ritagliata e ricamata sulla tenda d’ingresso, che accoglie i visitatori all’inizio del percorso, diventa una lente attraverso cui decodificare la mostra. Lo stesso motivo è ripreso nelle cinque sedute all’interno dello spazio espositivo, che ricreano i cinque picchi più alti della montagna. Queste forme, ricavate dal rilievo orografico del monte, evocano il senso delle ere geologiche e incarnano un’idea tangibile di stratificazione e di trasmissione attraverso i secoli, connettendo le opere con l’eredità duratura del paesaggio.