Un rituale di oggetti scandisce il “pathos delle cose”, quel principio filosofico del “mono no aware” che nel pensiero giapponese indica la capacità di cogliere la bellezza nella transitorietà e nell’imperfezione dell’esistenza, lasciando in chi contempla una partecipazione emotiva ed empatica verso una condizione di fuggevolezza e fragilità che va presa in ogni suo singolo istante. Un rituale fatto anche di storie che registrano e accolgono memorie, tradizioni, corrispondenze. Così il merletto lavorato a tombolo che decora la mano in bronzo di una scultura poggiata sulla trave di un caminetto lo si ritrova dipinto nell’adiacente Ritratto della Contessa Antonietta Negroni Prati Morosini (1871-72) di Francesco Hayez, mentre la posa della mano con accanto quel calice in vetro e quella bottiglia rimandano in maniera esplicita a La lettrice (1864-65), olio su tela di Federico Faruffini appeso su una parete opposta e riflesso in uno specchio. E poi dei vasi lacrimatoi in vetro soffiato e dei petali in bronzo fuso a cera persa fanno eco alla drammatica storia d’amore di Faust e Margherita, in diretta risposta alla vicina scultura marmorea di Antonio Tantardini. Appartenenti alla collezione della GAM – Galleria d’Arte Moderna di Milano, questi capolavori ottocenteschi sono stati scelti, tra gli altri, da Kelly Akashi per entrare in dialogo con la sua nuova produzione scultorea presentata al piano nobile del museo in occasione della mostra personale “Converging Figures”, promossa da Fondazione Furla insieme a GAM e curata da Bruna Roccasalva.
Nata a Los Angeles da una famiglia di origine giapponese, Akashi studia fotografia analogica dopo essere stata folgorata all’età di tredici anni dall’intimità del lavoro di Nan Goldin, per avvicinarsi poi alla scultura, mezzo espressivo che le ha permesso di registrare e restituire un’instante fugace in maniera analoga all’obbiettivo fotografico. Bronzo, pietra, vetro, cristallo e soprattutto cera sono i materiali da lei prescelti sin dall’inizio, quelli che le hanno permesso di addentrarsi con naturalezza nei processi di sperimentazione formale, lasciando al lavoro il giusto respiro per far sedimentare in superficie diverse “posture” temporali.
“Converging Figures” testimonia così con rigore questa attenzione alla forma e ai materiali che nella ricerca dell’artista sono sempre in costante espansione, spingendo il suo vocabolario visivo verso temi e tecniche ricorrenti, restituiti però con maniacale variazione espressiva. Sculture, installazioni e stampe ai sali d’argento esplorano stanza dopo stanza l’impermanenza del mondo, lo scorrere del tempo – quello geologico e legato al corpo umano – e il concetto di memoria ed entropia, registrandone frammenti temporali che si evolvono in fragili istanti materici.
In sintonia con l’architettura e gli arredi della GAM, le opere tracciano in particolare una linea comune intorno alla nozione e al fenomeno della “riflessione”, nonché alla pluralità di approcci che esso può generare: se in alcuni lavori di Akashi le forme rimandano infatti a dei dettagli architettonici delle stanze o a dipinti e sculture presenti in collezione, in altre la loro superficie è trattata con materiali riflettenti, in modo tale da “inglobare” fisicamente l’ambiente circostante. Ne è un esempio Mirror Complex (Villa Reale) (2024), un cabinet in legno di ciliegio aperto su entrambi i lati e collocato al centro della stanza, esso ospita una serie di oggetti scultorei e fotografie che delineano formalmente e concettualmente alcune varianti di oggetto-specchio le quali, incorporando parte dello spazio intorno, lo amplificano e sdoppiano, condensando al contempo la fissità di un momento e il suo scorrere. Come infatti ricorda Roccasalva nel booklet che accompagna il progetto, “il titolo [della mostra] allude non solo a questa ricercata convergenza da parte dell’artista tra le sue opere e il contesto che le ospita, ma alla più generale attitudine di Akashi a creare combinazioni, corrispondenze, confluenze tra tempi, oggetti, e materiali diversi”. Senza mai rinchiudersi in un approccio puramente concettuale, le sue opere ribadiscono qui, più che altrove, una peculiare attitudine, ovvero la capacità di modularsi e aprirsi nel loro essere “oggetti singoli”, pronti però a rimodularsi, di nuovo, non appena si relazionano con altre opere, comprese quelle di altri autori, proprio come accade alla GAM.
È per questo che nel lavoro di Akashi risulta forse più spontaneo parlare di una ritualità non solo intesa come sofisticata prassi produttiva che sedimenta relazioni rimandi formali e materici, ma anche e soprattutto come momento nel quale convivono sottilmente diverse condizioni di esistenza, o meglio un susseguirsi di condizioni di esistenza che, come in un momento di ritualità, partecipano alla definizione di microcosmi, ognuno con la propria cifra estetica e poetica, ma tesi verso un carattere comune che circoscrive forme di scambio e conoscenza tra oggetti che diventano quasi apparizioni, stupefazioni.