Di solito, basta dire anni Ottanta, basta dire Elio Fiorucci e subito parte il treno della nostalgia, tra aneddoti personali e memorie private. È molto vero, a questo proposito, quello che scriveva ormai qualche anno fa il compianto Mark Fisher, parlando, per quegli anni, di un sentimento hauntologico. Si tratterebbe di una “nostalgia per un futuro perduto”, in cui qualcosa di assente – un fantasma – continua ad agire sotto forma di spettro, influenzando e orientando il presente. Ogni volta che si parla del decennio Ottanta sale sempre una grande vampata nostalgica, non tanto per il periodo in sé, quanto per il modo in cui, proprio in quel periodo, ci aspettavamo sarebbe stato il futuro. Non è il caso di calcare troppo la mano, ma forse, per certi versi, questo discorso può valere anche per Fiorucci – per le strategie con cui, attraverso la moda, ci ha fatto immaginare un presente che forse oggi ci delude.
È per questo motivo che si aspettava con grande curiosità la mostra dedicata dalla Triennale di Milano proprio al creativo di moda Elio Fiorucci. Aperta fino al 16 marzo 2025, l’esposizione, curata da Judith Clark con il supporto interno di Marilia Pederbelli e il progetto di allestimento di Fabio Cherstich, indaga la figura di Fiorucci provando a ricostruire in parallelo sia il percorso umano che quello imprenditoriale alla guida dell’omonimo brand. Se il rischio dell’agiografia e della canonizzazione a santo laico era dietro l’angolo, una tale impostazione permette di scoprire anche aspetti meno noti e più intimi di questa figura. Nondimeno, chi ha negli occhi e nella mente il negozio in San Babila, le maglie con gli angioletti, i neon colorati e le feste organizzate da Fiorucci non rimarrà deluso, perché, giocoforza, la mostra comunque ripercorre anche tutti i momenti salienti del brand.
Ma quindi, com’è questa mostra su Elio Fiorucci? Interessante. Qualcuno potrà obiettare dicendo che forse l’esposizione non è perfetta, e nondimeno riesce a sintetizzare in maniera piuttosto efficace il significato culturale di quello che Elio Fiorucci ha saputo realizzare in vita. In questo, è probabile che un allestimento a tratti baroccheggiante non aiuti. È pur vero che Fiorucci si è sempre distinto per l’esuberanza poliedrica delle sue forme. Tuttavia, visto il carattere già visivamente impattante del materiale esposto, l’apparato scenografico potrebbe risultare talvolta un po’ ingombrante, poco adatto a una fruizione piana delle opere.
Quello che invece non è soggetto a interpretazione è la grande quantità e qualità del materiale esposto, segno di una corposa ricerca d’archivio condotta in sede curatoriale. Questa ha potuto contare sull’apporto decisivo degli ex collaboratori dell’azienda – Giannino Malossi, Franco Marabelli, Maurizio Turchet – su quello di Love Therapy – ultima creazione imprenditoriale di Elio, oggi in mano alla sorella Floria Fiorucci – e sui documenti posseduti dal rinato brand Fiorucci, rilanciato nel 2022 dall’imprenditrice svizzera Dona Bertarelli. Le creazioni di moda di Fiorucci vengono così affiancate da un insieme eterogeneo di poster, grafiche, oggetti di design, bozzetti, shopping bag, riviste, che vanno a comporre il mosaico poliedrico dell’universo Fiorucci. Il merito più grande della mostra, forse, è proprio quello di dichiarare, in maniera chiara, cosa non fosse Elio Fiorucci. Non era uno stilista, non era un fashion designer, non era un artista. Ad emergere è invece la capacità creativa di Fiorucci, che ha saputo, con intelligenza, contornarsi di personaggi in grado di dare forma alle sue intuizioni e aggiungere valore culturale alla sua avventura imprenditoriale. In mostra, questo aspetto è rappresentato discretamente bene e diventa tanto più importante proprio perché spesso, abituati come siamo al culto della personalità, guardiamo a questi nomi come geni solitari che, novelli Prometei, rubano il fuoco da soli.
L’esposizione segue un percorso cronologico, scandendo la vita di Fiorucci in macro-tappe. Si parte dall’infanzia e poi dalle prime esperienze lavorative con il padre nel negozio di famiglia. Compaiono alcuni materiali d’archivio riferibili a questo periodo, prima ancora che Elio aprisse il negozio a suo nome. Seguono poi i primi anni della Fiorucci e l’apertura, nel 1967, del celebre negozio in Galleria Passarella, ispirato da Biba e dalla Swinging London degli anni Sessanta. Il periodo su cui vi è più materiale d’archivio è sicuramente quello che copre gli anni Settanta e Ottanta e coincide con la fase di maggior successo di Fiorucci e della sua azienda. Riferibile a questo arco cronologico gran parte della produzione grafica, di cui la mostra suggerisce l’incredibile capacità, in anni di immagine coordinata e corporate image, di mutare nella forma, ma rimanere semanticamente coerente a un preciso universo visivo di riferimento. Similmente, si ricostruisce anche il ruolo del secondo negozio milanese, quello di via Torino aperto nel 1974. Qui vengono ospitate performance di ispirazione Neodadaista e Situazionista, che non ci aspetteremmo di trovare relazionate a un brand sfacciatamente pop come Fiorucci. Una sezione è dedicata al Dxing, un ufficio di ricerca interna alla Fiorucci, al tempo preposto allo studio della moda e alla previsione dei mutamenti del costume. Questo ufficio, realtà assolutamente unica rispetto al contesto degli anni Settanta, sarà poi coinvolto nell’organizzazione di una mostra sulla moda in seno alla XVI Triennale del 1979. La nuova esposizione curata da Clark presenta delle riproduzioni d’epoca del materiale prodotto dal Dxing, tra cui le tavole sinottiche per la mostra di moda del 1979 e le fanzine, oggetti rarissimi anche sul mercato antiquario. Vista la sostanziale irreperibilità di quest’ultimi materiali, fa piacere vederli qui presentati al grande pubblico, sia pure sotto forma di riproduzioni e nonostante il loro peso specifico sia molto complesso da veicolare in poche righe di didascalia.
Notevole anche la sezione riferibile ai negozi americani di Fiorucci, in particolare a quello di New York, aperto nel 1976 e destinato a diventare un punto di riferimento per tutta la comunità artistica della metropoli americana. La figura di Elio Fiorucci viene così reinserita in una ragnatela di rapporti che non sono più solo locali o nazionali, ma si fanno internazionali, in un momento che coincide con l’acme del successo commerciale per l’azienda. Un pubblico poco avvezzo alla materia forse troverà qualche difficoltà nel farsi un’idea del clima storico e culturale che prende corpo a cavallo tra le due sponde dell’oceano, dal momento che in mostra la ricognizione sul contesto circostante è latente, ma mai esplicitata in maniera netta. Tuttavia, convincono le scelte curatoriali nell’esporre documenti, riviste, grafiche e scatti fotografici che permettono di rintracciare i legami tra Fiorucci e il milieu artistico newyorkese, tra cui spiccano Andy Warhol, Maripol, Joey Arias, Divine, Antonio Lopez e, immancabili, Jean-Michel Basquiat e Keith Haring. Proprio a quest’ultimo è dedicata una sezione a parte, dove si presenta la storica azione pittorica che nell’ottobre del 1983 lo vide protagonista, insieme al writer Angel “LA II” Ortiz, negli spazi del negozio Fiorucci in San Babila. Finalmente viene offerto al pubblico un pannello originale realizzato da Haring nell’occasione, dopo che le opere erano state rimosse e vendute all’asta negli anni Novanta. In più, dopo anni di scivoloni e refusi, la data (9-10 ottobre 1983) viene riportata in maniera corretta! Si sottolinea questo punto perché molti, anche in sedi autorevoli, hanno indicato, a sproposito, il 1984 come anno di questo evento. Un errore che può sembrare di poco conto è però importante dal punto di vista filologico, poiché la collaborazione con Fiorucci precede e non segue la seminale mostra “Arte di frontiera” (Bologna, 1984) e la sezione “Aperto ’84” alla 41a Biennale, i due eventi che faranno conoscere al grande pubblico la nuova scena artistica newyorkese in Italia. Questo appunto sulla cronologia sembra decisivo per capire il grado di cura messo nelle ricerche, spesso farraginose nell’industriosa fabbrica di mostre nostrana.
L’esposizione si chiude con gli anni Novanta e le ultime imprese imprenditoriali. Tra queste spicca Love Therapy, di cui fanno ancora parte la sorella Floria e i nipoti. Terminato il percorso, siamo accompagnati verso l’uscita dall’opera di videoarte Fiorucci Made Me Hardcore, realizzata nel 1999 dall’artista britannico Mark Leckey. Composta con prelievi di scene di clubbing degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, Leckey ha scelto proprio Fiorucci come riferimento per sintetizzare la cultura giovanile dell’ultimo scorcio del Novecento. Guardare quest’opera oggi ci ricorda di un tempo liminare in cui il Millennium Bug apriva le porte a un mondo in divenire, fatto di tecnologia, Internet e telefoni cellulari. Già nel 1999 Fiorucci sembrava forse appartenere a un mondo analogico che andava sfumando. E dunque l’opera di Leckey, sebbene non relazionabile direttamente a Elio Fiorucci, sintetizza bene anche l’effetto di questa esposizione temporanea – un’operazione antiretorica in cui la cara, vecchia nostalgia è subordinata a una mappatura efficace di quanto Fiorucci ha fatto e di cosa ha rappresentato. Dunque, come andavano scrivendo i gruppi giovanili dell’epoca, finalmente il cielo è caduto sulla terra: la rivoluzione.