Irene Sofia Comi: Il tuo lavoro è caratterizzato da un’impronta interdisciplinare. Guardi soprattutto al cinema come dispositivo e, di recente con più insistenza, al teatro e alle sue architetture. In che modo questi linguaggi supportano la tua ricerca? Nella tua visione quale azione di supporto danno il cinema e il teatro all’arte, e viceversa?
Gaia De Megni: Mi servo principalmente dell’archivio cinematografico e di macchine teatrali, grazie ai quali provo ad attivare un’analisi critica delle narrazioni occidentali. Cerco di mettere in comunicazione differenti linguaggi per arrivare a una sorta di frammentazione così da poterne analizzare gli elementi in modo sempre più specifico e capirne l’incidenza in chi sta guardando.
Cinema e teatro sono supporti che mi permettono di ragionare ampiamente sull’idea di rappresentazione e di racconto, con essi cerco di attivare un dialogo tra schemi classici e possibili reinterpretazioni.
ISC: In Leitmotiv, la tua prima personale istituzionale, visibile fino al 24 gennaio a Fondazione La Rocca e curata da Francesca Guerisoli, presenti sette nuove opere. Rispetto ai lavori precedenti si coglie un principale slittamento di natura formale e poetica. Lavori sempre più scomponendo, frammentando l’immagine in movimento o l’azione nel tempo. Crei oggetti di scena senza coordinate o riferimenti che si fanno azioni in potenza. In modo più esplicito rispetto al passato, ho l’impressione che la tua ricerca si stia spingendo verso la creazione di oggetti-tracce che ricercano, e insieme evocano, un’essenza, un mistero, una sospensione.
GDM: Con Leitmotiv ho analizzato il concetto di biografia e autobiografia come metodi narrativi. In essi si trovano facilmente tempi lineari come inizio, svolgimento e fine dove il tutto viene compresso in un unico e progressivo cronoprogramma. Grazie alla traccia, all’evocazione, cerco di avvicinarmi a ciò che sfugge o difficilmente si categorizza. Utilizzando i sottotitoli in audiodescrizione, per esempio, mi sono servita della parola come immagine per generare suoni nella mente di chi legge. Così facendo provo a stare in una zona grigia, dove l’interpretazione è propria e non pre-determinata.
ISC: Un altro elemento ricorrente nelle opere realizzate per la personale pescarese è il riferimento a soggetti animali, aironi e gabbiani. Sin dall’antichità, penso alla zooepica, la figura animale ha assunto un carattere simbolico. Da un punto di vista critico-teorico la loro presenza è già di per sé coerente nella tua poetica poiché gli animali sono protagonisti di miti o racconti, strumenti narrativi al centro della tua ricerca. Tuttavia meno diretto, e per questo più nascosto, è il collegamento della sfera animale alla tua storia personale, bio- e geo-grafica. Edulcorati soggetti artistici, aironi e gabbiani sono anche parte del tuo vissuto quotidiano. Penso a Profeta (2019) o il Teatro degli aironi (2024)… Vorrei approfondire il motivo del tuo interesse e come questo si coniuga – se lo fa – con altri elementi parte della tua ricerca, più vicini alla sfera dell’artificio (penso alle riflessioni sulla veste o alla costruzione dell’arte cinematografica).
GDM: Come dicevo, Leitmotiv parte dalla necessità di scomporre un racconto personale, con lo scopo di allontanarsi da una sovrastruttura pre-esistente. Ho sempre trovato molto complesso raccontare il luogo dove sono nata e cresciuta (la riviera Ligure), proprio a causa delle narrazioni che già esistono e che lo descrivono come il Summer Dream in preda alla turisticizzazione di massa. Questa mostra è una sorta di esercizio che ho voluto fare per provare a capire il perché di questa difficoltà. Quali sono gli elementi che rendono un’immagine satura, capitalizzata, appunto turisticizzata?
Per questo motivo ho deciso di parlare dell’inverno e dei suoi abitanti, ovvero gli animali. Quando il grande Luna Park spegne le luci, la piazza rimane vuota, e il vociare si affievolisce, i veri protagonisti diventano loro insieme alla popolazione autoctona che va scomparendo di anno in anno. Impossessandosi del teatro ormai vuoto è come se diventassero essi stessi dei personaggi.
ISC: La figura del militare e delle sue ritualità ritorna in numerosi dei tuoi lavori. Nella mia lettura diviene un motif, un cliché reiterato che, nel suo variare, finisce per essere negato. Penso alla performance al Museo del Novecento Propaganda (2018) e alle video-performance Il Mito dell’Eroe (2019), dove performer in abiti simil-militari parlano alla platea o marciano sul posto, o ancora a Amore giovane (2020), fotografia cinematografica che sembra rappresentare un soldato di spalle intento a guardare l’orizzonte (che è in realtà un tuo ritratto). Ad oggi è la sola figura umana che si manifesta così insistentemente nelle tue opere. Da dove proviene questo interesse? In un ampio apparato di rappresentazioni egemoniche e di potere – primariamente occidentale –, come hai scelto di concentrarti proprio su questa figura? E in che modo la presenza corporea si intreccia con essa nella tua ricerca?
GDM: Il costume militare è un medium che ho scelto principalmente per la sua forte connotazione simbolica e immaginifica. Il personaggio del militare ha di per sé significati apparentemente scontati come il valore, l’accondiscendenza, l’affermazione del ruolo. Attraverso la divisa, di grado avanzato prevalentemente, riesco a ragionare sulla facilità con la quale è possibile creare un tilt visivo partendo da elementi molto semplici come, per esempio, il materiale delle medaglie. È un esercizio che faccio per verificare la caducità dei simboli e l’influenza che essi hanno attraverso l’immagine che inconsciamente vi accostiamo.
Il militare non è di per sé fine a se stesso, ma è un modo più ampio per ragionare sullo stare nelle varie sfaccettature che la società impone all’individuo, come ad esempio l’identità e appunto il ruolo. Nell’opera Amore giovane (2020) ho voluto io stessa indossare quegli abiti proprio per questo motivo: mi interessava mettere in discussione un certo tipo di classicità attraverso il corpo, la postura, l’identità.
ISC: L’elemento della trasparenza caratterizza opere come Afelio (prop) (2023), fucili feticcio della performance Afelio (2023), o Medagliere (2024), medaglie “vuote” prive di identità. Le definirei presenze-assenze attraverso le quali si sposta un paradigma – delicatamente ma fermamente, in un equilibrio tra poetica artistica e presa di posizione politica. Denunci i connotati costitutivi di questi strumenti e per estensione, in un processo metonimico, l’intero portato sistemico su cui si basano i regimi di sovranità, ordine e controllo, e la storia storiografata. Il tuo posizionamento è quindi anti-egemonico, anti-eroico e anti-retorico? È possibile sconfiggere un immaginario mediante la sua reiterazione visiva, negarne materialmente il peso riaffermandone la presenza?
GDM: Non credo molto nel valore neutro dell’opera d’arte, penso sia necessario posizionarsi e ragionare sul presente, per questo utilizzo la mia pratica come principale motivo di ricerca e messa in discussione di me stessa e di ciò che accade intorno. Recentemente sono rimasta molto colpita dopo che un mio lavoro (Il Mito dell’Eroe, 2021) ha ricevuto una censura perché, a causa della presenza di un militare, avrebbe potuto causare disagio nel pubblico. Questo come tanti altri casi di censura, dilagati nell’ultimo periodo, rappresentano la cartina al tornasole dello stato dell’arte e della sua restituzione. Mi sento obbligata, per la situazione politica e il periodo storico in cui vivo, a costruirmi degli strumenti pedagogici che mi aiutino a comprendere dove sono e perché vivo in un contesto di fallace privilegio. Inoltre credo sia quasi impossibile non parlare del tema delle armi in Italia…
ISC: Questi lavori evocano scenari connotati e al contempo si aprirono a possibili riscritture, narrazioni altre. Come tali discorsi si intersecano con l’idea di memoria? È il processo di decostruzione sufficiente a scardinare tali dinamiche che possono risultare vetusti e anacronistici in determinate “bolle” socio-culturali ma che l’attualità porta a riconsiderare tristemente come costitutivi anche del presente? Il tuo lavoro parla di diverse soggettività e identità collettive più virtuose? O forse oggi non c’è più bisogno di figure in cui immedesimarsi?
GDM: È difficile per me confrontarmi con l’idea di memoria così come con l’idea di virtù. Credo sia evidente un persistente stato d’immedesimazione, forse una delle più lampanti caratteristiche del nostro tempo. I sistemi occidentali si basano sull’immedesimarsi per affermare la propria egemonia in modo sempre più sistemico e aleatorio. Possediamo il privilegio di memoria, di storia e di virtù, relegando il pensiero a schematizzazioni forvianti e prive di complessità. Non credo che il processo di decostruzione sia abbastanza, spero soltanto aiuti a capirci qualcosa.