La conversazione fa parte della sezione Dopo le istituzioni: verso un nuovo paradigma culturale di Flash Art Italia – Agenda 2025 in cui abbiamo voluto interrogare direttrici e direttori del sistema italiano dell’arte sulla profonda trasformazione sociale, tecnologica ed ecologica che le istituzioni stanno attraversando in questo momento storico. Le domande che abbiamo posto sono le seguenti:
Dissoluzione dei Confini
In un’epoca in cui i confini tra discipline, media e forme espressive sono sempre più fluidi, come possiamo immaginare l’evoluzione dello spazio espositivo oltre la sua definizione tradizionale? È possibile concepire una fondazione, museo, che non sia più contenitore ma organismo vivente, e come si manifesta questa trasformazione?
Cittadinanza Culturale
Come si ridefinisce il concetto di “pubblico” nell’era della partecipazione diffusa? In che modo una istituzione culturale può diventare un agente di cittadinanza culturale attiva, superando il modello tradizionale di fruizione passiva per creare nuove forme di appartenenza e coinvolgimento?
Ecologia delle Pratiche
In un momento di profonda crisi ecologica e sociale, quale ruolo può assumere l’arte come laboratorio di pratiche sostenibili non solo ambientali ma anche sociali e culturali? Come si ripensa l’istituzione in termini di responsabilità verso il futuro?
Tecnologia e Trascendenza
Come si riconfigura l’esperienza dell’arte nell’era della realtà aumentata e dell’intelligenza artificiale? Quale dialogo si può instaurare tra la materialità dell’opera, la presenza fisica del visitatore e le infinite possibilità del digitale?
Temporalità Mutanti
Come cambia la relazione tra passato, presente e futuro nella programmazione culturale contemporanea? È possibile immaginare un museo/ spazio che operi simultaneamente su diverse temporalità, creando connessioni inedite tra memoria e futuro?
Spazio Politico
In che modo una fondazione o una istituzione può configurarsi come spazio di resistenza e trasformazione politica, mantenendo la sua autonomia ma assumendo un ruolo attivo nel dibattito contemporaneo? Come si bilancia la funzione critica con quella istituzionale?
Dissoluzione dei Confini
Chiara Bertola: Conservare ed esporre opere d’arte restano compiti essenziali per un’istituzione culturale, ma non bastano a rispondere alle nuove sfide che un museo deve affrontare nel XXI secolo. Ritengo che ogni museo debba essere un luogo d’incontro e scambio, capace di superare i confini delle proprie mura. Nel mio lavoro alla GAM di Torino, l’obiettivo è trasformare l’istituzione in uno spazio capace di dialogare con il contesto circostante, valorizzando i cambiamenti in corso e perfezionando le modalità espositive, per dare nuova vita tanto alle opere storicizzate quanto a quelle contemporanee. In questo modo, il museo può diventare non solo un custode di storia e memoria, ma anche un luogo di innovazione culturale. Vorrei che la GAM evolvesse come un organismo dinamico e complesso, in costante dialogo con le altre istituzioni torinesi. La sinergia che deriva da queste connessioni può rivelarsi straordinariamente fertile. Il nostro obiettivo sarà quello di illuminare, valorizzare e reinterpretare il patrimonio che ci è stato affidato, offrendo nuove chiavi di lettura e restituendo l’arte in forme inaspettate. Attraverso l’emergere di connessioni originali, la contaminazione tra linguaggi e la riscoperta di soluzioni dimenticate, speriamo di sorprendere e ispirare anche le nuove generazioni di artisti. Per descrivere ciò che un museo dovrebbe essere oggi, trovo che la metafora organica sia particolarmente efficace. Questa immagine mi aiuta a spiegare il comportamento dell’opera d’arte, che, come un organismo vivente, racchiude in sé le leggi del proprio sviluppo: l’opera – così come il museo – è un’entità “vivente”, che attraversa le fasi di nascita, crescita e trasformazione, attraverso lo sguardo dello spettatore. In questo senso, la proposta culturale di un’istituzione contemporanea diventa organica soprattutto nella modalità di ricezione che offre al pubblico: non un’esperienza di consumo passivo, ma un processo in cui il fruitore si riposiziona continuamente rispetto a significati in continua evoluzione. La programmazione che ho ideato per la GAM si basa su un sistema di “risonanze” tra le diverse componenti del museo: collezioni, mostre, eventi e attività formativa senza tralasciare il deposito. L’immagine che meglio rappresenta questa dinamica è quella di un intreccio: un intreccio infinito, fatto di incroci multipli, che rifiuta gerarchie e invita a una fruizione libera e aperta. L’intreccio, per esempio, è un filo sottile che annoda e snoda collegando le opere degli artisti invitati: il colore vitale e ironico della ricerca di Mary Heilmann con le strutture del colore temporale e organico di Maria Morganti. Il ritmo vitale delle strutture di Fausto Melotti, in dialogo con le forti sculture di Alice Cattaneo che segnano lo spazio disegnandosi nel vuoto. E così, lungo il dipanarsi del palinsesto programmatico, sarà ancora un ulteriore intreccio a creare tra noi e lo spazio invisibile e misterioso delle opere, una diversa percezione del mondo. Il lavoro artistico non può più parlare in modo diretto, né seguire un discorso dominante. Si limita a tentare, spesso senza concludere, percorsi diversi, lasciando spazio a inevitabili ambiguità. I tracciati che le opere d’arte disegnano si rivelano più lunghi del previsto, spesso perdendo le proprie tracce lungo il cammino. Eppure, questa dispersione riesce a generare molteplici versioni dello stesso evento, reinterpretando il presente (e il passato) in modi inattesi e sorprendenti. Oggi mancano le condizioni per creare opere che si impongano con un significato forte e inequivocabile, perché gli artisti operano su un terreno mutevole e instabile. Il senso che emerge è fragile, ambiguo e sensoriale. Queste opere non offrono certezze o percorsi definitivi, ma si muovono ai margini, mimetizzandosi con la vita stessa. Utilizzano materiali delicati e inconsistenti per proporre sguardi inediti, sfuggendo a interpretazioni frontali. Il loro significato si rivela nella smaterializzazione e nelle alterazioni percettive, dissolvendo i confini tra realtà e visione. Si pensi all’opera impalpabile di Veronica Jansson, che trasforma la percezione dello spazio e del tempo attraverso la riflessione di uno specchio o le tracce di polvere colorata, oppure si pensi alla drammatica vibrazione dei tagli nei muri di carta che sostengono le opere di Elisabetta Di Maggio. È proprio in questo territorio sottile, nell’ambiguità dell’immateriale, che le opere degli artisti svelano dettagli a lungo ignorati: ombre e riflessi diventano protagonisti, e ciò che era inosservato trova finalmente esistenza.
Cittadinanza Culturale
CB: Credo che in questa epoca, in cui la partecipazione diffusa è ormai una condizione stabile e imprescindibile, la vera sfida sia realizzarla davvero, sia nella programmazione museale che nel lavoro quotidiano del museo. Spesso, infatti, il concetto di “partecipazione diffusa” si riduce a una formula vuota, una stringa di parole appiccicata al vocabolario istituzionale o a un’etichetta “corretta” da esibire. Invece, il “pubblico” non può restare un’idea astratta: deve diventare una comunità affezionata, che si riconosce nel museo, ne condivide i percorsi e ne segue le attività con interesse. Per fare questo, il museo deve pensare e progettare attività realmente dedicate al proprio pubblico, trattandolo come un sostantivo vivo e concreto, come un’audience da coltivare e nutrire. Eppure, il pubblico di oggi rischia spesso di essere passivo, poco curioso e accondiscendente. Per scuoterlo da questo torpore, si tende talvolta a proporre mostre spettacolari ma superficiali, che non stimolano una riflessione profonda. D’altro canto, programmi troppo sofisticati e silenziosi rischiano di non raggiungere nessuno, lasciando le sale vuote. Questa è una sfida cruciale per i direttori dei musei: come risvegliare un pubblico che si sta intorpidendo? In un’epoca in cui tutto sembra appiattirsi e globalizzarsi, come possiamo ricostruire un rapporto autentico tra istituzione e pubblico? Servono strategie capaci di attrarre le persone, di invitarle a vivere il museo come uno spazio di scoperta e riflessione, e a lasciarsi coinvolgere in esperienze che possano aprire nuovi orizzonti. La chiave è trovare un equilibrio: creare proposte che, pur pensate per un contesto pubblico, sappiano essere intime, capaci di parlare sottovoce e di coinvolgere le persone a un livello più profondo. Fidelizzare un pubblico significa offrirgli non solo spettacolo, ma anche autenticità, proponendo esperienze che lascino un segno e costruiscano un legame duraturo con il museo. Si dovrebbe trovare un equilibrio tra il caos generato dalla moltitudine di voci che riempiono il nostro mondo, reale e virtuale, e il silenzio di cui sembriamo avere un bisogno profondo. Questo silenzio, un tempo legato alla preponderanza della missione conservativa dei musei rispetto a quella inclusiva, educativa e critica, oggi deve convivere con il dinamismo che caratterizza le istituzioni contemporanee. Un museo può essere un hub vivace e rumoroso, a patto che offra anche spazi di riflessione, zone meditative dove il pubblico possa concedersi un “ozio” inteso come riposo attivo. Una volta creato il “pubblico” – inteso come una comunità attiva e diversificata, composta non solo da spettatori, ma da co-creatori e partecipanti – questo deve essere curato, nutrito e meravigliato ogni volta. Per questo ho voluto introdurre, in ogni ‘Risonanza’ del programma, la figura dell’intruso, un elemento capace di destabilizzare e rinnovare la percezione. Mi piace immaginare che la sensibilità dell’artista, del curatore e del pubblico si incontrino, anche solo per un attimo, nello stesso spazio dedicato. Una mostra, infatti, non dovrebbe essere una struttura rigida che controlla aspettative e reazioni, trasformandosi in un prodotto finito – e quindi “morto” dal momento dell’inaugurazione. Al contrario, credo che un’esposizione debba rappresentare una fase della vita dell’opera, che poi continua a evolversi e trasformarsi. È questo processo di incontro e di dialogo con la creazione a interessarmi di più. Il museo, oltre a essere uno spazio di osservazione attiva, di contemplazione e meraviglia, può diventare un vero laboratorio culturale aperto, dove le persone partecipano attivamente, arricchendo le storie con le loro esperienze e punti di vista. Un esempio che ricordo con particolare affetto è la mostra collettiva Terre vulnerabili che avevo ideato per l’Hangar Bicocca, nel 2009. Era un progetto espositivo in continua evoluzione, pensato come un organismo vivo, germinativo e organico. Durante il suo percorso, la mostra cresceva insieme al pubblico e agli artisti, che se ne prendevano cura, nutrendola e facendola sviluppare nel tempo. Il progetto, con trenta artisti internazionali, era scandito in quattro fasi, simbolicamente legate alle fasi lunari. Ogni nuova fase si sovrapponeva alla precedente senza annullarla, creando un processo cumulativo e stratificato. Questo approccio rendeva la mostra “viva”, proseguendo oltre la singola inaugurazione. Ecco, quel progetto era pensato anche per il pubblico che partecipava attivamente, tornando a visitare le opere e a osservarne la crescita, assumendo un ruolo di cura e attenzione verso lo spazio e il progetto stesso.
Ecologia delle Pratiche
CB: In un’epoca di crisi ecologica e sociale senza precedenti, il museo non può più limitarsi al suo ruolo tradizionale: deve diventare un laboratorio di pratiche sostenibili, un esempio concreto di responsabilità e innovazione. La sostenibilità, però, non è solo un concetto astratto, ma credo debba diventare un impegno che si converte in azioni quotidiane vere. Sul fronte ambientale, per un museo si traduce anche nell’applicare sistemi ecologici, come il miglioramento dell’efficienza energetica, riciclare i materiali, coprodurre eventi e mostre, condividere funzioni (depositi per le opere, personale e materiale tecnico), utilizzare energie rinnovabili. Da anni frequento il dibattito che sta proponendo Michelangelo Pistoletto con il suo Terzo Paradiso, un concetto che integra arte, etica e sostenibilità e che Cittadellarte – Fondazione Pistoletto, di Biella sta portando in tutto il mondo. Ascoltando incontri e dibattiti su questi temi, mi è sempre più chiaro come la sostenibilità sia ormai al cuore della coscienza artistica e istituzionale, un terreno comune e imprescindibile su cui costruire il futuro di un museo e la sua comunità. E il museo nel formare questa coscienza ha un ruolo importante, può suscitare interrogativi e aiutare ad approfondire i temi o anche a figurarli attraverso un programma di mostre e di incontri tematici precisi e di qualità; lo può fare attraverso una forte, continua e buona attività educativa, su temi cruciali come quelli del cambiamento climatico e dell’uso adeguato delle risorse. È necessario sensibilizzare il pubblico ad abituarsi a nuovi pensieri, a nuovi ordini mentali, per arrivare a formarsi una nuova coscienza. A vedere, ad allarmarsi. Il rischio è quello di abusare di questi temi e presentarli soltanto come input ‘politically correct’ senza veramente offrire strumenti per comprenderli. Un museo può davvero diventare un motore di cambiamento se adotta strategie sostenibili nella gestione degli spazi, se riesce a coinvolgere veramente comunità diverse e a utilizzare l’arte anche per immaginare nuove prospettive. La chiave, però, sta nel farlo in modo autentico e concreto. Solo così il museo può trasformarsi in un modello di responsabilità, capace di ispirare la società e offrire nuovi modi di guardare il mondo.
Tecnologia e Trascendenza
CB: L’esperienza dell’arte nell’era della realtà aumentata e dell’intelligenza artificiale certamente si apre a possibilità straordinarie, in grado di trasformare il rapporto tra l’opera, il visitatore e il digitale. Il digitale offre infinite opportunità per ampliare i confini dell’esperienza artistica, creando nuovi linguaggi e modalità di interazione. Tuttavia, sebbene queste tecnologie siano state spesso esplorate, posso dire di averle viste realizzate in modo davvero convincente e potente solo a Punta della Dogana, nella mostra Liminal, di Pierre Huyghe. In quel contesto, il digitale non era solo un mezzo accessorio, ma una componente essenziale dell’opera, capace di dialogare con la materialità e di coinvolgere profondamente il visitatore. Lavorare con e nel tempo. È lì che ho percepito per la prima volta un uso forte e coerente di queste tecnologie, capaci di far emergere una nuova dimensione dell’arte, dove la presenza fisica e quella digitale si fondevano in un’esperienza unica e trasformativa.
Temporalità Mutanti
CB: Sono cosciente che il tema della relazione tra passato presente e futuro, per un museo, sia un tema cruciale e importante – soprattutto per una Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea come la GAM, che custodisce una collezione dall’Ottocento al presente. È un tema che ho vissuto per anni in Fondazione Querini Stampalia, dove ho dovuto trovare ogni volta nuove tensioni tra opere di secoli diversi e ambienti storici, immaginare spazi che non erano previsti, riconfigurare le relazioni tra gli oggetti esposti con quelli del presente, là dove si erano perdute. Nel tempo ho capito che lo spazio architettonico si può lavorare come una materia, che lo si può plasmare per trovare ogni volta impreviste soluzioni. Lavorando per tanti anni nel museo storico della Fondazione Querini con gli artisti contemporanei, mi sono convinta che lo sguardo degli artisti più interessanti e più sensibili riusciva ad aiutare non solo a capire il tempo in cui viviamo, ma anche a vedere in modo diverso il nostro passato, perché si tratta di rovesciare le logiche comuni che vedono il rapporto con il passato come esclusivamente conservativo e statico, perché lo considerano materia morta e non modificabile. In Italia, per esempio, si ha la tendenza a non riconoscere e a non sfruttare la ricchezza di spazi per lo più segnati dalla storia, dall’arte e dal tempo. Quasi sempre si propongono e preferiscono spazi bianchi e non contaminati come se, invece di essere il paese più ricco di capolavori d’arte del mondo, ci appartenesse la tradizione del White Cube. La cultura artistica italiana è sostanziata dal fatto che l’arte di tutte le epoche, è sempre e naturalmente compresente. È con questa convinzione ed esperienza formata lavorando alla Fondazione Querini per tanti anni, che quando sono arrivata alla GAM ho voluto, per esempio, il riallestimento delle collezioni dentro un percorso non cronologico: proprio perché seguendo l’insegnamento di Aby Warburg, sappiamo che non esiste una vera distinzione tra arte antica e arte contemporanea, quanto piuttosto un tempo circolare in cui l’arte è sempre tutta coniugata al presente attraverso le opere degli artisti. Il museo contemporaneo è condannato a mutare continuamente la sua fisionomia, a inseguire lo svolgersi degli eventi perché essenzialmente dentro un processo. Un luogo nel quale l’opera non è soltanto conservata, ma soprattutto prodotta e presentata al pubblico. Il museo contemporaneo è anche produttore di arte. Al tempo stesso il museo contemporaneo deve costruire uno “spazio storico”, tassonomie e ordinamenti, sia pur provvisori, che propongano un’interpretazione critica del presente. Se proviamo a considerare la cultura non solo come una manifestazione artistica, ma come parte attiva di un campo di saperi più̀ ampio, allora troveremo un legame forte e inscindibile tra la creatività e lo sviluppo di una società. Riuscire a modificare il concetto di cultura e di arte pensando che esso può dirci molte cose del nostro presente e tenere insieme il nostro ‘piccolo’ luogo, ovvero la dimensione locale, con l’universale, sarebbe davvero un passo importante per dare e darsi condizioni nuove e diverse di lavoro.
Spazio Politico
CB: Si, credo che un museo, pur rispettando la sua natura istituzionale, possa diventare anche un rifugio di resistenza politica e culturale. Forse per essere politico basterebbe proporre nel museo una programmazione autonoma e impegnata, così potrebbe trasformarsi in un luogo che non tradisce mai la sua essenza critica, ma anzi la rafforza. In un mondo lacerato da divisioni e contrasti, quel luogo può dar vita a qualcosa di fertile dove le visioni più audaci prendono vita. Immagino questa trasformazione come un processo privo di retorica, guidato da opere di artisti capaci di offrire riflessioni potenti ma discrete, politiche ma mai ostentate. Tutto si gioca sui programmi, sulle scelte degli artisti: è qui che si rivela la visione politica di un direttore o curatore di museo, nella capacità di orientare il dialogo tra arte e società. Forse ciò che sento mancare e di cui avverto il bisogno nell’arte, sono gesti che portino a un autentico approfondimento intellettuale e poetico – quindi politico – atteggiamenti improntati alla cura e alla dedizione, la capacità di cogliere le sfumature più tenui e svelare i dettagli nascosti con uno sguardo intriso di meraviglia e sensibilità. Credo che per riuscirci servano sia molto coraggio, quanto la riscoperta di un senso di umiltà, distante da approcci opportunisti e disillusi. Per esempio, credo che, nella velocità del consumo di oggi, sarebbe interessante e importante che il museo offrisse anche la possibilità di fare spazio al silenzio e al raccoglimento camminando tra le sale, dove l’opera o la mostra si completa e vive della nostra emozione e sorpresa. In questo modo ci si darebbe la chance di comprendere veramente la nostra storia. Il museo potrebbe proprio rappresentare quel fortunato ostacolo che incontriamo sulla nostra traiettoria veloce, un ostacolo che diventa un’occasione per darsi tempo lento e più silenzio. Come fare altrimenti a recuperare l’intensità? Intendo che questo sia il recuperare uno spazio di resistenza per il museo. Quando ho presentato il progetto per il concorso della GAM avevo nominato il museo anche come possibile “uscita di sicurezza”. Generalmente “uscita di sicurezza” è un’espressione familiare a chi progetta edifici o grandi infrastrutture per garantire, nel caso di emergenze, una possibile via di fuga. Anche nelle istituzioni museali è d’obbligo predisporre uscite di sicurezza, e questo non soltanto per quanto riguarda la sfera pratica e di pubblica utilità. C’è infatti un senso più profondo in cui è necessaria una via di fuga e riguarda i mali dell’anima, le inquietudini del quotidiano, le ansie dettate dai tempi terribili che stiamo attraversando. In riferimento a questo ambito, il luogo del museo può risultare esso stesso una via per evadere da un orizzonte corto e claustrofobico attraverso un percorso di re-incantamento: un itinerario nell’arte volto ad aprire finestre, varchi, scenari, prospettive capaci di dare respiro a quanti si sentono braccati, soffocati, senza uscita. Talvolta penso che rischiamo di fare un torto all’arte quando cerchiamo di attribuirle una responsabilità che non è in grado di sostenere. Riflettendo sul contributo che l’arte può offrire al mondo di oggi o al futuro, dovremmo sempre confrontare queste aspettative con l’esperienza storica del suo impatto. Se penso all’opera dei più grandi artisti del passato, mi sembra evidente che l’arte agisca su un piano diverso rispetto a quello di chi governa un territorio. Oggi molti artisti si sentono «liberati» dai confini tradizionali della tela e spesso esplorano dinamiche legate al territorio e alle relazioni sociali. Tuttavia, questo non implica automaticamente alcun successo o miglioramento del territorio o delle modalità di viverlo. Penso sia davvero difficile trovare un’opera che sia politica, e non che abbia soltanto usato la politica. Il museo, se vogliamo, è già un dispositivo politico di resistenza, in quanto si occupa di arte e cultura, ambiti che sono intrinsecamente legati alla costruzione, al mantenimento e alla contestazione di narrative, valori e poteri sociali. In un mondo come quello odierno, segnato da disuguaglianze crescenti, polarizzazioni politiche e una crisi globale di identità e valori, il museo non può più limitarsi a essere un luogo neutrale di conservazione, ma deve farsi portatore di un messaggio attivo, critico e trasformativo. Ma anche più semplicemente può diventare un intralcio alla banalità e all’appiattimento della realtà globalizzata di oggi. Al ritmo spropositato in cui viviamo oggi, diventa ancora più urgente «reincantare» il mondo in tutte le sfere, sia estetiche, sociali, ecologiche o filosofiche. E questa credo sia il tipo di resistenza che il museo possa offrire, oltre che la sua risposta politica: un pensiero diverso e critico, insegnare ad immaginare, a re-incantarsi, a perdersi per ritrovare un rapporto nuovo con la natura, con le sue infinite forme e sviluppi, ritrovare la capacità di trascendere la realtà per mezzo di semplici gesti e segni.