Le immagini portano sempre con sé un’ambiguità intrigante, qualcosa che sembra familiare ma al tempo stesso sfuggente: prima ancora di essere lavorata, l’immagine esiste come dato, come traccia documentale di una realtà già trasformata in archivio. L’archivio però, non è mai neutrale. Accumulare immagini significa già predisporle a un uso, a una manipolazione che ne ridefinisce i confini. L’atto di registrare e archiviare non è mai innocente, ma implica sempre una trasformazione del reale in documento, e dunque in potere.1
Attraverso il ritaglio e la sovrapposizione, le immagini vengono deformate, riconfigurate, private della loro unità. Non si tratta di una semplice giustapposizione, ma di un atto di sabotaggio dell’ordine visivo. Il collage non distrugge l’immagine, la mette in crisi. In questo senso, si avvicina a una strategia di infiltrazione: non possiede nulla di proprio, si insinua nei territori del readymade e sfrutta il potere preconfezionato dell’immagine stessa.
Frammentazione e costante trasformazione dell’immagine avvengono attraverso un processo di collage e pittura in cui la materia visiva non si stabilizza mai, ma resta in perenne mutamento. Le immagini sono sottoposte a un continuo avanti e indietro: applicare la pittura e rimuoverla fino a quando la memoria del processo è quasi dimenticata, proprio come avviene con la manipolazione delle immagini digitali. Il bianco, la disgregazione degli elementi e l’incertezza della trasformazione diventano elementi chiave di questa ricerca. L’idea di un’immagine aperta, in sospensione, si lega alla natura del desiderio stesso: ciò che attrae non è mai l’oggetto in sé, ma la distanza che lo separa dal suo pieno compimento, la sua inaccessibilità, la tensione verso ciò che resta irraggiungibile.2
C’è un legame inevitabile tra questa pratica e il nostro presente. La raccolta di immagini e il loro montaggio non appartengono più solo all’arte, ma sono diventati una condizione quotidiana, una logica inscritta nel funzionamento del capitalismo digitale. Qui, la pittura si fa campo di tensione: non si oppone alla logica della registrazione e del collage, ma la devia, la rallenta, la inceppa. Il bianco, il ritmo, la frattura diventano strategie per liberare l’immagine dalla sua condizione di puro dato e riaprire lo spazio del desiderio. La società contemporanea vive in un regime di iper-realtà, in cui la proliferazione delle immagini ha sostituito la realtà stessa.3 La risposta a questa condizione, non si oppone alla saturazione visiva, ma opera un sabotaggio soffuso, dall’interno, creando zone di silenzio e sospensione.
In un mondo in cui la produzione di immagini ha superato ogni vincolo di necessità, i lavori pittorici si concentrano su ciò che sfugge alla saturazione della comunicazione: forme spezzate, segmenti di corpi, innesti e lacerazioni che non si ricompongono mai del tutto. Un linguaggio che oscilla tra il riconoscibile e la dissoluzione, tra la figurazione e il collasso dell’immagine in pura materia.
Mentre il capitale non smette mai di decapitare, la pittura e il collage possono imparare a fermarsi nel bel mezzo del ciclo produttivo, creando spazi di non-lavoro dentro le stesse macchine che tentano di inglobarli. La pittura contemporanea spesso opera come un’interruzione del flusso, una pausa nella catena della produzione di senso. Così, nelle pieghe della ripetizione, potrebbe aprirsi la possibilità di un desiderio che sfugge alla logica della merce, di un’immagine che, finalmente, non abbia più un lavoro da svolgere.4 In questo caso, la pratica pittorica si configura come un territorio liminale, in cui l’immagine è costantemente sospesa tra il suo essere e il suo disfarsi, tra l’apparizione e la sparizione.
Testo di Pier Francesco Petracchi