Jean-Jacques Lebel. Una intervista di

di 4 Aprile 2025

Costellazioni inizia dal 1978. Era lo stesso periodo, tra aprile e maggio, quando Jean-Jacques Lebel e Bernard Blistène si incontrarono a Parigi per questa intervista. Oggi, quarantasette anni dopo, è cambiato solo il contesto. Alcune definizioni non le daremmo più, certe parole non le useremmo. Non si chiamerebbe più intervista, ma conversazione. Eppure, il viaggio, l’immaginario e i punti di vista che emergono da questo testo restano intatti in una traiettoria che, con precisione, attraversa il tempo.

Pubblicato originariamente in Flash Art no 84–85 October-November 1978.

Bernard Blistène: Quando nasce l’idea di “happening”?
Jean-Jacques Lebel: Per quel che riguarda la “cosa”, si va molto indietro. L’eruzione del Vesuvio a Pompei (che ha devastato e distrutto tutto facendo dell’arte: i corpi degli abitanti sorpresi, surgelati e museificati così com’erano); la scoperta per sbaglio dell’America da parte di Cristoforo Colombo (che cercava l’India); ecc… Il “caso”, I’ “errore”, I’ “accidentale”, il “lapsus” sono ciò che in definitiva ha contato di più nel reale come nell’immaginario e nel simbolico. E l’attività artistica non è mai stata altro che la messa in immagini del desiderio; l’happening è un mutamento dello sguardo, una nuova angolazione visiva, una percezione differente, ma il “contenuto” – il desiderio – non ha niente di nuovo. L’isterismo, per esempio, questo motore fondamentale della storia (collettiva e individuale) ha da sempre fabbricato i movimenti sociali, le relazioni culturali e/o sessuali, le attività dette politiche. Alla fine del XIX secolo, in Occidente, dei ricercatori si mettono a osservare l’isterismo con grande attenzione, a chiedersi perché e come funziona. Da Charcot, a Freud e a Breueur, c’è una svolta importante: lo sguardo sull’isterismo è stato trasformato. Si passò dalla neurologia alla psicanalisi, ci fu un mutamento di sguardo e di discorso. L’isterismo funziona da sempre nello stesso modo, ma la percezione, l’ascolto sono cambiati. D’altronde, questo mutamento, Freud non ha fatto che annunciarlo. Reich, in Psicologia di massa del fascismo, ha cominciato a portare questo nuovo sguardo sull’isterismo collettivo nel campo sociale e politico. Da allora (nonostante molte resistenze), ci sono ricercatori e ricercatrici che continuano a scavare in questa direzione, nel senso della fabbricazione delle energie. Parallelamente, il movimento Dada ha istituito un nuovo sguardo sull’arte, un mutamento percettivo e concettuale di enorme portata. La differenza fondamentale tra Duchamp, Picabia, Tzara ecc… e gli Impressionisti, è dello stesso ordine e della stessa importanza della differenza tra Marx e Ricardo, o Freud e Charcot. L’happening, secondo me, sta a cavallo dell’artistico e del politico, il psichico e il sociale. Si situa nella logica del Dadaismo, ciò è a dire che non è un’attività professionale chiusa su sé stessa, su una deontologia o su un’ideologia. L’happening è un modus operandi, una maniera di vedere e di fare, una creatività schizoide, sociale e artistica al tempo stesso. L’happening sta all’arte come lo sciopero selvaggio sta al sindacalismo: uno straripamento, un’insurrezione contro la dittatura delle macchine burocratiche (sindacati e padronati), contro “le leggi del commercio e dell’industria”, una rottura sul piano della pratica e su quello del discorso. Il funzionamento sociale cambia a partire dal momento in cui cambiano lo sguardo e il linguaggio. Oserei dire che noi abbiamo applicato ed esteso le “scoperte” del Dadaismo alla politica (esattamente come Reich aveva “applicato e esteso” le scoperte del movimento psicanalitico alla politica), in modo particolare al fascismo e al comunismo…

BB: Vuoi dire che l’happening non si giustifica che in un contesto politico, attivo e “militantista”?
JJL: A mio vedere, l’happening non interessa se non in quanto attività sociale che si svolge fuori dal “recinto sacro”, fuori dal supermercato culturale, fuori dal cortile di ricreazione artistica, in un altrove immediato. A partire dagli anni ’60, ci fu (a Berlino, a Parigi, a Vienna, a New York, a Tokyo, a Praga ecc.) una tendenza a fare degli happening come quelli degli indiani metropolitani di Roma, direttamente nel campo sociale, a livello del reale, là dove si lotta, si caga, si sanguina, si scopa, si nasce, si crepa, si esplode, si gode, si vive e si devia. L’happening è l’irruzione e l’eruzione del simbolico nel reale. Spesso per effrazione, per accidente, per slittamento, per confusione mentale, e anche per disperazione.

BB: Per te, allora, quando comincia veramente?
JJL: Soggettivamente, per me cominciò veramente durante la guerra d’Algeria. Ho visto un tizio ammazzato dai poliziotti, sotto casa mia, vicino alla Place Maubert. Un tizio con cui avevo mangiato e fumato in uno dei piccoli caffè algerini della “medina” parigina che noi – quei pochi “disertori” culturali e politici –frequentavamo inorriditi e disgustati dalla “molto francese” civiltà. Era l’epoca della grande manifestazione dei 30.000 algerini per le strade di Parigi. La repressione poliziesca era stata totalmente isterica e barbara. Ci fu sangue, botte, uccisioni. I poliziotti avevano rastrellato e rinchiuso centinaia di manifestanti nel Velodromo d’Inverno (proprio là dove gli stessi poliziotti francesi, durante la seconda guerra mondiale, sotto l’occupazione nazista, avevano rinchiuso gli ebrei prima di consegnarli alle SS che li spedirono ai campi di sterminio). L’indomani furono trovati nella Senna decine di cadaveri di algerini. Questo non bisogna mai dimenticarlo, quando si parla degli anni ’50 e ’60. Questo stesso aspetto della tradizione culturale e delle lotte sociali esiste tuttora. Era questa I’ “atmosfera parigina” in cui noi soffocavamo letteralmente: non bisogna, venti anni dopo, né passarlo sotto silenzio, né censurarlo. La scena politica e culturale era occupata da spettri. Era un inferno. In quell’epoca ero già schizoide, metà militante politico, metà pittore e una terza metà drogato, galleggiante attraverso altri spazi della vita, altri codici culturali (la “beat generation” col mio amico Burroughs e anche il jazz, l’erba..). Ho fatto un collage che parlava del mio orrore, della mia rivolta fisica per la guerra coloniale, lo stalinismo, il gaullismo, il fascismo, intitolato Parfum grève générale, bonne odeur (1960). Lo sciopero generale mi sembrò l’unica soluzione che potesse effettivamente ribaltare quella situazione sociale e culturale di soffocamento, di massacro e di noia mortale in cui ci trovavamo nell’autunno del 1961. Lo sciopero generale ebbe si luogo, ma sette anni dopo. A prima vista non c’è niente di più ridicolo della “magia dell’arte”. Un’energia “folle”, esplosiva e pericolosa che attraversa un “ricercatore” o una “ricercatrice” in un preciso momento della sua vita e che riesce a tradursi in traccia palpabile, in immagine visibile, in linguaggio udibile, che potrà circolare e scambiarsi socialmente. E tuttavia, credo che in un certo modo sia importante ed efficace. È desueto parlare nel 1978 di “processo creativo” che talvolta attraversa individui o movimenti sociali? Forse. Ma certo m’interessa, questo percorso dal non-detto al semi-dire, e, in certi momenti miracolosi, dal semi-dire al semi-fare. Anche l’amore (o ciò che passa per amore) si fa, pare, in questo modo, molto parziale, molto contradditorio, molto assurdo, molto bestiale, molto immaginario. Come al music hall: i personaggi si mettono a muoversi, a entrare e a uscire di scena, a vivere o far finta di vivere. Un quadro vivente cinetico, apparentemente insensato. La follia in atto. Abolire la frontiera, la distinzione tra l’arte e la vita. Vecchia e deliziosa ossessione: Dada, Artaud, Cage, l’happening: ecco il lignaggio. La pittura è l’immagine di ciò che è accaduto – nell’immaginario, o nel reale ma sempre nel passato – mentre l’happening è ciò che sta accadendo qui e ora, in quest’istante. Mi piace molto questa nozione di istantaneità. Ci si ricorda delle persone che abbiamo amato se non per dei particolari: un odore, una parola, una sensazione ecc. L’happening è un collage di cose istantanee, di minuscoli particolari di questo tipo. Non appena vissuti spariscono. Come un profumo che passa in una corrente d’aria o un odore di pane quando si passa vicino a un fornaio, un odore di scopata, di sudori, di mestruazioni, d’ozono, di pittura a olio, d’inchiostro, di osteria, di tigli. L’happening è una passeggiata attraverso tutte queste cose, questi ricordi di odori e sensazioni fugaci. Va bene quando ciò accade in una foresta, in un campo, ma può anche accadere in un terreno incolto, in un metrò, su una spiaggia, su una scala, in una manifestazione di piazza, non ha importanza. L’arte si fa dappertutto e non solo nei musei; l’amore si fa dappertutto e non solo a letto. Quelli che hanno la fede dicono: “Dio è dappertutto” (voglio dire che ne hanno l’illusione, e è su questa che si fonda la credenza). La mia credenza, la mia paranoia, la mia religione personale è: l’arte è dappertutto o da nessuna parte. È una questione di sguardo, di veggenza. I graffiti selvaggi sui muri di Parigi, Berlino, Roma o New York m’importano di più, molto di più di ciò che passa (ripassa o si compassa) nei luoghi consacrati del mercato dell’arte. Non si può vedere niente, né arte, né happening, né movimenti sociali, né grandi esplosioni di rivolta e di desiderio – come quelli del maggio ’68 – se ci si rifiuta di vedere che ciò accade a tutti i livelli contemporaneamente. Si tratta appunto, per cominciare, di aprire gli occhi, di accettare di passare dallo stato di torpore allo stato di veglia. Come diceva Duchamp: “sono i guardatori che fanno la pittura”… e anche la società. O messo i puntini sulle i in un testo intitolato Lettera aperta a un Guardatore (in Les Lettres Nouvelles del luglio 1966): “di là dal soggetto, si tratta dell’oggetto: il terzo stato, la sopracoscienza”. Il mio grande amico, complice e collega Gilles Deleuze – mi ricorderò sempre il suo sguardo di bambino stupito davanti a Patty Smith quando andammo a sentirla a Berkeley, qualche anno fa — ha scritto sulla passeggiata dello schizofrenico (Lenz, Georg Büchner, 1839) un testo fondamentale: è la sua prefazione al libro di Wolfson Lo schizofrenico e i linguaggi, in cui rileva il funzionamento dei fenomeni, dei ritmi, dei flussi di energie che si mescolano e si urtano. È una sorta di movimento rimestante del desiderio. Una valanga di linguaggio, dove il corpo estasiato esplode e si riintegra nel cosmo. Gli individui, i gruppi, le classi sopravvivono in un identico stato di non-desiderio, di non-vita, di noia mortale e poi, di colpo, tutto crolla, slitta via, cacafuori, scoppia, gode. Dopodiché si riaddormenta. L’arte non è altro che una traccia di un istante di veglia, il segno di un momento perduto di godimento o di sopracoscienza. Il problema è che gli amatori d’arte “guardano” ciò che salta agli occhi senza “veder” niente. Come “nei grandi magazzini, essi comprano a occhi chiusi”, tutto tappato, non soltanto gli occhi, ma esistono delle immagini d’una forza così accecante che finiscono per risvegliare l’attenzione. Ogni risveglio comincia con uno sguardo nuovo che il soggetto porta sul mondo e su sé stesso. Come nell’happening e nell’arte in generale in quei casi rari in cui non c’è scimmiottatura; la maggior parte del tempo, gli artisti, come tutti, fanno finta. Essi riproducono, come dei cani sapienti, i balli e i guaiti che il loro domatore gli ha insegnato a colpi di randello o di zuccherini pecuniari. È questa, l’industria culturale. Di tanto in tanto lo sguardo risvegliato incrocia qualcosa di diverso dalla ri-produzione: la pro-creazione ha quasi sempre luogo “altrove”, fuori dall’industria culturale o persino contro di essa. L’opera si caca spesso fuori dalle latrine, fuori dai codici e dalle norme. Per esempio, nell’esposizione “I singolari dell’arte”, ho visto i disegni di un impiegato delle Poste – Raphaél Lonné – che mi sembrano importanti quanto i disegni mescaliniani di Michaux o gli autoritratti di Artaud. Ho passato tre o quattro ore in mezzo a questi disegni. Era come un viaggio all’LSD. Il “viaggio” schizofrenico fuori dal reale comincia con lo sguardo. Un giorno, tornando da Marrakech con una mia cara amica, ci siamo fermati a Marsiglia al Museo Cantini per vedere una mostra di Balthus, e la mia amica fu così stravolta dal quadro della bambina davanti al camino acceso che, nel museo deserto, si masturbò, in piedi, resa “folle di desiderio” da questa immagine erotica sorpresa nello specchio, divorata dagli occhi, nell’identificazione amorosa. Si dice che “l’amore rende ciechi”. Si parla di “cieche passioni”, di “obbedienza cieca”. Molto spesso è vero. E anche l’arte rende ciechi? Oppure, al contrario, permette di vedere, nel senso inteso dal mago Don Juan nel libro di Castaheda? Dipende dallo stato di chiusura o di apertura della guardatrice e del guardatore. Qualunque cosa si faccia, non si è mai veramente presenti se abbiamo gli occhi chiusi. Quelli che fanno l’amore con gli occhi chiusi, per esempio, non fanno l’amore con l’uomo o la donna che credono sia la o il partner, ma con degli assenti o dei fantasmi. Santa Teresa di Lisieux (bisogna ben riabilitare questa tonta geniale), questa grande ideologa del masochismo sessuale, intellettuale e sociale, dice, sul letto di morte e di godimento: “Oh, quale gioia a vedermi distruggere”. È bello vedere che essa gode. E è questa autodistruzione, mezzo reale, mezzo simbolica della società e della cultura che l’happening fa vedere e dunque godere proprio mentre si svolge, e non dopo. Attenzione, niente malintesi: non sto facendo delle analogie obbligatorie tra happening e santità (anche se l’intensità dell’esperienza creatrice sia quella dell’esperienza mistica, sempre più o meno masochista, e se il paragone sia possibile), dico semplicemente che l’happening è un processo di visualizzazione che prende sia dalla distruzione sia dalla creazione, dalla de-nascita e dalla ri-nascita. Il soggetto è diviso nel senso che è, in fin dei conti, presente in ciò che sta per accadergli – in what’s happening – e, dal margine o dal di fuori, mentre guarda ciò che sta avvenendo. Senza decollo non c’è sguardo possibile; quando si è completamente assorti, non si vede niente (è la passione «cieca» l’incorporazione, la divorazione, l’identificazione isterica, il sonnambulismo ecc.).

BB: Avete cercato, fin dall’inizio, il contributo di persone fuori dal “mondo dell’arte”?
JJL: Il primo happening ebbe luogo, mi pare, a Ibiza verso il 1958 o il ’59, in un terreno incolto, in un vecchio autobus bruciato dopo un incidente. Avevamo preso della belladonna, dell’LSD, della mescalina e vivevamo esperienze devastatrici e meravigliose; quell’autobus distrutto era stato il nostro luogo d’appuntamento…

BB: …Duchamp e la nozione di “appuntamento”…
JJL: …Facevamo viaggi in questo autobus che non aveva più motore, né ruote, né niente… Dovevamo girare un film sulla polvere, il vento, la spiaggia e le alghe – come un disegno di Michaux sull’invisibile. Molti miei amici non erano artisti, ma degli emarginati, dei beatnik, degli sbandati. Adesso, ce n’è a milioni, stereotipati e sterili. Ma in quell’epoca eravamo dei “pionieri”, dei “barboni celesti”, degli “eroi”. Che beffa, questo suicidio sociale! Tre barboni spagnoli stavano dormendo e noi ci sistemammo vicino a loro. Un rito ebbe inizio… Scambiammo oggetti, cantammo, c’era il non-verbale, il linguaggio dei segni, la fabbricazione di senso e di non-senso… Un barbone si svegliò e si mise a urlare perché credeva che volessimo assassinarlo. Poi bevemmo del cognac insieme e si riaddormentò. Dimenticammo di filmare. Oppure non c’era film nella cinepresa. È stato il primo happening in Europa.

BB: Dell’happening si tende a ritenere la storia raccontata, la non-storia parlata…
JJL: …come nel maggio ’78, hanno scritto la non-storia del maggio ’68, dieci anni dopo, dal punto di vista dello Stato… cioè la storia di Francia raccontata da Mallet e Isaac. Delitto e castigo. Verità e menzogna. A Roma c’è la Bocca della Verità: un foro nero da cui non esce niente, ma in cui scivola quel che si crede si debba credere. Questa bocca ha un significato terribile di morte-sicura.

BB: …l’happening è l’accesso al non-detto…
JJL: …è l’accesso – immaginario, certo – al desiderio che sfugge alla formalizzazione anche in arte.

BB: …imprimere nell’immagine ciò che l’immagine non dice.
JJL: Il “ruolo degli happening è di mostrare quel che sta tra le righe.

BB: S’intesse con l’immagine di comunicazione solo se tu imprimi qualcosa di diverso da ciò che essa fa vedere, il buco nel significante, il silenzio in musica…
JJL: …e il punto cieco di ogni teoria, l’angolo morto di ogni visione d’insieme. Non è un caso che John Cage abbia intitolato il suo libro “Silenzio”. Ciò che conta non è l’opera razionalizzata, ma gli incidenti, i lapsus. gli errori… L’arte che m’interessa è l’emergere dell’inconscio, è ciò che sfugge al controllo e alla vista della censura, ciò che trabocca o scivola via. Si fece un gran passo in avanti quando, fuori dai codici accademici, Ernst, Masson, gli Espressionisti astratti americani lasciarono sgocciolare il colore sulla tela, senza ostacolarlo. Macchia d’olio sulla carreggiata. Se qualcuno cade per terra, o si spacca la faccia nella tela e la squarcia, ecco, il quadro è proprio questo.

BB: Lo “stoppage-étalon” di Duchamp, i tagli di Fontana…
JJL: O Leonardo che con uno straccio fa delle macchie sulla tela e poi le interpreta… Questo è l’happening… In ogni azione della vita quotidiana. I momenti più intensi sono quelli che sembrano i più irrisori. In definitiva, l’irrisorio è portatore di desiderio tanto quanto ciò su cui la civiltà occidentale ha posto l’accento. L’essenziale sta sempre tra le righe, oppure è decisamente assente, immaginato.

BB: Il problema dell’utopia, fantasticata ma non realizzata nelle macchine volanti di Leonardo…
JJL: …Giochiamo il gioco: forse la funzione dell’arte è di lanciare delle macchine desideranti, di lanciare delle idee, di sperare nelle connessioni, di fabbricare delle misture, di generare dei desideri… e certamente non di controllare, di contabilizzare, di legiferare, di dirigere. Lasciamo la scalata paranoica e omicida del terrorismo e del contro-terrorismo agli amanti dello Stato. “La vera vita è altrove”… Più che mai. Non confondiamo potere e potenza. Poco importa che l’happening, al livello più superficiale e mercantile sia stato provvisoriamente ricuperato dai vampiri e commercializzato come spettacolo-mercanzia nei saloni della haute-couture dei grandi o piccoli magazzini, e persino, perché no, nelle chiese e nei casini. Ciò che conta, secondo me, è che i rivoluzionari non cessino anche loro di ricuperarlo e di utilizzarlo per i loro fini e nell’ottica che gli è propria – e che è la nostra: quella della sovversione sociale – non solo il tono selvaggio e delirante, la tecnica espressiva pluridimensionale, ma anche l’intento filosofico, l’umorismo Zen. È proprio quel che facevano l’anno scorso gli Indiani metropolitani a Roma e a Bologna. La corrente più creativa, quella più sovversiva in profondità, dell’ultrasinistra in Italia ha perfettamente assimilato Dada, Artaud, Cage, e l’happening… Ne tiene conto concretamente, come sul piano politico tiene conto dell’insurrezione operaia di Kronstadt contro il potere centralizzato e monopolizzato dal partito bolscevico nel 1921, e tiene pure conto della rivoluzione dei consigli di fabbrica ungheresi nel 1956, come anche dei consigli che hanno effettivamente funzionato nel 1921 a Torino. È questa integrazione lucida e questa mistura funzionale dell’utopia comunista libertaria con le ricerche artistiche di “tradizione” dadaista, che fanno la forza e il genio del movimento rivoluzionario in Italia (e non certo la passione militarista già statizzata dei gruppi clandestini leninisti-stalinisti come le Br). I dadaisti berlinesi avevano già contribuito al movimento spartachista. Bisogna piantarla con i compartimenti stagni, la specializzazione e la divisione del lavoro.

BB: Perciò un movimento sociale riprende a sé ciò che era il fatto di una minoranza creativa, attiva. Mi chiedo se la velleità di ricupero mostrata dalle strutture sociali dominanti non sia basata sul timore determinato dal fatto che anch’esse vedono il superamento della nozione di arte a favore di una divulgazione nel quotidiano.
JJL: La differenza è che io, della nozione di arte, me ne sbatto le palle. Parliamo di nozione di società, di movimenti. Non me ne frega niente che i graffiti di cui si parlava poco fa siano “arte” o no. Ma, nel sistema di controllo e di sorveglianza statale e burocratico che costringe a interiorizzare l’autocensura e la castrazione al punto da ridurre sé stessi al silenzio, io constato che nel sistema ci sono delle falle e che il graffito è un fatto culturale importante. I muri delle città sono coperti di deliri disperati e anonimi, come se i sogni provenienti dall’inconscio collettivo lasciassero delle tracce. Forse non è una nuova forma d’arte, ma una nuova forma di rapporto lucido e di comunicazione sociale, fuori dai sistemi mercantili…

BB: …L’immagine, luogo di comunicazione. Reclusa nel sistema dominante, non è più che un rimasuglio mortuario di desiderio…
JJL: …invece di essere portatrice di desiderio vivente. I quadri sepolti nei musei sono desiderio sepolto vivo, mummificato, pietrificato, ma che respira ancora.

BB: Ciò che trovo bello è che esista allo stato di desiderio anonimo, di desiderio puro e semplice e non veicolato da qualcuno, che il desiderio si nasconda, resti anonimo… È come una poesia di Mallarmé, in cui il caso si afferma o si nega indipendentemente da chi lo vive, e che permette all’infinito di essere.
JJL: Non bisogna fare del sinistrismo anticulturale semplicistico, ma attenti agli impostori dell’arte. Esiste del falso “art brut”, dei falsi bidoni, dei giardini d’architetti naif ricostruiti; domani rifaranno mura di città, falsi graffiti di metrò per metterli in prigione nei musei, e diranno: “ecco qua una nuova arte primitiva, l’abbiamo portata qui dalla giungla delle strade e ne abbiamo fatto una nevrosi, del caviale culturale per i mercanti e gli speculatori”.

BB: Ne parlavamo prima quando dicevamo che per paura, cercavano, senza por tempo in mezzo, di iscrivere le cose in una tradizione culturale dominante, la buona coscienza della cultura.
JJL: Ma i graffiti sono una mescolanza di molti codici tradizionali. Per esempio, quello sul coito interrotto e sulla pistola: c’è un riferimento a Goebbels (“quando sento la parola cultura, tiro fuori la pistola”), alla fenomenologia di Hegel e a Freud (teoria dell’istinto di morte e desiderio del pene propriamente femminile), ma nello stesso tempo si pensa al ruolo cruciale svolto attualmente in Italia da quello strumento passionale che è la P 38 o anche ai Sex Pistols, quell’orchestra Punk che sta avendo molto successo (e a altri gruppi Punk che associano l’isterismo collettivo al cock-rock, il coito all’omicidio, come per esempio i Warm Grins). La poesia si scrive sulla città come su un quaderno. A Roma, in Piazza Navona, ho letto su una porta: “Liberate D.A.F. de Sade e gli altri compagni imprigionati”!

BB: Una scritta «colta».
JJL: …e nello stesso tempo dell’«art brut», o piuttosto dell’arte selvaggia.

BB: La preferisco all’«art brut».
JJL: Puoi farne una lettura universitaria, psicanalitica o politica, ma anche considerarla un’esplosione delirante di desiderio nelle forme di scrittura, colore, testura del muro e «d’impaginazione» delle parole che si rispondono e s’incrociano. Qualcosa di sensuale…

BB: Che forse è più importante come segno che come traccia…
JJL: …incomunicabile perché legata attualmente a quel panico che si sente un po’ dovunque, e i titoli a tre colonne di France-Soir ne sono un sintomo. C’è un’epidemia di paranoia e di aggressioni; quei graffiti segnano la temperatura di questa atmosfera sociale, che è firmata «donne autonome».

BB: …e controfirmata da Hegel…
JJL: …certo, una traccia di tutto quel che chiamavi eiaculazione, lo sfiorare con la scrittura… una carezza… un grido di disperazione legato a quella paura terribile che ci vogliono iniettare nella testa dicendoci: «è arrivato King Kong, la violenza è in aumento, si violentano le nostre mogli, gli arabi, i neri e gli emigrati, il franco sta crollando, gli stalinisti cercano d’impossessarsi del potere dello Stato, mentre in realtà in parte lo esercitano già, ecc. Questa paranoia generalizzata nasce dall’aspirazione alla morte che sta nel cuore della civiltà giudeo-cristiana e che induce un’ossessività permanente: l’autopunizione, il suicidio, il che a sua volta produce i «Junkies» e il rivitalizzarsi delle sette religiose e delle vocazioni cristiche. Ovunque, esistono dei novelli Gesù che si fanno trapassare dai chiodi. Un masochismo sociale che supera tutto ciò che si è potuto conoscere intorno al ’25 in materia di confusione tra dolore e piacere: la lotta interiore del desiderio inconscio e dissociato, l’osmosi conflittuale, del coito e della pistola, della sessualità e della morte, e il marchio «donne autonome» che richiama il responso dei passanti, firmato Hegel.

BB: Ricordi Eliogabalo respinto dal ventre della città-madre?
JJL: Artaud lo descrive morente nella merda e nel sangue con sua madre, ucciso dalle sue guardie del corpo… L’atto d’amore secondo Lacan: l’amore, le mura, la morte (amor in latino). È essenziale che il linguaggio della follia si spieghi sui muri in modo eiaculatorio o giaculatorio, e che non venga accaparrato dai sociologhi, psicanalisti, romanzieri, grammatici, preti, e altri cacatori di tesi universitarie; è qui che può situarsi l’abolizione della frontiera tra l’arte e la vita.

BB: Nello spazio illusorio della pittura, la base che regge lo spazio del Quattrocento, lo spazio pittorico è divenuto, con gente come Mondrian o Newman, un muro. E questo muro-quadro, luogo dell’iscrizione, è perciò una riduzione metonimica di tutto il muro e del muro come memoria dell’inconscio collettivo…
JJL: …Sì, è il muro di Berlino che separa la coscienza dall’inconscio; il soggetto viene diviso, e poi fucilato (con parole) contro quel muro.

BB: Dopodiché il muro portatore d’iscrizioni, il muro-superficie libera da coprire è il luogo di teatro e dell’esperienza.
JJL: Più importante è il modo d’iscrizione. A Stoccolma, la municipalità social democratica sempre psicologizzante, non voleva spendere più un soldo per ripitturare i muri della città, così ha costruito in una grande piazza un enorme spazio murale su cui poter fare dei graffiti legalmente. Veniva ripulito e ripitturato regolarmente. Era come un serie di piccoli Beaubourg. La strategia di stato consiste nel ricentralizzare ogni desiderio, ogni creatività sociale e a farne un’attrazione turistica controllata e commercialmente redditizia. Di Beaubourg me ne sbatto. Ciò che m’interessa è l’uso che ne fanno le istanze di stato e la strategia sociale che motivano questo pseudo liberalismo teatrale. Cosa c’è dietro il salone dell’automobile di Parigi, il mausoleo di Lenin a Mosca, il muro di Berlino?

BB: Quando uno stato è malato, tenta di affermarsi in extremis e in modo disperato con immagini perentorie dell’illusione del potere. Mausolo e Pompidou, col suo ritratto all’ingresso…
JJL: Nei registri della Biblioteca Nazionale, cercando le origini della zona Beaubourg, ho scoperto che quel che il capo dello Stato chiamava «il cuore di Parigi» in opposizione alle Halles «ventre di Parigi», era stato costruito sul territorio privilegiato delle puttane. Dobbiamo sottolineare che è proprio lì, e non altrove, che lo stato ha piazzato il suo marchio fallico, la sua trappola aperta, il suo buco nero: il «buco» delle Halles, monumento alla castrazione; è lì che sta, e non a Beaubourg, il museo del reale. Inoltre, la rue Quincampoix è specializzata in prostitute sadiche, vestite di cuoio nero e con frustini. Centro della prostituzione medievale, il quartiere Beaubourg è ora un «centro nazionale d’arte»: è una logica rigorosa.

BB: …un’altra storia di «ambiente».
JJL: Esattamente, tra I’«ambiente» dei gangster, magnaccia e puttane e l’ambiente dei mercanti e artisti, c’è un’analogia. Il problema è che Beaubourg, a detta della stampa, è piena di ratti che, di notte, escono dal buco delle Halles per andare ad abboffarsi della cultura che di giorno si mostra ai turisti. Sono i ratti il vero pubblico di Beaubourg…

BB: …Quelli che consumano la cultura… Ma l’arte è sempre stata una pia mensa dove si consuma seduta stante qualunque cosa venga offerta.
JJL: Giustissimo. Coloro a cui viene offerta la merda mangeranno la merda. Coloro a cui viene offerta l’estasi mangeranno l’estasi. Comunque sia, buon appetito!
piuttosto, buon viaggio…

Parigi, aprile-maggio 1978
Traduzione di Cloni Carpi

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