“Cinque alla Prima” Area Treviglio / Treviglio di

di 15 Luglio 2025

La terza edizione del progetto “Cinque alla prima”, negli spazi di Area Treviglio, è dedicata alla scultura. In mostra sono presenti i lavori di Federica Balconi, Sofia Bordin, Satya Forte, Giuseppe Lo Cascio, Gianlorenzo Nardi. Flash Art Italia propone il testo critico di Enrico Camprini che accompagna il percorso espositivo.

Questa edizione di “Cinque alla Prima” vuole tentare di proporre una piccola ricognizione – ovviamente ben lontana dall’essere esaustiva – sulla giovane scultura italiana, in continuità con quanto fatto nell’ultimo biennio per la fotografa e la pittura. Introducendo il testo della prima edizione, Valentina Bartalesi si interrogava sulla difficoltà, attuale e anche storica, di rintracciare una vera e propria forma di specificità del medium pittorico, alla luce di una sua oramai consolidata ed estesa riconfigurazione fisica e concettuale: ciò che resta e da cui occorre partire è il quadro, inteso come una sorta di dispositivo, origine concreta ed elettiva di ogni possibile espansione di ciò che possa chiamarsi pittura.
Considerazioni simili possono valere anche per il linguaggio della scultura, affrontato sempre più spesso da giovani artiste e artisti in un senso tutt’altro che monolitico; emerge piuttosto una varietà di soluzioni e approcci, talvolta anche multidisciplinari, che paiono voler aprire i confini del mezzo a nuove integrazioni. Non è certo una novità, quanto un processo oramai compiuto, quello dell’erosione dei limiti del medium: ciò da cui occorre partire è sempre l’opera come dispositivo, e nel caso della scultura la sua natura peculiare di oggetto nello spazio in grado di tracciare relazioni con lo spazio, e allo stesso tempo di porsi come sostanziale singolarità.
I lavori qui presentati, al netto di evidenti differenze, rispecchiano questo carattere generale. Ma ciò che in particolare li lega – lo dico a posteriori, dopo una selezione la cui prerogativa non era
certo necessariamente questa – è un’allusione a una possibile (dis)funzionalità dell’oggetto scultoreo nel presentarsi davanti a noi; una suggestione in alcuni casi effettiva, in altri evocata in senso narrativo, ma che sempre e inevitabilmente allude all’interazione con lo spettatore.
L’opera realizzata da Federica Balconi (Monza, 1999) taglia verticalmente lo spazio espositivo dal soffitto al suolo. In Tuttotondo (2025) l’artista pare insistere, come suo consueto, su un’idea di scultura che guarda alla progettazione e alla meccanica, talvolta all’architettura e al design, affrontate secondo soluzioni compositive fragili, goffe e ambigue. Il titolo del lavoro, che con tutta evidenza chiama in causa il medium stesso, gioca anche sulle caratteristiche di questo bizzarro oggetto scultoreo formato da una lunga asta d’acciaio, un corpo centrale in resina che ricorda le fattezze di un approssimativo cavallino da giostra, e due appendici che trasformano la fisionomia dell’opera in quella di un grande e inutilizzabile compasso. Immobile, l’opera allude a un doppio moto circolare dalla dubbia praticità e dall’impossibile realizzazione. Speculare per verticalità, Schedario #2 (2024) di Giuseppe Lo Cascio (Palermo, 1997) è parte di una serie recente con cui l’artista si confronta con i temi della memoria e dell’archivio e le loro contraddizioni. Il lavoro, nella sua monumentalità, pare enunciare la paradossalità dell’atto di archiviazione, nonché un deliberato annullamento di prospettive comunicative e significative. Decine
di cartelline gialle prive di qualsivoglia informazione e contenuto sono raccolte in una struttura in ferro che ne rende impossibile la (già di per sé inutile) consultazione: un oggetto composito e idealmente fruibile si offre allo spettatore come corpo vuoto, pura forma. Ciò vale non solo per lo statuto concettuale dell’opera, ma anche sul piano strettamente scultoreo e installativo; lo schedario impossibile di Lo Cascio finisce per apparirci come un volume di forme in apparente movimento, un monumento involontariamente optical sulla cui superficie il nostro sguardo corre senza posa.
Poco distante, in corrispondenza della luce naturale di una fnestra, entriamo in contatto visivo con un oggetto dalla rinnovata funzionalità. Satya Forte (Atri, 2000) realizza una scultura che appare a tutti gli effetti come una zanzariera dislocata dalla sua sede canonica (Paesaggio diviso, 2025); osservando, notiamo però che la rete non è quella originale, bensì il risultato di un lento e meticoloso lavoro manuale di ricomposizione. Nel nuovo ordito realizzato da Forte, oltre ai comuni filamenti, compaiono piombini da pesca e capelli dell’artista – metodicità artigianale e una certa tensione emotiva convivono in un oggetto scultoreo la cui ragione nello spazio è intuibile dal titolo. Si tratta di una sorta di dispositivo ottico, un filtro infrasottile con cui mettere alla prova il nostro sguardo in trasparenza, isolando e definendo un possibile paesaggio.
Sofa Bordin (Roma, 1998) presenta invece un gruppo scultoreo che ha un referente diretto in oggetti folkloristici anticamente assai diffusi in tutta la zona del Mediterraneo e non solo (Carried with
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, 2023). L’artista dispone nello spazio, in moduli di volta in volta variabili, elementi che esplicitamente si rifanno ad otri per trasportare e conservare il vino; dalle fattezze filologiche e dall’evidente inutilizzabilità, questi oggetti vivono e significano grazie alla loro presenza contraddittoria. Formalmente ben riconoscibili, la loro matericità si oppone sensibilmente agli originali così come, nel contesto espositivo, la loro disfunzionalità: pur legati tra loro, paiono acquisire l’autonomia di quasi-soggetti, focalizzando su di sé memorie e tradizioni sotto il segno di un’ipotetica rivivificazione immaginativa.
La dimensione oggettuale della scultura e l’allusione a una sua paradossale funzionalità si manifestano radicalmente nell’opera di Gianlorenzo Nardi (Giulianova, 1995), che del medium interroga una zona grigia – o per meglio dire, abbraccia la sua letterale e naturale estensione nello spazio in rapporto al tempo e al corpo. Due sculture in gesso che in tutta evidenza rappresentano frammenti della Colonna infinita di Brancusi sono distese a terra (al suono di un flauto, 2024): entrambe emettono le sonorità distintamente percepibili registrate da flauti autocostruiti dall’artista, mentre alle estremità delle cime da barca sembrano formare dei rudimentali spallacci. Infatti, benché comunque autonome, le opere vengono
attivate da una coppia di performer che le indossano, modulandone di conseguenza il suono, sostenendo il peso di questi bizzarri zaini nella piccola sede espositiva a essi dedicata. In un certo senso compiono una verifica dello spazio, restando lì senza interagire con il resto della mostra; tra momenti di moto e altri di riposo, i due performer – sarebbe forse più opportuno chiamarli “attivatori” o “manutentori” – amplificano una natura relazionale sottesa alla pratica scultorea, senza davvero utilizzare i goffi Brancusi da viaggio, ma piuttosto mettendosi al loro servizio.

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Enrico Camprini