Sambang, Sambung, Sumbang. Taring Padi “Organise, Educate and Agitate!” Cantadora / Roma di

di 24 Novembre 2025

Sambang, Sambung, Sumbang – in giavanese andare a trovare, entrare in contatto, partecipare. È con il canto d’un sogno di una terra libera che si inaugura la prima mostra della nuova galleria romana Cantadora, desiderata da Flavia (Prestininzi) e Enrico (Palmieri). La lingua è l’indonesiano, e i dalang – i cantastorie, sono  il narratore principale Ucup Baik, e i musicanti Fitri DK, Dodi Irwandi, Setu Legi, Sri Maryanto e Dhomas del collettivo giavanese Taring Padi. Nel cortile davanti alla galleria si sono raccolte molte persone, una folla disposta a semicerchio davanti al Wayang Beber – un antico dispositivo di teatro indonesiano eseguito srotolando una pergamena o un foglio illustrato, sul quale il dalang narra la storia rappresentata nelle immagini, accompagnato da canto e vari strumenti musicali più o meno tradizionali. Si sente molto raccoglimento, da fuori arrivano notizie di cortei spontanei e presidi perché alcune imbarcazioni della Global Sumud Flotilla sono state intercettate eppure, vedendo qualcosa che avrebbe dovuto provocare un piacere se non altro estetico, non percepisco quello scollamento o alienazione che ho provato in questi ultimi due anni soprattutto, mentre il genocidio veniva perpretrato senza sosta. Qui ho l’impressione che sia tutto coerente, sia l’insistenza (insistenza è una parola che ritorna molto ultimamente, forse la sto un po’ abusando), che il piacere estetico sono gloriosamente incanalati dentro il giusto intento – finalmente, mi dico, una pratica espressamente politica che non si scusa per la sua propaganda. Sento forse una sana gelosia, quella che dice, vorrei fare le stesse cose anch’io. La stessa narrazione, la stessa insistenza, la stessa rappresentazione, la stessa convivenza. L’esperienza, quella dei Taring Padi, è tuttavia irreplicabile, a meno che non si decidesse, insieme, di cominciare domani. Ed è per questo che provo a prendermi questo spazio per raccontarla, con un lavoro spesso di tripla traduzione, com’è stata l’esperienza dell’ascolto del Wayang Beber, dalla loro lingua madre, l’indonesiano, bahasa indo, passando per l’inglese coloniale dell’impero del capitale, alla mia scrittura, che per scelta vuole avvenire in italiano – anche questa un’insistenza, o questione di principio. Proverò quindi ad insistere attraverso la pratica dei Taring Padi, che personalmente trovo eccezionale, la loro storia, immaginazione, organizzazione, un’arte del popolo – seni kerakyatan, o meglio citando dal titolo dell’unica monografia che raccoglie il loro lavoro, quell’arte che frantuma la tirrania – Seni Membongkar Tirani. Oltre che a procedere molto lentamente, il tempo andrà a ritroso.

Mentre le cantastorie raccontano o cantano la storia, la musica li accompagna e il wayang beber si srotola, in un immaginario ricco di dettagli, di storie realmente accadute, disastri naturali e causati dall’uomo che hanno avuto un impatto devastante sulle vite delle comunità indigene – «sembra che le cattive notizie abbiano preso il sopravvento su quelle buone», s’insiste anche lì sulla speranza, una preghiera, o meglio un auspicio collettivo, un sogno: «Crediamo che un giorno buono sia un giorno senza disastri, in cui possiamo vivere in sicurezza, protetti dalla violenza e dalle calamità. Che quel giorno arrivi per tutte noi. Amen». Si racconta poi la storia di una comunità di sfollati, la famiglia Sole – Keluarga Matahari, strappati dalla loro terra e casa per catastrofi causate dall’estrattivismo, che sognano una nuova patria – Negeri Tanah Mulya, la Nazione della Terra Felice. Il canto denuncia l’espropriazione, si fa testimone della violenza, e al contempo si schiera, in solidarietà si accoda alla preghiera della comunità colpita prima, e al corteo in marcia poi, reclama quindi all’unisono, «Terra e mare, sangue e carne nostri, li proteggeremo fino alla morte». La scrittura e le immagini sono dense di dettagli, le storie della foresta hanno una località specifica, ma purtroppo uno svolgimento ricorrente dei crimini ambientali dell’imperialismo post-coloniale, dell’antropocene e del tardo capitalismo. «L’unione (o il sindacato) delle vittime si impegna con passione nella costruzione di sogni, nonché nella determinazione della direzione della propria lotta», e Taring Padi con loro. Dal suo canto, Cantadora (Enrico e Flavia) tiene fede alle sue aspirazioni, ovvero raccontare storie che tramandino la memoria collettiva.

A dire il vero io avrei voluto cominciare dal dire come ci siamo conosciute, perché per Taring Padi (e anche per me) le relazioni e la fiducia sono un aspetto fondamentale delle collaborazioni lavorative. Cantadora incontra Hestu Setu Legi e Sri Maryanto per la prima volta ad un evento in solidarietà con la Palestina a Venezia, l’idea c’era già e l’immaginazione diventa una possibilità. Per questo torno spesso sull’insistenza in questo periodo, per ripetere le cose fino a che non si avverano. Come in questo caso, la relazione si costruisce piano piano, nonostante i Taring Padi non avessero mai considerato la possibilità di collaborare con una galleria (approfondirò più avanti la questione), la solidarietà permette di trovare il modo per fare un’eccezione. La mostra “Organize, Educate and Agitate!” eccede dalla stanza di Cantadora dove sono installati i lavori singoli tratti dal Bilik Marsinah di Ucup Baik, Fitri DK, Dodi Irwandi, Setu Legi, Surya Wirawan, l’installazione del Wayang Beber e il pezzo centrale realizzato per l’occasione Hentikan Perbudakan/Stop Slavery (2025) basta schiavitù. Disegni su carta, acqueforti, incisioni, acrilici, xilografie, e stampe a rilievo, piene di dettagli, riferimenti e rivendicazioni. Ogni pezzo racconta storie complesse a chi concede il tempo per ascoltare. Lotte di resistenza, rappresentate e celebrate con cura, narrazioni cosiddette (da chi?) marginali tornano al centro della raffigurazione e della storia. L’epica è nella protesta, nell’appartenenza, nella collettività, nella presenza. Tutti i pezzi firmati singolarmente sono in vendita, mentre la grande tela Hentikan Perbudakan/Stop Slavery è uno sforzo comune realizzato in dialogo con una realtà specifica, e per questo può essere soltanto acquisito da, o donato a, istituzioni pubbliche, perché patrimonio collettivo. Lo stendardo mette al centro la resistenza al caporalato delle comunità dell’Agro Pontino, chiamando le cose col proprio nome insiste, nella speranza che un corteo possa partire da Roma in sostegno della lotta della comunità Sikh, contro l’ennesima forma di schiavitù contemporanea, di cui non si parla mai abbastanza. Flavia e Enrico mi raccontano che, per realizzarlo, Cantadora e Taring Padi hanno trascorso del tempo con il sociologo e attivista Marco Omizzolo, che lavora sul territorio da più di vent’anni. Di nuovo, nell’immagine ogni dettaglio è una storia, ogni scelta una rivendicazione. La tela celebra eventi omessi dalla storia lineare occidentale, prospettive escluse dalla narrativa egemonica, secondo la quale risorse umane e naturali sono considerate sacrificabili in nome del progresso e degli interessi economici di chi non ha niente a che vedere né con la terra né con la vita. Se la prosecuzione della necropolitica mafiosa viene data per scontata, il lavoro di Taring Padi esalta al contrario la dignità della resistenza.

Taring Padi racconta di comunità, e per l’occasione ne convoca altre in altri spazi: prima da NERO per la conversazione On Artistic Utterance, the Labour and Our Political Tools in collaborazione con le compagne di IRI – Institute of Radical Imagination, cogliendo l’occasione per parlare di solidarietà internazionale contro i regimi genocidari; e poi al Ciclocasale LSA di Centocelle per il laboratorio Wayang Kardus, una consuetudine della pratica collettiva di Taring Padi, di produzione di marionette di cartone da usare nelle proteste. Dicono che i pupazzi alle manifestazioni servano a raddoppiare la folla, a ripararsi dal sole e a ravvivare l’ambiente. Purtroppo ero fuori Roma, ma ho molto rimpianto l’assenza. Comunque, come si legge dal comunicato di Cantadora, «L’organizzazione interna del gruppo è affidata a momenti conviviali, spazi informali di confronto e coesione, che sono fondamentali quanto quelli produttivi. Questo principio è rappresentato simbolicamente anche nella loro grande tela al centro della galleria (…) in cui, sotto la dicitura organise, compaiono un cucchiaio e una forchetta: strumenti necessari, indivisibili». Leggo1 – stare insieme, passare del tempo, uscire, fare due chiacchere. Insomma tutto si basa sul tempo che si ferma perché lo si trascorre insieme. Per questa economia della presenza, in solidarietà dell’assemblea dei lavoratori dello spettacolo, che si è tenuta l’8 settembre in Pelanda, Taring Padi ha installato la sua tela الشعوب عدالة / People’s Justice (2024), risultato dal lavoro di cura e condivisione con i collettivi The Kitchen, Globe Aroma, Learning Palestine, Subversive Film e The Question of Funding in supporto alla causa Palestinese. L’idea originale delle grandi tele, o banner, era proprio quella di spostarsi secondo le necessità. Non essendo destinate alla commercializzazione, la loro funzione essenziale era quella di presenziare appunto, in situazioni di protesta o manifestazioni di solidarietà, con la capacità intrinseca di rendere le storie che contenevano trasportabili. Una versione più leggera e maneggevole di un murale di Diego Rivera2, ma con intenzioni, istanze e insistenze molto simili: per usare le stesse parole dell’assemblea di Vogliamo Tutt’altro «immaginare, organizzare, convergere, insorgere».

Il titolo della mostra di Cantadora, riprende lo slogan fondante della pratica di Taring Padi «Organise, Educate and Agitate!» – ed è chiaro fin da subito che non c’è formazione senza organizzazione, e viceversa, né agitazione senza organizzazione e formazione. Allora qui arriviamo al perché ho voluto andare così a fondo. Quello che lì in fondo mi interessa è la proposta inedita di Taring Padi – inedita probabilmente per il sistema dell’arte occidentale che segue le regole del mercato e delle fiere, dei bandi e delle commissioni, dei portfoli e dei cv, mors tua vita mea. Il mio intento non è di storicizzare Taring Padi ma piuttosto analizzare le possibilità materialiste del suo vissuto, come famiglia allargata più che collettivo artistico. Per questo mi sono rivolta allo storico dell’arte, Professore alla Edinburgh Napier University e membro fondatore di Taring Padi, Alexander Supartono3, per farmi raccontare più nei dettagli che cosa fosse successo nel tempo, mentre si stava insieme, come si prendessero le decisioni e in quanti, come sono nati i Taring Padi e che cosa sono diventati.

Intanto però vale anche la pena dire brevemente quello che si sa già, o che si può scoprire con brevi ricerche. L’espressione Taring Padi è sinonima di potere del popolo, e si riferisce alla punta affilata della pianta del riso. Sul loro sito4 si trovano accenni storici sulla formazione, e i loro principi fondativi. Per Taring Padi l’arte è uno strumento, che serve la politica e la pedagogia. Il collettivo nasce da un’occupazione a Yogyakarta, sulla scia dei movimenti contro il regime di Suharto, nel 1998, con l’intenzione di «promuovere e definire strategie per un fronte unito a sostegno del cambiamento democratico e popolare in Indonesia». All’inizio la sua struttura emula arbitrariamente quella di un partito comunista, con assemblee, presidenti, segretari, gerarchie, arruolamento, formazione e procedure molto rigide. Nel 1999, definiscono la loro dichiarazione di intenti (Preambolo), contro i «cinque mali della cultura»: riassumendo, contro un’arte per l’arte, individualista ed esotista, che distrugge la moralità dei lavoratori dell’arte. «L’Istituto Culturale Taring Padi mira a promuovere l’arte e la cultura canalizzando i desideri e le esigenze della gente e dando priorità all’apertura, alla prosperità sociale, alla sovranità del popolo, alla giustizia tra generazioni, alla democrazia, al rispetto dei diritti umani senza trascurare le responsabilità, le prospettive di genere, la riforma delle relazioni globali e la salvaguardia dell’ambiente».

Mi racconta Alex che oggi Taring Padi è composto da diciassette membri che partecipano al Pengambilan Keputusan – processo decisionale, con le assemblee del venerdì, che vivono tra Yogyakarta, Berlino, Regno Unito e Australia, e settanta tra soci, amici, affiliati, e compagni. Ci soffermiamo su questioni pratiche, di come si suddividono il lavoro e le risorse economiche, e senza indugiare troppo nei tecnicismi, direi che sembra tutto collaudato nel tempo, come dice Alex, «un tempo la struttura era molto rigida, ora è tutto diventato più organico». Insieme, col tempo. Da partito a famiglia allargata, da Lembaga Budaya Kerakyatan/LBK Taring Padi – Istituto di Cultura Popolare Taring Padi a Kolektif Pekerja Seni Taring Padi – Collettivo di lavoratori dell’arte Taring Padi, la fiducia è il collante che, nel tempo, ha tenuto insieme tutti gli aspetti più pratici di gestione e convivenza, l’entrata di nuovi membri e, dopo Documenta 15, di ingresso del collettivo intero nella macchina dell’arte occidentale, con tutto un altro funzionamento rispetto ai principi cardinali delle origini. Lui dice che tutto si regge perché le decisioni si prendono insieme da più di vent’anni, «se fossimo un collettivo appena nato, sarebbe tutta un’altra cosa». Ci sono molte scelte da fare, su eventuali collaborazioni, acquisizioni, partecipazioni, ed economie da gestire, considerando anche il mantenimento dei familiari dei membri che spesso partono per lavoro. «Prima erano i familiari dei membri che investivano, ora finalmente sta tornando qualcosa indietro». La conversazione con Alex inizia esplicitando che le relazioni, sia tra membri che con l’ecosistema più o meno immediato che li circonda, sono cruciali al mantenimento della radicalità del gruppo. Come ho già detto all’inizio, ma mi ripeto, insisto, la base contrattuale è la fiducia, che si costruisce con nomi propri, passaparola, familiarità, solidarietà, affiliazione. Tra membri la regola per la sussistenza è sempre stata «contribuisci in base alle tue possibilità, ricevi in base alle tue necessità», racconta Alex. Si retribuisce il lavoro artistico e non-artistico, i guadagni si distribuiscono, e sono state stabilite delle formule matematiche specifiche per stabilire i prezzi di ciascuna opera, salari e compensi per ognuna, e le spese. I risparmi vanno in cassa comune. La questione economica è una delle procedure più complesse e delicate, resa possibile, di nuovo, da una familiarità e una fiducia che non prevedono contratti. Tutto il processo decisionale è molto lento, ammette Alex, «ma anche questa è, se vogliamo, una forma di resistenza», contro scadenze e candidature.

Mengorganisir, Mendidik, dan Mengagitasi – organizzare, educare e agitare. Dopo organize, viene educate, che di nuovo si compie sia rivolto verso l’interno tra le componenti del gruppo, che verso l’esterno, con le comunità che temporaneamente si raccolgono attorno a Taring Padi. Al tempo del “partito”, le classi erano obbligatorie e molto strutturate, mentre ora il processo di apprendimento mutuale è parte integrante del nongkrong e del Proses Kerja – processo lavorativo. Si impara mentre si fa, ed è sempre tutto basato sulla politica. L’agitate diciamo di averlo già largamente trattato, ma vorrei comunque includere un aneddoto, tratto da un articolo di Heidi Arbuckle, ex moglie del primo presidente di Taring Padi: «Nel periodo prima delle elezioni del giugno 1999, diverse città indonesiane hanno vissuto momenti di forte tensione. I commentatori politici incitavano alla “guerra civile” e i media alimentavano il clima instabile pre-elettorale fomentando tensioni religiose, etniche e razziali. Così Taring Padi ha iniziato a produrre una serie di manifesti xilografici con messaggi di solidarietà che auspicavano alla collaborazione. Tra marzo e giugno 1999, hanno distribuito circa 10.000 manifesti xilografici nelle principali città di Giava, Sumatra e Sulawesi meridionale. Le xilografie, stampate a mano su carta da bozza, furono affisse nelle strade delle città, sulle chiese e sulle moschee, sulle bacheche dei villaggi, nelle bancarelle di cibo e nei mercati». Comunque stiamo parlando di un gruppo di artisti visibilmente radicali, vestiti di nero e tatuati, che talvolta crea diffidenza tra le persone comuni, come racconta Fitri DK da NERO, ma che da sempre si è sentito parte integrante della ‘cosa pubblica’ e della vita politica sul territorio prima e nel mondo poi. Ora che l’interesse su di loro è aumentato esponenzialmente, le cose sono un po’ dovute cambiare, le questioni di principio sono diventare meno ferree, il tempo non basta mai, e invece della consueta circolazione dei lavori sono arrivati accordi di prestito e polizze assicurative, dice giustamente Alex, «non siamo fatti per questo proposito». Kritik Oto Kritik – critica e autocritica tengono insieme le fila dello stare insieme, anche quando qualcosa va storto. Volontariamente non entro nel merito del caso Documenta 15, perché si trova tutto online, e volontariamente rimango più volentieri sul potenziale immaginativo e pedagogico di tale convivenza, come pratica ma anche come estetica, ad oggi un esempio particolarmente rilevante per il posizionamento, l’audacia, la coerenza e la sua resistenza al tempo e alle intemperie, con l’auspicio che anche noi s’impari a vicenda facendo.

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Giulia Crispiani