Evocare il XXI secolo suona ancora un po’ strano e futuristico. Benché ci siamo immersi già da un decennio, a volte ci sembra di non aver ancora abbandonato il XX secolo. Forse perché, nel frattempo, si è persa la fiducia nel progresso, un ideale che cento anni fa si poteva manifestare senza imbarazzo o ironia. Ancora all’inizio del secolo scorso, quello spettacolo sontuoso che era l’Esposizione Universale — ormai riconosciuta come segreto schema di costruzione dei musei e degli attuali sistemi espositivi — raccontava con superbia le meraviglie della scienza e della tecnologia, l’eroismo dell’industria, la potenza delle nazioni, il mito della modernità. Anche l’arte aveva il suo ruolo nella celebrazione dell’ideale del progresso, ma già, come osservava Walter Benjamin, con una sfumatura più ingiallita dallo scorrere del tempo: arte come prodotto industriale proiettato nel passato, come ricerca e riscatto di quegli scarti che la corsa impazzita della modernità verso il futuro lasciava sempre più numerosi.
Dedicare una mostra all’arte italiana che si affaccia sul XXI secolo non ha certo l’obiettivo di restaurare il discorso delle “magnifiche sorti e progressive”. Lo scetticismo nei confronti di una visione totalmente positiva del futuro non deve tuttavia implicare un rifiuto del cambiamento tout court, in un disperato attaccamento al passato, un cliché cui troppo spesso è condannato questo Paese. Cercare nuove forme di espressione e creazione, percorrere strade ignote e guardare avanti resta l’unico modo per procedere, tanto più necessario in una cultura e in un tempo carichi di immagini distopiche e tendenze reazionarie.
La mostra “21×21: 21 artisti per il 21° secolo”, organizzata nell’ambito delle celebrazioni del Centenario di Confindustria, presenta una selezione di artisti tra i più interessanti e significativi della scena artistica contemporanea in Italia, appartenenti sia alla generazione attiva a partire dall’inizio degli anni 2000 sia a quella degli artisti ora emergenti. Le opere, alcune delle quali inedite, propongono una ricognizione approfondita sui linguaggi emersi nell’ultimo decennio. Sia che guardino al passato, al presente o al futuro, questi giovani artisti lo fanno con immagini nuove, inattese, talvolta incomprensibili, ma mai scontate.
La dimensione temporale è un tema centrale, oggetto di analisi di molte opere in mostra. Tramite gli strumenti e le forme della narrazione storica, della biografia, dell’archivio e della citazione, artisti come Rossella Biscotti, Giulio Squillacciotti, Ian Tweedy e Matteo Rubbi recuperano frammenti e immagini del passato, individuale o collettivo, tecnologico o sociale: un regista ucraino di fronte al disastro di Chernobyl; l’avventura della musica underground romana negli anni Ottanta; i leggendari aerostati Zeppelin e la meraviglia della monorotaia di Italia ’61. Ciò che guida queste opere non è tuttavia uno spirito nostalgico o il senso di una perdita, ma la necessità di trovare forme alternative di analisi ed elaborazione di un materiale ancora in flusso. Mettendo in discussione le nozioni acquisite di verità e finzione, di resoconto e retorica, di documento e monumento, questi artisti esplorano ciò che è stato per raccontare ciò che siamo e ciò che potremmo essere.
La strategia della dislocazione temporale si esercita in una direzione inversa in lavori che evocano atmosfere e tematiche fantascientifiche. Proiettando il proprio sguardo in avanti, o in una dimensione parallela e irreale, Meris Angioletti, Micol Assaël, Rosa Barba ed Elia Cantori danno vita a immagini inconsuete, paesi che scompaiono in un precipizio e materia che si disgrega, telepatia e visione a distanza, presagi di imminenti catastrofi o promesse di nuove occasioni. La fantascienza da sempre offre potenti strumenti di indagine della società, visioni talora sinistre di un futuro che è spesso solo uno specchio del presente. Scienza e tecnologia, i feticci della modernità, sono qui gli oggetti di osservazione privilegiati, i protagonisti e i motori di un procedere che lascia numerosi angoli bui.
Suoni che divengono armi letali, assurde protesi visive che deformano il mondo e il sé, ibridi animali frutto di improbabili sperimentazioni genetiche, inquietanti maschere che negano l’individuo, oppresso dalle ferree logiche della collettività — come nelle opere di Alberto Tadiello, Roberto Cuoghi, Paola Pivi e Patrick Tuttofuoco — raccontano queste paure in modo fantasioso, ironico, a volte ludico, ma con una risata che suona nervosa e un po’ alienata.
Tradizione e innovazione sono nozioni forse astratte, cariche di retorica, ma divengono ben più concrete se sono ancorate a un contesto e a una cultura specifici ed esaminate attraverso gli oggetti e i simboli in cui si materializzano. Il musical-horror africano di Alterazioni Video, l’antropologia rurale di Luca Francesconi, la scultura pubblica redenta dal kitsch di Santo Tolone, la profanazione del design di Martino Gamper e il monumentale informe di Patrizio Di Massimo raccontano queste dinamiche spaziando dalla cultura alta a quella bassa, partecipando o rievocando i rituali, smontando e rimontando i simulacri tramite cui la nostra società o quelle più lontane nello spazio e nel tempo si autorappresentano.
Rappresentazione e forma sono al centro delle indagini di Diego Perrone, Ludovica Carbotta, Riccardo Previdi e Giuseppe Gabellone; la questione è per questi artisti quella dello statuto dell’immagine in rapporto alla realtà e al meccanismo di creazione dell’opera: che l’immagine sia frutto di una lavorazione artigianale e manuale — guidata da una percezione intuitiva o corporea della realtà —, oppure di una tecnologia digitale che nega la matericità e l’autonomia del referente, il principio costitutivo ed esplicativo della forma risiede nel processo che la porta in vita, le diverse e potenzialmente infinite fasi del suo sviluppo.
Un progetto speciale di Alberto Garutti affianca la mostra. L’artista ha realizzato Temporali, un imponente lampadario costituito da oltre mille lampadine, che si accendono simultaneamente ogniqualvolta un fulmine cade sul territorio italiano. In quell’istante spazi lontani si avvicinano, il qui e ora perde consistenza, il pensiero corre veloce al cielo, come recita una piccola dedica con cui l’artista accompagna l’opera. La tecnologia al servizio della poesia in un’opera che fonde razionalità e immaginazione, restituendo l’arte al dominio del sogno e della collettività.
Jules Michelet diceva che ogni epoca sogna la successiva, Benjamin commentava che questo non fa che incalzare il risveglio. L’arte, che è sempre un po’ più indietro o un po’ più avanti rispetto al proprio tempo, può forse continuare a sognare.