Come spesso succede, lo sapevamo. Sapevamo che non c’era da attendersi nulla da questa Biennale di Venezia, ma speravamo che qualcosa potesse accadere, che Robert Storr ci stupisse con un taglio inaspettato, magari proprio perché distante dalle vicende contingenti del mondo dell’arte. Invece, come nelle peggiori previsioni della vigilia, la 52a Biennale di Venezia si è rivelata scialba, irrilevante, inutile.
Entrando nelle Corderie ci imbattiamo subito in una frittura mista in prospettiva aerea di Luca Buvoli, un’installazione dedicata al Futurismo che prende alla lettera le ipotesi polimateriche e aeropittoriche di ormai un secolo fa e non le porta molto più avanti. La sua presenza in apertura, intesa forse come omaggio all’arte del nostro paese, apre invece al problema degli artisti italiani nelle biennali internazionali, in questa edizione appena un po’ più numerosi che in passato, ma tutti raccolti dal curatore intorno al proprio studio, a New York. Il display dell’Arsenale è vigilato fino all’eccesso: che senso ha fare una mostra in un luogo di archeologia industriale se poi se ne cancella ogni traccia, se lo si trasforma in uno spazio neutro, museale? Il tentativo di spaesare saltuariamente il visitatore con opere che prendono tutto lo spazio non decolla: l’installazione di Jason Rhoades, senza il suo occhio caotico e geniale nella disposizione, risulta fredda e spenta; il grande patchwork di El Anatsui è ancora piccolo e si perde nell’ambiente. Qualche bel lavoro non manca, come è ovvio, come quelli di Malick Sidibé, il fotografo malese giustamente insignito del Leone d’Oro alla carriera, sintesi delle due linee che si intrecciano in mostra (quella della sensibilità e quella della regola geometrica), o i video che giocano sulla fugacità dell’espressione pittorica del colombiano Óscar Muñoz, o ancora il bellissimo lavoro di Francis Alÿs, in cui la serialità delle centinaia di disegni che riempiono le pareti si fa fluida musica nel video d’animazione. Ma tra queste opere manca il nesso, e, soprattutto, manca il ritmo, cosa che il curatore sembra invece aver cercato insistentemente se si pensa che ha voluto intercalare cinque tempi del video di Yang Fudong in cinque differenti punti delle Corderie.
La situazione non è troppo dissimile ai Giardini, nel Padiglione Italia, dove tra illustri maestri occidentali (da Nauman a Polke, da Louise Bourgeois a Gerhard Richter) e artisti provenienti dai sette (sic!) continenti, il dialogo fatica a decollare. Il curatore, probabilmente onestamente, ha voluto fare una mostra che non scontentasse nessuno, nella quale ci fosse un po’ di celestiale serenità e un po’ di terrena problematicità. Ma alla fine non raggiunge alcun risultato.
Il titolo che gioca tra sensi e mente, del resto, è di una banalità sorprendente, quasi da Bignami della Filosofia, come se ancora ci stessimo a domandare kantianamente “sono possibili giudizi sintetici a priori?”, oppure disquisissimo di forma e contenuto, o di figurativo e astratto. Storr torna a Platone, e spiega che con questa mostra vuole solo dimostrare che l’arte concettuale non è esente dalla sensibilità, che la ragione ha a che fare con i sensi, che il dualismo è ora che finisca, che Sol LeWitt, prima di morire, è stato entusiasta per la trovata del titolo. Ecco l’uovo di Colombo, che il primo curatore americano della storia della Biennale ci riporta dal Nuovo Mondo… Il sottotitolo, “L’arte al presente”, dà ragione di sé: non uno sprazzo verso il futuro, non un’apertura al rischio, al nuovo, all’imprevedibile. Solo un noioso presente con molte radici nel passato. Nulla di più lontano da quanto si muove oggi sulla scena del pensiero più intrigante, delle tematiche più attuali: l’ambiente, le mutazioni percettive legate allo sviluppo delle nuove tecnologie, il confronto tra le culture. Il confronto tra le culture c’è, a ben vedere, perché è vero che Storr ha cercato in tutti i modi di aprire all’universo mondo. Purtroppo, ciò che ha riportato non è però quasi mai la freschezza, la novità, l’energia dirompente delle espressioni artistiche dei paesi emergenti, ma qualche piatto esotico raffreddato in una prospettiva occidentale. Il Padiglione africano, voluto fortemente dal curatore che l’ha incastonato all’interno dell’Arsenale, rappresenta bene questo limite: bello, frizzante, interattivo, con suoni e rumori che si interconnettono, ma con i lavori disposti sempre in una modalità museale, assai distante dal vitalismo fresco e caotico che Hou Hanru aveva ottenuto nella sua sezione della Biennale di Bonami del 2003. Il fatto poi di averlo raccolto da una collezione privata dimostra bene l’intenzione di non assumersi rischi eccessivi. E qui si apre il problema del senso delle grandi mostre, oggi, dell’utilità di realizzare grandi biennali in cui il curatore raccoglie i lacerti dei discorsi dagli artisti per fare un discorso proprio. Si apre la questione della legittimità, e della validità, di offrire uno spaccato di ciò che succede nel mondo attraverso un unico punto di vista. Non sono forse più utili, come afferma qualcuno, le fiere d’arte, dove almeno si possono vedere delle belle opere senza sovrastrutture mentali? Non sarebbe forse meglio tornare ad Aperto ’93, dove una decina di curatori raccolsero ciò che si muoveva allora sulla scena internazionale disponendolo fianco a fianco senza troppi fronzoli e sicumere? Non era forse più consona alla situazione contemporanea la Biennale di Francesco Bonami del 2003, che, pur con risultati discutibili sul piano estetico, toccava il problema della frammentazione dei punti di vista e della prorompente avanzata delle moltitudini creative? Un dato positivo questa Biennale lo riporta: nella quantità dei padiglioni nazionali (per i quali, bisogna ammettere, Storr si è speso senza posa) e delle manifestazioni collaterali, numerosissime, da Damien Hirst a Matthew Barney e Joseph Beuys, da Jan Fabre a Thomas Demand, solo per citare i nomi più noti. Forse in questo, per paradosso, una prospettiva questa Biennale la apre: la manifestazione diventa un catalizzatore di iniziative, un polo di attrazione nella cui orbita si collocano tante altre mostre ed eventi, alcuni dei quali possono essere più interessanti e stimolanti dell’iniziativa centrale. Solo se si prende l’intera serie delle iniziative veneziane, si ritrova quella polifonia che meglio rappresenta la situazione contemporanea.