Paola Pivi: Cara Carla, sei mai stata interessata ai fumetti?
Carla Accardi: No, non me ne sono mai interessata.
Laura Cherubini: Io però vorrei chiedere a Paola come mai ha fatto a Carla questa domanda a proposito del fumetto. C’è qualcosa del suo lavoro che ti ha fatto pensare a questo?
Paola Pivi: Io adoro i fumetti, i cartoni animati, i disegni di quel tipo, hanno come una doppia natura: da una parte sono estremamente sintetizzati, come un riassunto semplificato, dall’altra possono rappresentare qualunque fantasia, in un fumetto la realtà è creata d’intero e quindi tutto è possibile. Sono due aspetti diametralmente opposti, la sintesi e l’apertura all’infinito sulle potenzialità di quello che si può rappresentare, e io vedo un’analogia con l’arte di Carla e anche un po’ con la mia.
CA: Paola, a volte mi domando come mai tu abbia deciso di trasferirti in Alaska.
PP: Nel 2005 prevedevo un viaggio in Antartide che fu cancellato due mesi prima della partenza. Avevo destinato quelle cinque o sei settimane al bianco della neve. Mi chiedevo cosa avrei fatto quando lessi, su un giornale italiano, di Roberto Ghidoni, “The Italian Moose”, l’alce italiano, campione indiscusso di Iditatrail Invitational. Che cos’è Iditatrail Invitational? Non solo esiste Iditarod, una delle ultime gare epiche al mondo, ovvero la traversata in slitta con la squadra di sedici cani attraverso l’Alaska — circa mille miglia di territorio selvaggio e incontaminato, senza strade —, ma ci sono anche una “masnada” di personaggi che ogni anno si riuniscono per percorrere a piedi, in bici o sugli sci lo stesso percorso della Iditarod. Essi partono una settimana prima e approfittano del sentiero battuto con le motoslitte preparato per i cani, loro partecipano alla Iditatrail Invitational. La maggior parte dei partecipanti alla Iditatrail Invitational si ferma dopo circa trecentocinquanta miglia a McGrath, solo pochissimi provano a compiere tutto il percorso delle mille miglia e più. Be’, Roberto era l’unico che anno dopo anno terminava a piedi le mille miglia e quell’anno sul giornale si diceva che lo avrebbe compiuto per l’ultima volta. Decisi di andare a vedere la Iditarod, la Iditatrail Invitational e Roberto Ghidoni, e dissi a tutti loro che ero una giornalista italiana che scriveva delle gare e così fu. Furono e cinque o sei settimane più intense della mia vita: su un aereoplanino fatto di tela, a due posti, il pilota davanti e io dietro, siamo atterrati, o agghiacciati ovunque, è stato bellissimo. Un anno dopo Massimo De Carlo (che odiò il fatto che io fossi andata in Alaska nel 2005 per ben sei settimane), mi sfotteva dicendomi che ero codarda e non sarei ritornata in Alaska l’anno successivo. Ci tornai per ripicca e ritrovai un mondo meraviglioso, rimasto intatto dal mio viaggio precedente, con una freschezza di temperatura e di luce blu e di gente senza problemi. Poi mi ci sono trasferita.
LC: Cara Carla vorrei chiederti io una cosa: ho visto da te un’immagine stupenda di un sipario, vuoi parlarne?
CA: È un sipario che ho progettato per il teatro di Firenze: i grandi segni rossi si spostano in progressione, mentre il fondo che sembra bianco è in realtà leggermente dorato.
PP: Mi piacerebbe che Carla ci parlasse delle saline.
CA: Le saline di Trapani erano di proprietà di mia madre, ci andavo quando ero piccola. Mi ha sempre colpito molto il bianco, era vicino al mare. Mi sembrava che quella cosa ci fosse solo da noi. Quando mia madre è andata via (era morto mio padre) e ha venduto a me è dispiaciuto molto. Mi sembrava che andasse perduta una cosa unica…
LC: Quando ho visto le saline a Trapani in occasione della tua mostra del 1998 sono rimasta molto impressionata. Soprattutto mi ha colpito l’analogia strutturale con un quadro del 1976, Arancio blu. Il supporto è in sicofoil, un materiale trasparente, e la struttura è quella di una griglia costruita secondo un doppio binario con segni di due timbri contrapposti, arancio e azzurri declinati nelle varie tonalità. Ho avuto la sensazione che un’innata idea di trasparenza traesse remota origine da quel luogo di grande fascino e che la pittura di Carla avesse catturato quel riverbero luminoso delle saline, per poi dimenticarsene, perché nel lavoro di Carla, come sappiamo, non c’è spazio per nostalgie, di nessun genere.
PP: Carla, qual è il colore che ti piace di più?
CA: Per me è difficile rispondere a questa domanda, mi piacciono i colori nel momento in cui li uso. Mi piacciono molto anche uniti al nero.
LC: Che tu consideri e tratti come un colore?
CA: Sì.
LC: In questo periodo stai lavorando molto e stai usando un bellissimo verde. Ce ne sono alcuni esempi anche alla mostra di Castelbasso.
CA: In generale mi piacciono molto i colori assoluti. In uno degli ultimi quadri ho adoperato solo il bianco sulla tela grezza. Lavoro ogni giorno, tutti i pomeriggi.
PP: Carla, vorrei che tu accettassi di raccontare come molti anni fa hai perso il lavoro di insegnante per via di una sorta di inchiesta… So che spesso non ti va di raccontarlo, ma è una cosa talmente istruttiva…
CA: Alle bambine domandavo sempre come erano trattate nei confronti dei fratelli maschi. La cosa incredibile è che si sono risentite le madri, non i padri! Ne hanno parlato con la direzione e sono stata allontanata. Erano gli anni del femminismo, facevo parte con Carla Lonzi del gruppo “Rivolta femminile”. La sorella, Marta Lonzi, ha progettato questa casa. All’inizio era un po’ diversa, Marta aveva fatto tutto in legno e di colore grigio. Le travi del soffitto erano grigie. Io poi ho rifatto tutto bianco, per me è molto importante, perché i colori dei miei quadri devono stare come su una pagina bianca.
LC: Trovo molto bella questa idea della casa-studio come pagina bianca… Pensa comunque quanto si sono rivelate poco lungimiranti quelle madri e quella direzione…
CA: Paola, perché hai fatto il lavoro con i cento cinesi?
PP: Vivevo in Cina, non sapevo nulla della storia, forse perché non riconosco mai i volti, non dei cinesi, ma di tutte le persone in generale, mi faceva impressione quando vedevo due cinesi vestiti uguali, per via di un’uniforme, con i capelli lucidi e neri e omogenei, mi pareva che i lineamenti del viso venissero evidenziati molto dagli abiti uguali, come in un disegno. Questo fu il mio punto di partenza. Logico che alla fine è diventato un lavoro sulla Cina e sulla sua odierna imposizione sul resto del mondo, sul confronto faccia a faccia tra razze diverse che non si conoscono, sul concetto di massa, di forza di unione, sulla potenza di un popolo fatto da un miliardo di individui, e così via. Quando io l’ho fatto, anche solo la parola Cina era esotica, e di cinesi in giro se ne vedevano pochissimi.
LC: È estremamente interessante che tu abbia pensato sin dall’inizio a questa opera come a un lavoro sul disegno.
PP: Laura, ricordo che una volta che eravamo tutte e tre insieme tu avevi detto che le mie opere erano come monadi, gesti unici, ridotti all’osso, come un’unità minima. Io avevo ribattuto che ogni segno di Carla è tale.
CA: Lo trovo un discorso interessante.
LC: Lo penso ancora e penso che l’osservazione di Paola sui segni di Carla sia una prova del grande acume critico che gli artisti possiedono. È vero, nelle opere di Carla e di Paola c’è un nocciolo duro, un nucleo insolvibile, una irriducibilità di fondo.
PP: Ti invidio che sei con Carla tutte le sere. Come sai un anno fa ho vinto una borsa di studio all’Accademia Americana. Il mio progetto era di poter stare con i grandi geni che vivono a Roma, Carla, Luigi, Emilio e Jimmie (Accardi, Ontani, Prini e Durham, N.d.A.). Alla fine ho passato la maggior parte del tempo con Carla: Carla è il mio idolo, il mio guru, la mia donna preferita al mondo.