Giancarlo Politi: Chiedo a voi, testimoni e protagonisti di quegli anni, cosa pensate della mostra “Addio Anni 70. Arte a Milano 1969 – 1980” a Palazzo Reale. L’avete vista, immagino?
Giorgio Colombo: Sì, l’ho vista e sinceramente l’ho trovata molto deludente. Soprattutto, non rappresenta minimamente il meglio di quegli anni. Anche se debbo ammettere di essere stato contattato tra i primi chiedendomi di partecipare, con una grande sala; quello che mi hanno chiesto però era impossibile da realizzare per questioni economiche: mi avrebbero dato un budget che copriva forse il 10 % delle spese, quindi ho dovuto rinunciare.
Franco Toselli: Io credo che il problema non sia stato questo…
GC: Infatti. Ci sono delle opere che hanno poco a che fare con gli anni Settanta. Per esempio, ad aprire la mostra, troviamo un’opera di Alighiero Boetti fatta con una biro con scritto “Anni Settanta”, che secondo me non rappresenta minimamente il lavoro di Alighiero di quegli anni. In quegli anni sono successe delle cose molto più interessanti di quello che abbiamo visto in mostra.
GP: Credo, come dice Franco Toselli, che proprio l’ideologia della mostra sia sbagliata. La Milano degli anni Settanta più rilevante, più interessante anche a livello internazionale, era ben altro. La Milano che Bonami ha rappresentato è una Milano un po’ locale, provinciale, delle gallerie che avevano rapporti solo con la città.
FT: Sembra infatti che in mostra l’arte abbia un ruolo quasi marginale, ma la verità è che Milano ha saputo raccogliere energie sia di artisti italiani che di artisti di tutta Europa, di New York, di Los Angeles. L’elemento più importante è proprio il lavoro degli artisti, che sono arrivati a Milano anche perché c’erano collezionisti importanti, primo fra tutti Giuseppe Panza di Biumo.
GC: Sì, e purtroppo questa cosa non viene fuori dalla mostra. Però era prevedibile…
FT: Bè, io per esempio non seguivo una pista locale. A Milano mi sono sentito sempre un po’ ai margini. In realtà ritrovavo un’energia incredibile solo nel momento in cui stabilivo un rapporto con l’arte internazionale. In mostra invece sembrava ci fossero tutti gli amici del bar e del quartiere. Bisogna poi ricordare che l’arte di quegli anni si è espressa attraverso le mostre fatte dalle gallerie, perché i musei in quegli anni non erano presenti.
GC: E per quanto riguarda le gallerie, a parte te Franco Toselli, Françoise Lambert, la mitica Apollinaire e forse un po’ la galleria dell’Ariete, non ne ricordo altre…
FT: In quegli anni c’era sempre l’idea della scoperta. Le cose che non si conoscevano prima si scoprivano quasi in tempo reale. C’era una grande partecipazione. Era come entrare in un palazzo meraviglioso, che non conosci, visitando una stanza dopo l’altra…
GP: Secondo voi quando iniziano gli anni Settanta a Milano? Io penso che la mostra che ha dato inizio alla storia degli anni Settanta sia stata “Area condizionata” che ha rappresentato uno sguardo sull’incognito, sul nuovo. Mi pare fosse una mostra tutta italiana…
FT: Sì, erano tutti artisti italiani. La mostra era curata da Tommaso Trini, una delle figure fondamentali in quel periodo. Trini ha avuto l’idea di mettere insieme diverse persone, architetti, poeti, musicisti, artisti, nel tentativo di creare un lavoro di gruppo, e in minima parte è stato realizzato. È stata una prova della tensione che in quel momento si respirava.
GP: Purtroppo non esiste nessun documento di quella mostra del 1969…
FT: Esiste un documento probabilmente realizzato da Gianni Emilio Simonetti. Si tratta di un breve filmato. Esiste anche qualche fotografia.
GC: Io credo di ricordare che c’era un filmato in cui c’era Scheggi che diceva “Ah Arte Povera… bisognerebbe dire povera arte!” Questo mi aveva molto colpito. Incominciavano già a esserci critiche feroci.
FT: Nelle gallerie, anche nella Galleria Toselli, gli artisti venivano per confrontarsi. C’erano Enrico Castellani, Luciano Fabro, Enzo Mari, Giulio Paolini. Quello che ricordiamo di più sono le straordinarie mostre realizzate in quegli anni. Per esempio la mostra di Paolini, con il Giovane che guarda Lorenzo Lotto, la mostra di Fabro, con L’Italia rovesciata, e altri lavori importanti. La mostra di Boetti “Shaman-Showman” è stata determinante nel Sessantotto e anticipava già gli anni Settanta. Quando sono arrivati davvero gli anni Settanta abbiamo capito che Boetti preparava gli anni Ottanta.
GC: Secondo me gli anni Settanta iniziano nel Sessantotto, e le opere di Alighiero segnano l’inizio degli anni Settanta…
FT: Ricordo che nell’estate del 1970 lasciai le chiavi della galleria a Boetti. Quando tornai, Alighiero aveva realizzato una delle sue più grandi opere. Era Estate 1970.
GP: Quali sono stati gli artisti non italiani che arrivarono a Milano? E per quale ragione?
FT: Credo che fondamentale sia stato Sol LeWitt. Con Sol LeWitt avevo già un rapporto solido da tempo, mentre gli artisti americani venivano e facevano la loro mostra, come per esempio Mel Bochner. Sol LeWitt era una persona lungimirante, parlava molto anche di altri artisti e infatti fu lui a suggerirmi Robert Mangold. Anche la mostra di Mel Bochner fu importante in quel periodo. Poi esposero da me anche altri artisti americani, da Kosuth a Richard Serra.
GP: Lawrence Wiener esponeva dalla Françoise Lambert?
FT: Da me fece due mostre. Quando Françoise venne a Milano lavorò con me per due anni. Poi aprì la galleria di fronte, infine si spostò, portando avanti un’attività straordinaria. Lawrence Wiener e tutti i concettuali di New York sono passati nella sua galleria.
GP: Anche Michael Asher.
FT: Asher veniva dalla California. Ho fatto anche due mostre di John Baldessari e di Dan Graham. Il riferimento allora in Italia era soprattutto la galleria di Gian Enzo Sperone. L’evento che ho realizzato con Asher ha rivelato la natura della galleria, così come le performance di Joan Jonas e Trisha Brown, di Calzolari e Gordon Matta-Clark. Ma naturalmente gli anni Settanta non sono finiti lì. Nella mia galleria sono nate moltissime cose.
GP: Per esempio una delle pochissime mostre di Tony Shafrazi, che subito dopo smise di fare l’artista.
GC: Sì, l’unico documento che rimane è un libro introvabile.
GP: Giorgio, tu come hai iniziato?
GC: Io e Franco eravamo vicini. La sua galleria era proprio sotto allo spazio dell’ex Galleria De Nieubourg che era diventata la sede della Olivetti Corporate Image, dove io lavoravo come grafico. Il primo incontro importante è stato quando sono andato a trovarlo la prima volta: è nato subito un rapporto di amicizia e stima. Ho visto sul suo tavolo un’opera di Boetti, che io non conoscevo ancora e mi ha colpito molto. Ero disposto anche a comprarla perché costava 50.000 lire, cifra che sarei riuscito a mettere insieme, ma Franco mi disse “questa l’ho già venduta”. Probabilmente non credeva che io fossi veramente interessato, ai tempi avevo 25 anni, ed era strano per un giovane comprare arte. Mi ha quindi proposto la possibilità di averne una fatta apposta per me da Boetti. Ho accettato subito e così è iniziata l’amicizia e la collaborazione con Alighiero che qualche mese dopo mi ha consegnato la Dama.
GP: Facevi già il fotografo?
GC: Sì. Ho iniziato a documentare l’arte nel 1962.
GP: Hai frequentato Ugo Mulas?
GC: Ugo Mulas lo frequentavo quando lavoravo da Achille Mauri. Era cominciata la serie dei libri con allegato il multiplo, che ai tempi erano una novità. Il primo era stato Castellani, poi Fontana. Per Castellani avevo fatto io tutte le fotografie, mentre nel libro di Fontana era naturale che le fotografie fossero quelle di Mulas, io ne curai la grafica. Insieme andammo da Fontana per discutere del libro, e dopo un mese Fontana morì senza quindi vederlo stampato. Conoscevo già il lavoro di Ugo, in particolare il suo bellissimo libro New York Arte e persone. Lo stimavo moltissimo. Fu proprio lui a convincermi di dedicarmi solo alla fotografia: all’epoca fotografavo arte per un mio interesse personale, perché lavoravo come grafico, prima da Mauri, poi da Sottsass. Poi sono andato alla Olivetti.
FT: Giorgio è la memoria storica del periodo. Prima c’erano stati Mulas e Cattaneo. Nel Sessantotto organizzai una mostra di Lucio Fontana, che era appena mancato. Era una mostra con allestimento di Nanda Vigo. Pochi l’hanno vista, però esistono foto di Cattaneo e di Mulas. C’era stata la partecipazione di figure rilevanti della città di Milano, come Dino Buzzati, Gio Ponti e molti altri.
GP: Quali erano i collezionisti milanesi o che gravitavano in città?
FT: All’epoca conobbi collezionisti che compravano sopratutto Fontana per esempio. Uno di questi era Peppino Agrati, una figura fondamentale. Anche Tettamanti, Malabarba e Consolandi, che conobbi quando aveva già comperato Piero Manzoni e mi aveva preceduto nell’acquisto di Keith Haring. In questo devo dire che Milano ha dato forse il meglio di sé.
GP: Chi erano i collezionisti più vicini alla galleria?
FT: Io direi soprattutto Consolandi, Peppino Agrati, e Angelo Baldassarre che è stato il mio primo collezionista: ricordo che arrivò e mi svuotò il garage. Non sapevo a chi vendere le opere di Paolini, di Boetti e lui cominciò a comprarle.
GP: E Lucio Amelio frequentava Milano?
FT: Lucio era molto affezionato a me. Eravamo molto vicini anche se non lavoravamo insieme. Fabio Sargentini e Lucio Amelio erano figure internazionali, mentre gli altri galleristi sono stati sì figure internazionali, ma con un taglio diverso. Sono stati loro a fare grande l’Arte di quegli anni.
GP: Non dimentichiamo Mario Merz e Vincenzo Agnetti, che sono state due figure fondamentali in quegli anni.
GC: Credo che l’opera di Vincenzo Agnetti sia stata significativa del clima degli anni Settanta.
GP: Vincenzo era in un certo senso una tessera di questo mosaico, è stata una figura un po’ isolata, mentre Merz era più coinvolgente…
FT: Agnetti scrisse delle poesie bellissime, fece da me una mostra nel 1972, e un’altra l’anno prima che morisse, nel 1981. La sua è stata sicuramente una figura incompresa, difficile.
GC: Ritornando alla mostra “Addio anni 70”, io credo che anche il lavoro di Fabro non venga rappresentato molto bene, in particolare il suo lavoro teorico. Infatti Fabro è stato uno dei pochissimi artisti ad aver scritto tutto sul suo lavoro ma questo non viene fuori. Del resto, la sua opera rimane ancora oggi in gran parte da comprendere.
FT: Ancora oggi noi non abbiamo la chiave segreta dell’arte, e anch’io quando penso ad alcune mostre o a certe cose ogni volta mi nascono nuove riflessioni. Per esempio all’opera Objet Cache-Toi di Merz ci ho pensato per 30 anni e continuo a pensarci… Per non parlare poi della presenza negli anni Settanta di Gino De Dominicis… Lui riprendeva dei lavori, li distruggeva o li cancellava. Ero rimasto molto colpito dalla sua Madonna che ride, che alla fine ha distrutto. Gli anni Settanta poi a un certo punto si sono assopiti. Nel 1975 ci fu la prima mostra di Clemente: erano ancora gli anni Settanta ma si avvertiva già una trasformazione.
GP: E adesso?
GC: Io continuo a seguire il mondo dell’arte, ma con grande difficoltà: il sistema dell’arte è completamente cambiato. Tutto si è commercializzato. E infatti spesso rimango sbalordito dal valore altissimo di opere che per me varrebbero nulla.
GP: Il problema invece secondo me è un altro: può un settantenne capire l’arte di oggi?
GC: Secondo me sì.
GP: La solita presunzione della terza età…
FT: Vedi, io veramente non mi sono mai posto il problema di capire o non capire. Negli anni Ottanta ho cominciato a fare mostre con Tony Cragg, Julian Opie, e altri. Oggi c’è una tale espansione planetaria che al massimo si recepisce un frammento!
GC: Certo, ma alcune cose non cambiano. Quando ancora provo delle emozioni di fronte a un’opera d’arte vuol dire che quella cosa funziona…
GP: Tu per esempio ti eri accorto che Maurizio Cattelan era un grande artista?
GC: No, non l’ho mai considerato un grande artista, ma un grande pubblicitario, uno che ha capito molto bene come funziona il marketing. Alcune cose hanno però attirato la mia attenzione.
GP: Tu invece cosa pensi di Maurizio Cattelan?
FT: Che ha delle idee straordinarie e sa anche realizzarle, però le idee hanno anche un tempo breve, per cui è costretto sempre a fare sempre nuovi lavori. E questo mi fa pensare a Gino. A un certo punto Gino pensava molte cose che poi non realizzava, e non erano solo delle idee, erano delle opere. Forse è come dici tu: noi non siamo in grado di leggere il nostro tempo.
GP: Purtroppo usiamo degli elementi di giudizio che appartengono al passato, anche se recente.
GC: Io penso che bisogna essere continuamente allenati, stare dentro il problema. Se abbandoni, perdi il filo.