Pédraic E. Moore: Prima abbiamo parlato del modo in cui la mia interpretazione dell’arte è spesso dominata da una tendenza a fare riferimenti alla storia dell’arte. Da quando mi sono imbattuto per la prima volta nel tuo lavoro, ho cominciato a individuare al suo interno alcune forme e motivi ricorrenti. Alcuni sono archetipi senza tempo, ma altri, come per esempio la figura velata, presentano richiami alla storia dell’arte. Sono stato costretto a mettere in relazione il tuo lavoro con diversi artisti del XX secolo, come Key Sage e Robert Morris, sebbene sono sicuro che il rapporto formale tra il tuo lavoro e il loro è pura coincidenza. Ti interessa la relazione — anche se casuale — con la storia dell’arte?
Agne Raceviciute: Mi interessa la storia, e la sua generale attenzione agli eventi e alla creatività. È un aspetto dell’arte che posso solo ammirare. In questo momento sono profondamente impegnata in una sorta di approfondimento che va alla ricerca dell’inaspettato e dell’illogico: guardo avanti tentando di osservare la storia del passato, senza lasciarmi influenzare, ma per me è importante restare consapevole. “Il piacere del vestiario” è un perfetto esempio. Si tratta di un progetto basato sullo sviluppo di una struttura dettata dalle sensazioni e pertanto mutevole. È stato intrapreso nel 2008: spero di continuare a dedicarmi a esso senza trovare sulla mia strada ostacoli materiali — tempo e quantità sono parti del processo e pertanto ne determineranno l’efficacia.
PEM: Quando metti insieme alcuni pezzi del tuo lavoro nello spazio di una galleria, essi danno vita a installazioni scultoree che, credo, ricordino i palcoscenici. Queste installazioni sono, in definitiva, scenari costruiti in modo da indurre lo spettatore a percepire una narrazione soggettiva in risposta all’installazione. È una cosa voluta?
AR: Si tratta più di una presenza che emana un’essenza e suggerisce una possibile sequenza narrativa. Non è mia intenzione stabilire direzioni, ma piuttosto ipnotizzare lo spettatore e poi dargli un senso come possibile esistenza passata. Come nella fase finale del progetto “In posa”, dove la presenza diventa palpabile, svelata tra una coppia fotografica e un’installazione: elementi disposti in un singolo ambiente, vicini l’un l’altro, creano una situazione che sembra quasi estrapolata da un set cinematografico. Inizialmente il set è stato il palcoscenico per eventi di cui (ora) restano solo tracce: il materiale usato per la scenografia diventa l’installazione, e le fotografie quasi una sorta di testimonianza di chiunque sia passato attraverso di essa.
PEM: Puoi spiegarci il procedimento che sta dietro la realizzazione delle fotografie, che se non mi sbaglio sono solitamente foto di situazioni ricreate? Si tratta di un processo di produzione e preparazione — quasi un rituale che coinvolge anche il luogo in cui si svolge…
AR: Ho cominciato a scattare fotografie da bambina: mia madre mi regalò una macchina fotografica usa e getta, e mi ricordo quanto fossi meravigliata al primo sviluppo. Ho sempre visto il processo fotografico come una sorta di magia collegata alla vista umana, e avere in mano una macchina fotografica era come possedere una forza particolare. In seguito, dopo tante fotografie “spontanee”, è nato “Il Piacere” — un’avventura, in parte naïve, nella quale erano coinvolti vari amici. Uno di essi stava cercando di allestire una serie di foto di esterni, e così mi sono interessata all’esplorazione di luoghi adatti a essere incorporati all’interno dei miei soggetti. Andando avanti, mi sono resa conto che la mia attenzione era orientata verso la composizione, alla materia a cui potevo dare vita, sia intorno che su una particolare figura. Dopo i primi esperimenti, il mio approccio nei confronti della fotografia è cambiato. Non ho più tenuto in mano una macchina fotografica, tranne che in situazioni intime, allo scopo di fotografare scene particolari. Quello a cui sto lavorando oggi sono specifici set fotografici composti da sculture realizzate appositamente, o altre composizioni di materiale che vanno a formare un insieme successivamente immortalato da ogni scatto (queste foto sono presentate stampate in scala di 1 a 1 in relazione al set originariamente costruito in studio). Questo metodo è esso stesso fonte di una forza che può liberamente manipolare un istante della visione: un metodo che mi consente di elaborare un’immagine che dapprima era puramente immaginaria.
PEM: Credo che uno degli elementi più chiaramente percepibili nel tuo lavoro è la polarità di vulnerabilità e dissimulazione. Nel rendere lo spettatore consapevole che essi nascondono qualcosa, stai intenzionalmente provando a incoraggiare una riflessione sul lato nascosto delle cose?
AR: Immagino me stessa come una spettatrice distaccata, una che trova se stessa confrontandosi con l’imprevisto e cercando di renderlo concreto, interpretarlo e trasformarlo in realtà. Credo che questa sia una reazione naturale. Può una serie di allusioni essere disposta in modo da soddisfare la fondamentale necessità di comprensione? Mi piace immaginare la possibilità di stabilire un’intimità con l’osservatore.
PEM: Il senso di mistero nel tuo lavoro, il tono a volte oscuro a volte meraviglioso. Questo aspetto enigmatico è qualcosa che ho trovato seducente fin dalla prima volta in cui mi sono imbattuto in esso. Forse ho riconosciuto al suo interno qualcosa di arcano e di familiare che trovo impossibile definire in maniera appropriata ma che è in qualche modo parallelo alla mia indagine. Si tratta di qualcosa che proviene dai primi ricordi della tua vita? Voglio dire, la tua infanzia e il tuo passato oggi hanno un ruolo importante nel tuo lavoro?
AR: La sensualità della bellezza e il suo lato oscuro e selvaggio è un qualcosa che mi ha accompagnato durante i miei primi cinque anni, che ho trascorso sulle rive del Mar Baltico. Ho vissuto questa sensualità perdendomi nei boschi e negli occhi delle donne che piangevano che ho osservato mentre portavamo cibo sulla tomba di mio nonno. Ho fatto me stessa parte di un paesaggio pieno di senso di vuoto, ma incredibilmente connesso alle proprie tradizioni e leggende. Questo al contempo mi suggestiona e mi inquieta. Ci sono ricordi che vivono, e altri inconsci: essi sono connessi e oggi mi accompagnano nel mio lavoro. È un aspetto personale che non ha bisogno né di retorica né di ostentazione, ma che potrebbe forse essere compreso in tutta la sua profondità da un attento osservatore.