Giancarlo Politi: Caro Agostino, tu e il tuo lavoro rappresentate una consistente fetta di storia dell’arte della città di Milano e non solo. Amico e compagno di viaggio di Enrico Baj, Lucio Fontana, Enrico Castellani, ma anche di Emilio Villa. La tua prima apparizione ufficiale sulla scena milanese (a parte i tuoi esercizi di enfant prodige a tredici anni) risale al 1958, nella Galleria Pater. Chi erano i tuoi compagni di viaggio in quella avventura e in cosa consisteva la mostra?
Agostino Bonalumi: Per comprendere il significato di quella mostra alla Galleria Pater, è indispensabile risalire alle condizioni che si presentavano ai giovani che si affacciavano sulla scena artistica d’allora. Il progetto di una mostra nacque dall’incontro tra me e Piero Manzoni, propiziato da Enrico Baj — del quale eravamo all’epoca assistenti occasionali —, che pensava che insieme avremmo fatto molto: “due rivoluzionari uguali”, diceva. Fu l’incontro di due insoddisfazioni. E furono giorni, quelli con Baj, di amicizia e di creatività divertita. Sarebbe per me molto piacevole tornare a quei momenti. Ma non è questo il momento. Era il 1957. Manzoni operava nell’ambito di una figurazione in qualche modo incline al Surrealismo con accenti propri del movimento Arte Nucleare, capeggiato da Baj e Sergio Dangelo, con i quali, proprio al tempo del nostro incontro, aveva preso l’impegno di curare la redazione del terzo numero della rivista dei Nucleari, Il Gesto. All’interno della rivista, che sarebbe uscita con la copertina a “buchi” di Fontana, è pubblicata anche una mia opera, nonostante io non avessi alcun legame con i nuclearisti, dai quali del resto lo stesso Manzoni già meditava di staccarsi. Il distacco sarebbe infatti avvenuto a breve, come egli stesso comunicò in una lettera del 12 gennaio del 1959 all’amico Valentino, a Parigi, dove parla anche di una rivista che si chiamerà Pragma alla quale stava lavorando con Castellani e Bonalumi. Tra la fine dell’anno e la primavera del 1958 Manzoni aveva realizzato i suoi primi “quadri bianchi”, mentre io mi trattenevo in una posizione che definirei anarcoide anche se, pur negata, la radice “Informale” ancora affiorava. Si trattava di indumenti imbevuti di colori all’acqua, o smalti, o cemento che, affogati nell’unità finale dell’opera, erano ancora rintracciabili nella loro identità oggettuale. Sarebbero seguite tele sulle quali era steso, a mo’ di denso pigmento, del cemento e sul quale poggiavano fasci di sterpi o di paglia, rami d’alberi trattenuti alla superficie da brandelli di tela pure imbevuti di cemento. Erano continue messe a punto, nel fare e nelle idee. Due giovani artisti che per vie diverse giungevano alla constatazione di una sproporzione, nella necessità che assillava l’intuizione progettuale, tra aspirazione e quanto potevamo ricavare dallo stato attuale dell’arte, per fare un’arte che fosse “fare esperienza”. Intanto, era nata una forte amicizia. La mostra doveva essere a due, Manzoni e io, e fu concordata con Pater mentre nella galleria era allestita una “personale” di Manzoni. Si era avvicinata la data della mostra e, tra fare e rifare, fare e disfare, discutere e ridiscutere, le opere non c’erano, o almeno non ne avevamo a sufficienza. La soluzione la trovammo un giorno a un tavolo della trattoria All’oca d’oro, a Scaldasole, Milano. Mentre parlavamo della mostra davanti a un “bianchino” con il proprietario, Pino Pomé, ex pugile e grande amico degli artisti, di come condurla in porto assolvendo all’impegno preso, un tale che consumava una minestra ci chiese se eravamo pittori. Alla nostra risposta affermativa disse che anch’egli dipingeva e decidemmo di andare a vedere il suo lavoro. Erano dipinti informali, olio su tela, “un po’ alla Tobey” commentammo: era Castellani. Qualche giorno dopo pensammo, Manzoni e io, di risolvere il nostro problema ampliando la mostra, includendovi anche cose non proprio in linea con i nostri intendimenti, poco precisati anche a noi stessi, contro una certa volontà di fare strumentalmente scandalo. Fu così che con Lebel, Rumney, e Vereien chiedemmo a Castellani di partecipare.
GP: La Galleria Pater è stata un punto di riferimento per molti artisti a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Chi era Pater? Quale differenza comportamentale con i galleristi di oggi?
AB: Pater accettò di buon grado il cambiamento, a riprova della sua disponibilità verso i giovani. Era persona seria e dirigeva la sua galleria con attenzione e puntualità attenendosi alle cose ormai condivise dal pubblico senza scadere nel banale; era aperto ai tentativi giovanili con generosità. Quanto alla differenza di comportamento con i galleristi di oggi, non mi pare ci sia molto da dire. È cambiato il mercato; il collezionista è l’appassionato di sempre, ma più informato, l’informazione è più diffusa. Se prima c’era il provincialismo, oggi c’è un provincialismo mondiale. Letteratura dove sarebbe estetica e visualità, nichilismo più o meno involontario. Il mestiere del gallerista oggi è professionalizzato, ma alla fine, anche se cambiato, il gallerista è ancora un uomo. L’amicizia con Pater continuò nonostante le diversità che sarebbero poi diventate sostanziali, mentre io mi guadagnavo l’accusa di voler restare “pittore”. Quel che poi è stato dei tre artisti è storia di ciascuno, come storia di ciascuno sarà quel loro incontro. Escludendo, ahimè, per certi aspetti, successive forzature e fuorvianti omissioni. La giovane pittura si divideva tra Informale e Nuova Figurazione (mentre la Pop Art, almeno in Italia, doveva ancora approdare), l’Astrattismo appariva una figurazione geometrica, grammatica compositiva ormai. L’Informale appariva finalmente a noi come l’accademia della macchia: metti e togli e sovrapponi, fino a un qualche grado di fascinazione. La Nuova Figurazione era figurazione. Per noi l’opera diventava intenzione e cioè progetto; l’intelligenza dei materiali, piuttosto che il gusto della materia, il disegno piuttosto che il segno, la costruzione piuttosto che il gesto.
GP: Come vivevate allora? Come riuscivate a sostenervi?
AB: Il mercato era diverso, specialmente per un giovane artista: qualche amico, qualche piccolo collezionista. Per quanto mi riguarda facevo altri lavori, quello che capitava, anche turni di notte o orari di primo mattino per avere il tempo di frequentare l’ambiente milanese, le mostre, gli amici, come un giovane artista insomma. Castellani invece lavorava in uno studio di architettura. Quanto a Manzoni, aveva di suo.
GP: Hai fatto accenno all’opera Due chilometri di impronte. Ma era davvero lunga due chilometri? E da dove partiva e come si dipanava nella città? Di chi era stata l’idea?
AB: Fu cosa da me pensata e da me realizzata posando pezzi di carta e lasciando a intervalli qualche traccia di colore e di sporco lungo il marciapiedi di corso Sempione. La gente si scansava, qualche volta aderendo involontariamente al nostro invito. Il risultato fu che, tra le impronte, numerose erano le mie. Quanto ai due chilometri, non garantisco. Quando ancora eravamo in due, io e Manzoni pensammo, e mettemmo in atto, una mostra sui taxi di Milano coinvolgendo gli amici, con l’aiuto di un amico tassista.
GP: Torniamo alla mostra alla galleria Pater: come fu accolta? Ci fu un seguito?
AB: Nell’ambiente milanese fu accolta con un certo interesse, ma il pubblico, del resto scarso, si volgeva alle cose più “tranquille”. Vendite zero. Ne seguì la mostra “Bonalumi Castellani Manzoni” accompagnata da un piccolo catalogo con tre riproduzioni e presentazione di Leo Paolazzi, alias Antonio Porta, a Roma, presso la Galleria Appia Antica, per interessamento di Topazia Alliata. Fu l’occasione, per me e Manzoni, di frequentare l’ambiente artistico romano. Ci trattenemmo a Roma per tutta la durata della mostra, mentre Castellani non venne. Frequentavamo il “salotto” di Topazia dove facemmo conoscenza con Emilio Villa, con il quale mantenemmo i contatti, con Colla, Pupino Samonà, di Nivola e altri che ora non ricordo. Fu amicizia anche con Schifano, Festa, Angeli, che in quei giorni avevano una mostra da Liverani. Vennero poi le mostre a Milano alla Galleria del Prisma che, anche se non era una vetrina prestigiosa, era la sola ad aprirci le porte, dopo Pater. E trovammo favorevole accoglienza anche alla Galerie Kasper di Losanna.
GP: E Lucio Fontana? Parlaci del mitico Lucio. Che rapporto aveva con voi giovani e con il mondo?
AB: Con i giovani era generoso, sempre, qualsiasi forma di ricerca essi praticassero. Per noi tre poi era il maestro e l’amico e il suo studio per noi tre era sempre aperto. Un giorno venne a trovarmi in studio dopo che avevo appena terminato un’opera. Restavamo seduti trattenendoci in considerazioni sull’attualità dell’arte, su come si viveva, quando improvvisamente si alzò e andò a mettersi davanti all’opera: “Facciamo un cambio?”, mi disse. Per tutta risposta io fui solo capace di dire: “Fontana…”. “Quando vieni in studio scegli”, disse lui.
GP: Come era l’atmosfera della città allora? Chi erano, tra artisti, critici, collezionisti, galleristi, i protagonisti della scena artistica?
AB: Si avvertiva ancora la volontà di ricostruzione, la serietà nell’impegno, lo spirito d’iniziativa, l’imprenditorialità, la presenza operaia che oggi non vediamo più, così come la vivacità della vita culturale nonostante le difficoltà. Quanto agli artisti, se si tralasciano i nomi allora ancora dominanti, penso a Fontana, Munari, Melotti; Crippa, Dova e Baj, agli scultori Fabbri, Minguzzi, Somaini, Cavaliere, Arnaldo e Giò Pomodoro. I critici potevano essere i Dorfles, i Ballo, i Russoli, i Valsecchi, mentre tra le gallerie vanno ricordate Naviglio, Annunciata, Bergamini, di lunga tradizione, e poi Blu, Schwarz, Marconi di nascita più recente che, con il Centro San Fedele, si occupava dei giovani.
GP: Tempi di carestia ma anche di entusiasmi e spinte ottimistiche. Come spieghi quei tempi di grande carica con lo sfinimento di oggi?
AB: Ho già detto del clima d’allora, di Milano e dell’Italia. C’era da stare dritti in piedi, oggi invece si sta seduti. Tornando a Milano, tra la rinascente e nascente imprenditoria, e la borghesia delle professioni, il collezionismo dava respiro alle gallerie e agli artisti. E c’erano le cosiddette “grandi famiglie” milanesi che, insieme all’amministrazione cittadina, davano sostegno nella realizzazione delle splendide grandi mostre che il costituito Ente Manifestazioni Milanesi andava proponendo. Milano ha avuto grandi sindaci, appassionati, premurosi della vita culturale della città, anche nell’incontro tra istituzioni e iniziativa privata, senza confusione di interessi. Oggi purtroppo siamo lontani dalla passione e dai sani entusiasmi di allora. Ritornare adesso a quei giorni, alle condizioni, a quando si intrecciavano gli entusiasmi, è come amare le vette degli ottomila da una piattezza desolante.
GP: Tu hai fondato assieme a Manzoni e Castellani la rivista Azimuth, ma hai partecipato anche alla rivista di Emilio Villa, Appia Antica. Quali le differenze tra le due riviste?
AB: Si tratta della rivista della quale Manzoni fa cenno nella lettera, come ho già detto, all’amico Valentino, e che da Pragma diventerà Azimuth proprio nei giorni della mia separazione dai due amici, accusato di voler restare “pittore”. Accusa che, per come la pensavo io, andrebbe chiamata constatazione. Quanto alla collaborazione ad Appia Antica — che Emilio Villa propose a me e a Manzoni in occasione del nostro soggiorno a Roma per la mostra alla Galleria Appia Antica, e da lui sollecitatami con una lettera — si fermò alle intenzioni.
GP: Ed Emilio Villa? Come si presentava, rispetto alla più paludata critica milanese di allora (Valsecchi, Kaisserlian, ecc.)?
AB: Paludata?… Mah! In confronto a Emilio Villa erano critici che facevano i critici, essendo lui un critico che non faceva il critico. Era l’intellettuale appassionato, l’amico degli artisti, egli stesso artista, poeta sperimentalista. Quello che pensava dei critici poi me lo disse, con significato di ammonimento, in una lettera del 13 giugno 1959: “Ricordati che i critici sono la merda”. Comunque, per noi giovani artisti a Milano che rispondevano alle chiusure con lo sberleffo, avremmo gradito una qualche attenzione da parte della critica: chissà, forse avremmo conquistato anche l’interesse di qualche gallerista o collezionista. In generale, verso di noi la critica era pollice verso. Tranne Gillo Dorfles, da subito interessato ai nostri tentativi. Come pure avevamo l’attenzione di Guido Ballo e Franco Russoli, ma in maniera meno convinta. Poco prima della sua scomparsa ho avuto la fortunata occasione di una collaborazione con Emilio Villa per la realizzazione di un libro d’artista dal titolo Ridente SILLABA, con introduzione di Aldo Tagliaferro, per Edizioni Colophon, Belluno.