Giancarlo Politi: La tua prima mostra risale al 1961, in piena atmosfera Informale, alla Galleria Pater di Milano. Cinquant’anni di lavoro, ricerca, di successi e delusioni. Riguardando una tua opera di allora e una di oggi, come descriveresti e interpreteresti la trasformazione avvenuta? Che tipo di lettura daresti?
Agostino Ferrari: Sì, nel 1961 Giorgio Kaisserlian presentò la mia prima mostra personale da Pater, dove con grande piacere conobbi Lucio Fontana, che lì aveva da poco esposto alcune ceramiche. È difficile confrontare una mia opera di quel periodo con il lavoro attuale perché in mezzo secolo di ricerca sono passato da un orizzonte carico di emozioni intimiste a un panorama esplicito e conoscitivo che dagli anni Settanta a oggi ha cambiato completamente il mio approccio. La svolta fondamentale è giunta, però, nell’84 ed è rappresentata dagli “Eventi”. Con gli “Eventi”, mi è stato tutto improvvisamente molto chiaro: non c’era più dualismo tra il fare e l’essere. È stato un momento di coesione, di sintesi. Prima pensavo all’opera come a qualcosa di distaccato, di diverso da me, il mio atteggiamento era quello di operare sulla tela; dopo è stata la tela stessa che mi ha suggerito che cosa fare. Lì ho trovato un punto di equilibrio, e in un certo senso un traguardo, un punto d’arrivo. Nel decennio precedente avevo fatto esperienze d’arte concettuale, dopo l’84 ho per certi versi ritrovato il modo in cui lavoravo negli anni Sessanta, ma privo di quell’intimismo che caratterizzava la ricerca di allora.
GP: Tu hai avuto una partenza artistica legata all’eredità di Piero Manzoni e al mitico mondo milanese di “Cenobio” con Angelo Verga, Ettore Sordini, Ugo La Pietra, Arturo Vermi e il poeta Alberto Lucia. Mi pare però che il sodalizio con i tuoi compagni di viaggio durò poco. Come mai si sciolse un gruppo formatosi con le migliori intenzioni?
AF: Per quel che concerne i miei inizi, il riferimento a Piero Manzoni è fuorviante e quasi privo di senso. Io sono, infatti, partito scommettendo sulle potenzialità ancora inespresse dell’immagine, mentre l’opera e ancor più le teorizzazioni di Manzoni tendevano ad azzerarla. Eravamo amici, apprezzavo la sua opera, ma per me rappresentava piuttosto un limite e al contempo uno stimolo per una costruzione nuova e diversa dell’immagine. In questo senso, la mia posizione era agli antipodi rispetto alla sua e la mia ricerca andava in una direzione opposta perché credevo nella possibilità di comunicare attraverso l’immagine. Quanto al Cenobio e alla sua durata, il problema è che tutti i gruppi che si formarono allora ebbero vita brevissima: un sodalizio significativo come Azimut, per esempio, durò all’incirca sei mesi. Il Cenobio non fece eccezione, ma la durata ufficiale non deve essere confusa con l’influenza profonda di quelle esperienze e sulla coerenza di quelle proposte. Quando, nel 1962, fondammo il Gruppo del Cenobio, ciò che ci proponevamo era realizzare un’immagine minimale che potesse ancora difendere i valori pittorici, contrariamente a quanto una parte consistente del mondo artistico di allora sosteneva. E, sotto questo profilo, è evidente il legame con Fontana, assai più che con Manzoni. In otto mesi il nostro gruppo realizzò cinque mostre al Cenobio ed espose a Firenze e a Brescia. Poi decidemmo di scioglierlo, ma non a causa di divergenze di natura artistica. Anzi, le intenzioni e le finalità che ci avevano spinto a unirci hanno, infatti, continuato a guidare negli anni i nostri rispettivi lavori. Ci siamo sempre confrontati uno con l’altro, e anche dal punto di vista operativo ci siamo trovati spesso a esporre assieme, dagli anni Settanta a oggi. Ricordo in proposito: nel 1975 la mostra alla Rotonda della Besana; nel 1987 l’iniziativa del Centro Culturale Bellora con la presentazione di Angela Vettese del libro Milano et Mitologia; l’esposizione “Percorso-Ricerca-Ipotesi” nel 1995 a Palazzo Martinengo (BS), che è poi proseguita a Milano alla Galleria Artestudio e a Livorno alla Galleria Peccolo; nel 1997 la mostra “Cenobio e Nuova Scrittura” alla Städtische Galerie di Wolfsburg con il patrocinio dell’Istituto Italiano di Cultura; nel 2010 la retrospettiva “Il segno del Cenobio” organizzata dalla milanese Galleria Artestudio. E ora, per la primavera del 2013, in occasione del 50mo anniversario, la Fondazione Stelline proporrà, curata da Luciano Caramel, un’esposizione molto significativa e completa sul Gruppo del Cenobio.
GP: Qual era il panorama dell’arte milanese di allora? Chi c’era? Quali erano gli artisti più in vista e propositivi, i critici, le gallerie?
AF: In Italia, all’epoca, le correnti artistiche principali erano il Realismo sociale e l’Informale. Nei confronti del primo non sviluppai mai alcun vero interesse. Mentre nei miei primi lavori si poteva notare un’influenza “informale-naturalistica”, frutto degli incontri con Guenzi, Bionda, Chighine e Vermi. Tutto, però, cambiò quando nel 1961 iniziai a frequentare lo studio di Lucio Fontana. Ma era l’intera scena artistica milanese a vivere un’atmosfera di cambiamento e un’apertura molto marcata alla sperimentazione. Tra il 1950 e il ’59, il movimento Nucleare, che aveva avuto come promotori D’Angelo e Baj, e attorno al quale si era agglutinato un folto gruppo di pittori, rappresentò una svolta importante per Milano e un forte stimolo per i giovani più curiosi. I nuovi gruppi si moltiplicarono, inserendosi tra i due poli di attrazione costituiti da Fontana e Munari. All’interno si distinguevano artisti che avevano spiccate personalità e attitudini alla ricerca e alla sperimentazione: c’erano Balocco, Manzoni, Castellani, Dadamaino, Alviani, Mari, Scheggi, il Gruppo T e il Gruppo del Cenobio. Ora, tutti questi artisti erano gli elementi maggiormente propositivi anche sul piano concettuale. Non può, comunque, essere sottovalutata l’influenza e la funzione di critici come Guido Ballo, Russoli, Kaisserlian, Valsecchi, Caramel. Tra le gallerie, le più aperte alla sperimentazione e alle nuove leve erano senza dubbio la Galleria Pater, il Naviglio, la Galleria Ariete e quella di Guido Le Noci: facevamo tutti le mostre lì.
GP: Tempi duri, durissimi allora, dal punto di vista economico. Eppure non mancava l’entusiasmo e l’ottimismo. A causa dell’età oppure le prospettive vi apparivano promettenti? In cosa speravate o cercavate voi?
AF: L’orizzonte, veramente entusiasmante, che ci accomunava pur nella diversità delle sensibilità e ricerche è che tutti noi pensavamo di partecipare a una sorta di grande progetto di alfabetizzazione riguardante l’arte contemporanea. Questo entusiasmo non ci faceva pensare ai problemi materiali. Erano, poi, anni di grandi fermento e giungevano novità e stimoli da tutte le parti del mondo. L’arte e le discussioni intorno a essa costituivano un canale privilegiato del bisogno di esprimersi e comunicare delle giovani generazioni, un argomento e al contempo un veicolo della socialità. È persino ovvio constatare come attualmente le tecnologie digitali e i social network, rendendo più facile e immediata la comunicazione tra milioni di giovani, abbiano molto ridimensionato l’importanza e la funzione dell’arte sotto questo profilo. Ma in quegli anni la ricerca artistica svolse un ruolo essenziale e chiaramente percepito.
GP: Quali sono stati i compagni di viaggio più vicini e più fedeli per te o tu per loro? E quelli che ti hanno maggiormente influenzato o interessato?
AF: A parte il gruppo da cui prende origine il mio lavoro, Arturo Vermi è stato un pittore che ho frequentato per più di vent’anni e con cui ho realizzato numerosi progetti di lavoro comune. Dopodiché, per la duratura e fondamentale influenza che ha esercitato sulle mie opere, Fontana, nei cui confronti ho avuto sempre grande stima e che considero il mio maestro elettivo reale. Con Turcato, poi, ho avuto una lunga e forte amicizia, che è durata fino a che lui è rimasto in vita. Era una persona molto divertente e culturalmente molto vivace, un critico acuto. Ma, sul piano della ricerca artistica, avevo già in testa molte idee nuove, per lo sviluppo delle quali era decisiva l’uscita dall’Informale. Altro artista per il cui lavoro ho sempre nutrito grande interesse è Enrico Castellani. A Bonn nell’84 abbiamo fatto anche una mostra assieme: sei opere ciascuno intorno all’intrigante tematica “con la tela e sulla tela”.
GP: Sei stato amico e frequentatore di Piero Manzoni. Com’erano i rapporti con lui? E chi c’era vicino a lui, oltre a te?
AF: Piero Manzoni aveva una grande capacità comunicativa ed era amico di moltissimi artisti. Quelli più vicini a lui erano Nanda Vigo, Castellani, Bonalumi, Dadamaino, Fontana. Tra gli artisti milanesi, pur essendo molto giovane, era il più internazionale e, oltre ad avere posto con piglio provocatorio numerose problematiche intellettuali intorno al fare artistico, è stato spesso il tramite con cui sono giunti sulla scena milanese i primi dettagli di molte esperienze europee di quegli anni. Ma, per quanto riguarda il lavoro, la mia ricerca si è svolta piuttosto in un confronto serrato con le sue teorizzazioni, in direzione — come ho accennato — di una possibilità dell’immagine, che lui invece concettualmente e fattualmente negava.
GP: Un tuo compagno di viaggio “speciale” è stato Enrico Castellani. Analogie e differenze tra Castellani e Manzoni.
AF: Castellani è senza dubbio un artista che ha fatto scelte molto innovative e radicali nel suo lavoro, ma non si è mai posto il problema della “fine della pittura”. Quel suo intenso intervento sulla tela lo rende in modo del tutto originale un “pittore”, un artista nell’accezione classica della parola. Ho, invece, sempre considerato Manzoni più un filosofo prestato all’arte che un pittore in senso proprio: stimolante per i dubbi e gli spunti che seminava sul percorso di noi artisti.
GP: Chi erano i collezionisti importanti di allora? Cosa comperavano e come si comportavano con voi?
AF: In quel contesto di “alfabetizzazione” nei confronti dell’arte contemporanea, ognuno doveva inventarsi i propri collezionisti, si partiva dagli amici per poi coinvolgere gli amici degli amici… Era un aspetto altrettanto fondamentale della ricerca artistica vera e propria. Un lavoro pionieristico che ha sedimentato in città un pubblico curioso, attento e ricettivo nei confronti delle novità dell’arte. Accanto a questo gruppo di giovani neofiti, c’erano alcuni collezionisti molto sensibili e aperti ai lavori di noi giovani artisti: ricordo Baciocchi, Panza di Biumo, Moglia, Laurini, Lorenzin. Il loro contributo è stato essenziale per fornire un minimo di base materiale a quanto si andava sperimentando in città.
GP: Il tuo lavoro si è sviluppato nella direzione che tu hai sperato, oppure ti saresti aspettato di più? Hai qualche rimpianto?
AF: Nessun rimpianto, quello che mi ero riproposto accostandomi al lavoro artistico è quello che ho realizzato.
GP: Più difficoltà oggi a proporre e imporre il lavoro dell’arte o agli esordi? Meno concorrenza e più solidarietà allora?
AF: In quegli anni c’era una maggiore solidarietà tra gli artisti, perché ci si frequentava tutti e si facevano anche tavolate di dieci, quindici pittori tutti assieme, cosa rarissima oggi. E poi c’erano dei luoghi di riferimento (il Giamaica, Titta) dove, passando intere giornate a parlare con altri artisti, architetti, o poeti, ci si poteva confrontare anche con persone che arrivavano dall’estero, perché in quel momento Milano era un centro d’attrazione. Ed era nettamente più facile trovare affinità tra le singole esperienze, organizzarsi in gruppi artisticamente omogenei, dar vita a “manifesti”. Oggi, la moltiplicazione delle tendenze, l’inserimento delle nuove tecnologie e dei nuovi media nel mondo dell’arte, hanno fortemente frantumato un panorama italiano e internazionale che, ancora alla fine degli anni Settanta, appariva riconducibile a poche, fondamentali correnti. Tutto ciò non giova sul piano della solidarietà umana e soprattutto intellettuale: scorgo tra i giovani artisti grandi difficoltà a ritrovarsi sulla base di linguaggi comuni e condivisi. Questo pregiudica anche la loro capacità di imporsi collettivamente sulla scena in modo significativo.