Yongwoo Lee: Mi piacerebbe cominciare parlando di come entrambi abbiamo concepito l’arte contemporanea in quanto risposta alle urgenze sociali e alle rivendicazioni critiche. Abbiamo lavorato insieme molte volte, ma non abbiamo discusso a fondo sui nostri obiettivi e le influenze socio-politiche e artistiche. Questo probabilmente perché abbiamo entrambi capito le circostanze che affrontiamo a casa e all’estero e così condividiamo un’idea di ciò che si suppone essere arte. Hai mai provato a influenzare la società con la tua arte?
Ai Weiwei: Non dovrebbe essere difficile definire il ruolo dell’arte nella società, come tu dici. L’arte è qualcosa di vivo, e respira attraverso la società. L’arte dovrebbe essere in grado di parlare alle urgenze sociali e alle richieste critiche, ma non perché l’arte è politica o sociale, ma perché è socialmente nitida e viva. Come gli artisti, coloro che comprendono l’arte sono pochi. Il circuito dell’arte non è grande, e non si sta espandendo ad ampio raggio. Ho cercato di trovare nuove tendenze e possibilità nella comunicazione su Internet. Ecco come sono diventato “Ai Weiwei” dal momento che in Cina per me non è possibile esporre, e fare il mio nome sui quotidiani o sul web in Cina è quasi impossibile. Scherzo dicendo che, se qualcuno mi facesse una foto di spalle e la mettesse sul sito cinese Weibo, sarebbero identificati dal governo, ne sono sicuro. È molto interessante. Diventa una metafora — ovvero vedi come la società oggi ha paura delle immagini. Perché certe cose devono essere cancellate? Così le persone cominciano a fare discorsi dicendo che non mi supportano o capiscono quello che dico, o addirittura si preoccupano. Ma continuano a chiedermi: perché questo ragazzo non può stare su Internet? Naturalmente, nessuno mi farà domande come questa, quindi l’interrogativo rimarrà. Per questo voglio sempre tenere a mente il nuovo potenziale della rete, penso sia molto valido. Ma allo stesso tempo, mi dà tanti problemi perché è influente e più grande di me. Comincia a odiarti e pensare che sei terribile.
YL: Hai vissuto a New York per dodici anni, dal 1981 al 1993. Come hai trovato cambiata la Cina durante gli anni della tua assenza? E come è cambiata durante i venti anni in cui hai vissuto a Pechino?
AW: Penso che le differenze principali nella società cinese, in relazione alla mia esperienza, hanno coinvolto una persona — il suo nome è Ai Weiwei. Egli era determinato a fare un cambiamento nella società e ci è quasi riuscito. Ho provato a essere una parte reale della nuova generazione Internet. Yongwoo, noi apparteniamo a una generazione leggermente più vecchia, ma siamo già parte della generazione Internet. Stiamo facendo alcune differenze attraverso questo scambio di informazioni molto essenziale.
YL: Dal tuo ritorno in Cina, credi di aver fatto un concreto cambiamento nella società cinese attraverso Internet? Credi in una democrazia elettronica?
AW: Io cerco di lavorare su questioni molto dettagliate e specifiche che possono più facilmente coinvolgere tutti, e in cui ognuno crede di poter essere giusto o sbagliato, vero o falso, finto o reale. Trascorriamo così tanto tempo sul web ogni giorno e vediamo il mondo che comincia a cambiare. Le persone sono più libere perché possono accedere facilmente alle informazioni. Hanno una visione più equilibrata e così possono esprimere giudizi e fare scelte indipendenti. Tutto questo sta accadendo, è questo il cambiamento. Un altro cambiamento è che la Cina è diventata più ricca. Questo ha prodotto una società sbilanciata in molti aspetti. Le tematiche ambientali e gli scandali della corruzione sono diventati problematici a ogni livello. La ricchezza sbilanciata distrugge la cultura e produce molti altri problemi. Molte crisi vengono da esiti inaspettati.
YL: Cosa pensi della censura e del controllo sull’informazione in Cina? È ancora rigida o è migliorata? Hai preso in considerazione la posizione del governo?
AW: In Cina ci sono polizie che controllano il flusso di informazioni. C’è un grande dipartimento chiamato Dipartimento Propaganda che appartiene al Partito. Ho realizzato che né i media né le persone potevano trovare il nome “Ai Weiwei” o articoli su di lui. Non mi criticano neppure, perché il nome stesso è proibito. Per questo non ci sono articoli che mi criticano, il che è molto strano. Dopo sessanta anni di costituzione di questa nazione, mi hanno accusato di frode fiscale, e si tratta di semplici parole, vero? Se qualcuno distrugge una macchina o ruba qualcosa, nessuno ne scrive niente, invece questo è considerato un crimine maggiore. Nel mio caso, puoi vedere chiaramente come controllano il flusso di informazioni. La censura è forte. Sono circa 100.000 nella “polizia di Internet”, che sono online solo per eliminare o distorcere informazioni. Ma la Cina sta mandando ancora centinaia di migliaia di studenti a studiare fuori. Lo scorso anno hanno mandato quasi 170.000 studenti del liceo da famiglie private nel 2005, hanno inviato 65.000 studenti negli Stati Uniti.
YL: Una volta mi hai parlato della tua infanzia e del rapporto che avevi con tuo padre, Ai Qing, noto poeta, e in particolare il suo isolamento dalle autorità di Pechino. Pensi che questo abbia influenzato il tuo rapporto con la Cina?
AW: Mio padre aveva studiato arte a Parigi. Era un bravo artista e se avesse continuato sarebbe stato uno dei migliori artisti in Cina. Molti artisti che erano della stessa generazione lo sapevano. Ma un giorno, dopo esser tornato a casa, fu messo in prigione e qui divenne un poeta. Un poeta molto famoso. Mi ha influenzato, sento che mi ha trasmesso dei valori. Sono stato indurito e coinvolto in battaglie politiche fin da quando sono nato, un periodo di grandi turbolenze politiche.
YL: Che sconvolgimenti politici c’erano?
AW: Mi rendo conto di quanto mio padre fosse saggio. Amava l’arte e la poesia, e sono sicuro che lo avevano aiutato in un periodo molto difficile per la sua vita. Questo ha influenzato me e i miei fratelli durante la nostra infanzia. Mi rendo conto anche di quanto sia stato capace di sopravvivere alla difficile situazione di dover fare le pulizie nei bagni pubblici. Era stato costretto — e i bagni erano un sacco, non uno solo. Erano circa trenta e situati in un’area rurale, molto povera. Mi ricordo che era molto sporco.
YL: Dove eravate? Nella campagna più sperduta?
AW: Sì. Faceva bene il suo lavoro. All’inizio avevamo vergogna del lavoro di nostro padre, che puliva toilette 205 giorni all’anno. Ci disse: “Sai, ho sessant’anni. Non sapevo chi pulisse il mio bagno prima”. Era un uomo che faceva bene il suo lavoro. Non aveva mai fatto alcun tipo di lavoro fisico, da quando era uno scolaro. Ma fece uno sforzo simile per rendere ogni posto pulito, metterci sabbia asciutta, pulire tutti gli angoli. Fece di questi bagni un ambiente molto pulito, fresco. Le salviette sono una nuova invenzione, prima non c’era nulla per pulirsi. Non potevano neanche utilizzare vecchi giornali da quando gli slogan del Comandante Mao erano pubblicati in copertina. Se usavi i giornali, venivi considerato un contro-rivoluzionario. Sono cresciuto in una società assurda. Non ho parlato spesso con la mia famiglia o con mio padre — in un certo senso volevo cancellare le loro storie dalla mia vita. Quando sono stato arrestato, ho pensato che le loro storie potevano ancora essermi d’aiuto nei momenti bui. Anche mio padre è stato in prigione per anni e lui era una persona molto diretta.
YL: È una storia molto forte e toccante. Ritorniamo all’arte però. La tua presenza in Europa alla Biennale di Venezia nel 1999 e a Documenta 12 è stata importante. Ma i semi di girasole alla Tate nel 2010 hanno conquistato un forte e immediato riscontro. Come ti spieghi questo successo? Ti consideri un artista famoso?
AW: Io credo di essere popolare, ma la mia popolarità è strana. Leggo di me sui giornali, ma non è una cosa reale. Cerco di starne fuori. Quando cammino nello studio devo controllare se qualcuno mi sta seguendo, e se porto mio figlio al parco penso che qualcuno possa essere tra i cespugli a scattare foto, in particolare la polizia segreta. È assurdo. In Cina, non si può pronunciare il mio nome, ma quando cammino per la strada a volte mi si avvicinano dei giovani e mi chiedono di fare una foto o mi stringono la mano e mi dicono che mi stanno supportando. Questo genere di popolarità può esistere in Asia fino a un certo punto, ma viene principalmente dagli Stati Uniti. Spesso dico alla polizia: “Ragazzi, non dovreste fare questo, non fa che rendermi più famoso”. Io sono troppo famoso, e sono sempre sul giornale. Dovrei essere solo un artista, fare il mio lavoro. Non sono neanche un buon artista. Sono solo un artista.
YL: Dici di non essere un buon artista? Cosa rende un artista buono o cattivo?
AW: Non so cosa sia un buon artista. Non so se sia fortunato o sfortunato. Credo che ci siano tutti i tipi di lavoro, attività o pratiche, ma l’arte è l’unica cosa che è ovunque. L’arte è veramente in grado di formulare un dialogo e connettere parti diverse della società. Mi piace giocare con la densità di informazioni e con gli stimoli. Intrepretare solo un ruolo mi sta stretto. Mi piacerebbe interpretare diversi ruoli, essere consapevole della situazione è ciò che fa di me quello che sono oggi.
YL: Un interessante aspetto del tuo lavoro è che si è sviluppato come parte dell’architettura del design, per esempio la tua collaborazione con Herzog & de Meuron per costruire lo stadio e con Norman Foster per l’ampliamento dell’aeroporto di Pechino. È stato sempre attraverso l’architettura e il design che è cominciata la tua collaborazione con la Biennale di Gwangju, dove sei diventato co-direttore della sezione design nel 2011 e hai creato il Gwangju Folly Project, co-curato con Seung H-Sang. Come hai trovato il nostro metodo di lavoro quando ti sei unito al nostro team? È come è stata la tua prima esperienza a dirigere una Biennale?
AW: Norman Foster, per esempio, non lo conoscevo bene. Ho documentato il suo progetto solo attraverso fotografie, ma per me era una cosa interessante perché nessuno lo faceva. Quando ho proposto di fotografare l’intero processo, lui è rimasto abbastanza sorpreso. La sua arte è strettamente legata alla fotografia, e infatti ha detto che era una buona idea. Avevamo bisogno del suo supporto per entrare in questi luoghi perché c’era la sicurezza. Ogni volta che andavamo dicevano di aprire le porte per noi; erano molto disponibili. Anche lo stadio, che ho realizzato in collaborazione con Herzog & de Meuron dall’inizio alla fine, sono sicuro nessuno voleva documentarlo. Così vengono fuori molte opportunità, molte cose che possono essere fatte da ogni direzione. È molto interessante per me che le persone corrano sempre da ogni parte senza alcuna attenzione. Sai, non devi fare alcuno sforzo; se vuoi puoi semplicemente stare fermo, e riesci lo stesso a fare dei progressi. Non devi correre, ma nessuno ci crede. Sembrano tutti correre nella stessa direzione. È difficile dire questo ai giovani, l’istruzione rovina tutto perché dice che tutti devono correre e correre per arrivare da qualche parte. Il problema è che le persone non hanno pazienza. Come diceva Kafka, l’impazienza è un peccato. Per questo quando abbiamo cominciato a progettare, ho pensato che sarebbe stato meglio documentare il processo di costruzione dello stadio, che sarà visto da tutti, ma nessuno sa né si preoccupa di come è stato costruito. Così abbiamo documentato onestamente, mandando le persone fuori a documentarne l’evoluzione. Siamo arrivati con una serie di… forse dovremmo chiamarle opere. Sono solo autentiche testimonianze. Quando metti la sincerità nell’arte, ti chiamano attivista.
YL: Alcuni hanno notato che parte del tuo lavoro riflette la purezza artistica della tradizione cinese e i suoi rigidi valori, che richiedono letture multiple dato che si riferiscono a tematiche provocatorie e a pressioni sociali. Come vedi il rapporto tra questi due differenti aspetti del tuo lavoro?
AW: Io penso che se prendiamo in considerazione le diverse tematiche dell’arte, da una parte esse riguardano le nostre memorie e dall’altra parte i nostri sogni. Con i nostri ricordi cerchiamo di capire chi siamo e da dove veniamo. Con i nostri sogni cerchiamo di raggiungere una condizione che vince su quello che oggi non ci soddisfa. Per questo l’arte contemporanea non è semplice; riguarda la comprensione di quello che pensiamo — la nostra sensibilità umana o intelligenza — ed emerge con una sorta di manifesto. Sai, ogni lavoro ha un manifesto. Penso che è così che lo descriverei.
YL: Quello che voglio dire è che molti dei tuoi lavori sono strettamente collegati alle tradizioni della Cina, come le porcellane e i mobili.
AW: Sono molto affascinato dal comportamento della nostra nazione. Penso che tutte le opere d’arte sono il prodotto di una cultura cosiddetta materiale, la sua estetica e linea morale. È affascinante, la vita e la storia di questa cultura, come la sua gente è sopravvissuta agli alti e ai bassi, e come essi sono diversi dal resto del mondo. Penso che tu impari qualcosa solo lavorando con essa, così ho cominciato a collezionare lavori. Ho cominciato smontandoli e rimettendoli assieme, sistemandoli in nuovi modi per provare a interpretarli con la loro logica ma utilizzando forme contemporanee. Alcuni dei miei lavori sono abbastanza casuali.
YL: Hai partecipato alla Biennale di Venezia di quest’anno con altri tre artisti all’interno del Padiglione tedesco curato da Susanne Gaensheimer. Puoi raccontarci di questo progetto?
AW: Siamo in quattro a esporre nel Padiglione tedesco che, in realtà, è il Padiglione francese. Uno è tedesco, ma gli altri due no. Due artisti sono fotografi, molto interessanti. Il curatore mi ha chiesto di fare un’installazione, così ho lavorato con temi tradizionali e realizzato una grande installazione, un nuovo lavoro.
YL: Cosa ne pensi di questa idea di “scambiarsi” i Padiglioni?
AW: Credo sia una buona idea. Credo che utilizzare il concetto di nazionalità sia in un certo senso anacronistico e che l’idea dei padiglioni nazionali sia vecchia. Forse potrebbero semplicemente nominare un curatore nazionale per l’organizzazione della mostra, ma anche questo forse non è necessario.
YL: Hai ancora delle restrizioni per viaggiare. Come farai per le inaugurazioni dei tuoi nuovi progetti? Potresti mandare qualcuno al posto tuo, un assistente o qualcuno della tua famiglia.
AW: Ci devo pensare. La polizia non mi permette di lasciare il paese. Dovrei provare a fare un accordo con loro: “se mi permettete di andare, starò buono. Se no, farò del casino”.
YL: Oltre alla Biennale, hai realizzato un altro progetto per la Giudecca. Di cosa si tratta?
AW: Questo progetto è molto delicato. Ha a che fare con la mia detenzione. Tutti vogliono sapere cosa mi è successo durante i miei 81 giorni di custodia. Non potevo affrontare tematiche così delicate per il Padiglione tedesco. Se non rivelo quello che mi è accaduto, dovrò affrontare molte domande.
YL: E quali sono gli altri progetti?
AW: Ci sono un paio di progetti negli Stati Uniti e in Europa di cui si sta discutendo. Saranno svelati presto.