Simone Menegoi: “Lost Cinema Lost” è una doppia personale ospitata dalla Galleria Civica di Modena in cui Runa Islam presenta quattro nuovi video e Tobias Putrih due grandi installazioni. Ma è soprattutto un esempio di collaborazione: le installazioni di Tobias sono spazi di proiezione concepiti per ospitare i film di Runa. Di chi è stata l’idea e come è maturata?
Runa Islam: È stata una mia idea, ma la sua realizzazione si deve in gran parte a Milovan [Farronato, il curatore della mostra, ndr]. Mi avevano invitato a fare una presentazione di lavori in un momento in cui stavo già cercando di riconsiderare le modalità di presentare i video e i film. Mi domandavo che senso avesse realizzare un altro spazio grigio o nero a forma di scatola nell’ambito di una forma d’arte che a un certo punto ha radicalizzato o sovvertito essa stessa l’idea di uno spazio espositivo reificato. Quando all’ultima Biennale di Venezia ho visto il cinema costruito da Tobias sull’isola di San Servolo, ho apprezzato il fatto che avesse rinunciato in parte al controllo (sull’opera) attraverso la decisione di non esercitare alcun condizionamento sui film che presentava all’interno dello spazio di proiezione. A Modena Milovan mi ha permesso di curare la mostra, e io in un certo senso gli ho restituito i compiti del curatore; l’aver dato poi carta bianca a Tobias ha significato permettergli di curare o creare il mio spazio. Mi piace pensare alla mostra come a un punto d’incontro di tre strade in cui confluiscono le idee di tre persone, in grado di dare al modello espositivo un aspetto rinnovato.
Tobias Putrih: In effetti è stata una piacevole sorpresa incontrare un filmmaker non ossessionato dal “black box”. Qualche anno fa, dopo un paio di esperienze negative, avevo quasi rinunciato all’idea di costruire spazi di proiezione per altri artisti. Gli artisti non sopportano l’idea che una persona metta sotto sopra il loro prezioso lavoro. Lo ammetto, la relazione tra opera d’arte e allestimento espositivo non è semplice, soprattutto se l’allestimento pretende di essere esso stesso un’opera d’arte. Ma a Runa è andato bene tutto, quasi non ci credevo! C’è anche da dire che quando installo progetti di questo tipo, l’improvvisazione gioca un ruolo importante, e fino all’ultimo nessuno può realmente sapere quale sarà il risultato finale. C’è stata collaborazione, ma soprattutto molta fiducia.
SM: (a Tobias) So che prima sono venuti i film (nonostante non fossero ancora finiti hai potuto vederne una prima versione grezza) e poi i padiglioni. Puoi descrivere il processo con cui hai deciso di creare due diversi padiglioni?
TP: Lo spazio espositivo della Galleria Civica ha un carattere forte e complesso. Io e Runa ci siamo quindi trovati d’accordo nel manipolare la percezione del visitatore rispetto all’architettura esistente: i visitatori entrano attraversando corridoi e spazi chiusi che lentamente si aprono nello spazio espositivo, dove si imbattono in un’altra struttura, ancora più aperta e autonoma.
RI: Durante la realizzazione della mostra chiamavamo gli spazi di proiezione “struttura A” e “struttura B”.
SM: Qual è la struttura A?
RI: Quella che attraversi entrando, e che contiene per la verità tre spazi separati. Nell’ultimo di questi è proiettato il film What Is A Thought Experiment, Anyhow? La struttura B è invece fatta da un’impalcatura e ospita la proiezione di Cinematography.
SM: Quindi lo spirito di ciascun padiglione è in sintonia con lo spirito dei rispettivi film?
TP: Sì. In Cinematography gli scarti tra i morbidi movimenti della cinepresa e le rapide zoomate avanti e indietro modulano le dinamiche cruciali del filmato. Il film contempla passaggi e spostamenti ripetitivi e ho pensato che la mia struttura dovesse seguire le stesse linee guida. What Is A Thought Experiment, Anyhow? è invece più complesso, di sicuro non lineare. La mia impressione è che giri attorno a idee molto astratte sulla fragilità della superficie e dell’apparenza. Ma, allo stesso tempo, mi sono reso conto che sarebbe stato quasi impossibile trattare la stessa problematica nello spazio reale. Per questo la mia risposta al film di Runa è stato solo un altro passo verso questa direzione piuttosto enigmatica. Il modo più semplice per descrivere la struttura sembra essere il punto di vista puramente formale — riguarda il movimento in uno spazio curvo: come rompere, spostare, aprire la curva.
RI: La struttura A è completamente labirintica e avvolgente, ed è correlata a quanto stavi dicendo sulla complessità di questo film: trovare il senso di entrambi non è facile. Per quanto concerne il film, ho ancora la sensazione che non sia così facile dire cosa riguardi esattamente. Ero interessata alla qualità usa-e-getta e al significato di questi palloncini, alla loro morfologia. Nel film sono supporti, sostituti, sono performer, fanno semplicemente quello che vogliono, eppure ti irretiscono in tutte le loro forme. Il padiglione ti porta lungo tragitti in cui attraversi due volte lo stesso punto; è come se potessi incontrare e oltrepassare te stesso! Approdi allo stesso posto ma da angolature diverse; nuovi oggetti e prospettive si rivelano e si chiudono, e alla fine arrivi allo spazio della proiezione. Quando lasci lo spazio e il film, ancora un’altra prospettiva si dispiega, così che tu non possa mai realmente concepire l’intera struttura nella sua interezza. Al contrario, la struttura B per Cinematography si rivela in quanto oggetto completo e continuo, delineato nello spazio aperto. Mi piace molto il fatto che sia un’impalcatura. Mi piace il modo in cui talvolta l’impalcatura stessa diventa l’impalcatura per la proiezione. Non solo tiene le persone sui loro sedili ma sembra anche sostenere la proiezione.
SM: Potete dirmi qualcosa di più sul punto di convergenza dei vostri lavori in mostra? Secondo me, sotto un certo aspetto, essi convergono, e questo aspetto è ciò che potremmo chiamare la decostruzione dell’illusione cinematografica. Siete d’accordo?
RI: Non penso di limitarmi a “decostruire” l’illusione. Se la pensassi in questo modo, il processo si decostruirebbe nella stessa misura in cui si ricostruirebbe, sarebbe una sorta di processo ciclico… risorgerebbe, in qualche modo.
TP: Guardandomi indietro… beh, realizzare questi spazi di proiezione è per me come guardare al passato e cercare di capirne il fenomeno. Può sembrare nostalgico ma ha più a che vedere col riseminare e riciclare le idee. È più una ricostruzione dell’illusione cinematografica, in un momento in cui nessuno ha la certezza di cosa essa sia o sia stata. Ma immagino che il risultato, fisicamente, a volte appaia molto “decostruito”.
SM: Forse “decostruzione” non è il termine più adatto. Stavo pensando che in questo progetto in particolare (e non necessariamente anche negli altri vostri lavori) fate in modo che lo spettatore prenda coscienza del meccanismo sia dell’architettura cinematografica che del cinema in quanto illusione. Penso sia per questo motivo che Runa ha realizzato The Restless Subject (uno dei film in mostra) su un vecchio strumento proto-cinematografico… come si chiama?
RI: Taumatropio. Thauma significa “meraviglia”, o “miracolo”; tropos significa “volgere”. Quello che vedi è un congegno rotante che fa orbitare due immagini attorno a un asse, proprio come il gioco dei bambini fatto di carte e corda. È stato il primo oggetto che ha dimostrato la “persistenza della visione”: le immagini — l’uccellino e la gabbia — sono separate, ma ruotando si fondono sulla nostra retina. Questo genere di “prototipo” crea e allo stesso tempo infrange l’illusione. In The Restless Subject, l’idea era in parte quella di lavorare con due diverse modalità di “illusione”, perché non penso che una sia più avanzata dell’altra. Il cinema (proiettore) così come lo conosciamo, con la sua velocità di 24 fotogrammi al secondo, inizia a guardare quest’altro semplice meccanismo che a tratti si rivela come fenomeno unitario, a tratti semplicemente come successione di immagini distinte, una dopo l’altra. Uccellino, gabbia, uccellino, gabbia. Fotogramma, fotogramma. Ho trovato molto appropriato che questi primi esempi raffigurassero in genere un uccellino chiuso in una gabbia: così come un film cattura l’immagine in un fotogramma.
SM: Pensate che la vecchia idea risalente al XIX secolo della “sospensione dell’incredulità” possa essere utile allo spettatore nella comprensione dei vostri lavori? L’idea di un tacito contratto tra l’autore di una storia e lo spettatore, che voi state qui in realtà capovolgendo, penso…
RI: Credo che la sospensione dell’incredulità sia probabilmente un riflesso, non possiamo evitarlo. Anche in questi lavori in cui ho provato a interrompere la sospensione dell’incredulità, essa ti assorbe di nuovo. Il film del taumatropio addirittura smaschera il proiettore che crea l’illusione — il fantasma nella macchina — eppure in qualche modo continuiamo a guardare “al di là” dello schermo. Che è qualcosa di diverso rispetto a quando le persone venivano attratte dal proiettore — la lanterna magica — perché affascinate dalla fonte delle immagini più che dalle immagini stesse. È interessante il fatto che noi invece oggi sappiamo esattamente da dove provengono le immagini…
SM: …e ancora ne siamo attratti.
RI: Sì, e molto. È un contratto che ti rende attivamente complice.
TP: Ciò che è molto affascinante è anche il passato ignoto di questo oggetto storico, o semplicemente vecchio. Come un archeologo, scavi, scavi, scavi e ti imbatti nei frammenti di un oggetto che poi provi a ricostruire, e del quale in seguito inizi a ripercorrere la storia. Frammenti di questo tipo ti lasciano sempre uno spazio di immaginazione infinito.
RI: Come fare una storia. Inventare una storia.
TP: Anche gli ambienti scientifici o i musei sono buoni esempi di come si può venire risucchiati in questo processo di re-invenzione. Nel caso, per esempio, di una presentazione interattiva del fenomeno ottico e della sua spiegazione storica e fisiologica. Ma di solito le spiegazioni sollevano solo altre domande, perché poche righe non bastano di certo.
RI: Ma è interessante l’idea di frammento. E di come il frammento stesso dia molte possibilità.
TP: Sì, la soluzione può essere un problema. Immagini generalizzate possono far sorgere molti dubbi e domande, ma più ti avvicini e più il dettaglio diventa chiaro, più ti perdi nel tuo fantasma personale.
RI: Penso inoltre che usiamo aspetti di un frammento che ci collocano in una nuova storia. Per esempio, i riferimenti che tu usi, come “il vecchio frammento”, creano una nuova posizione. Non direi che il tuo lavoro è anacronistico, come spero che il mio non appaia nostalgico.
TP: L’anacronismo può essere però anche interessante se usato intenzionalmente per manipolare le aspettative.
SM: Runa, puoi dirmi qualcosa su Merchants of Venice, il quarto film della mostra?
RI: L’idea iniziale era di fare un film sui venditori illegali di borse e fiori a Venezia, ma il risultato finale riguarda solo i venditori di fiori asiatici. In realtà non è illegale vendere fiori, è però illegale guadagnare senza pagare le tasse. Non è una violazione della Legge come nel caso dei venditori di borse contraffatte, ma la cosa deve rimanere elusiva… in un certo senso questi venditori sono un punto cieco all’interno della Legge. Le persone stesse non vogliono essere identificate come venditori di fiori, pertanto sono da una parte invisibili a loro stesse e dall’altra invisibili a noi, che vediamo i fiori ma non chi li vende. Mi chiedo se questo appaia nel modo in cui ho cercato di girare il film, provando cioè a mantenere una struttura obiettiva ed etica. Ho anche filmato i fiori separatamente, usando la pellicola in bianco e nero. Volevo che questi passaggi apparissero come una sorta di materiale d’archivio su un soggetto che potevo studiare, su cui potevo zoomare e di cui potevo controllare l’inquadratura. Le immagini che mostrano i venditori mercanteggiare le rose sono invece tendenzialmente fuori dal mio controllo, nonostante loro sapessero che li stavamo filmando. Il film è senza sonoro perché ogni volta che provavo a usare un suono, anche locale, la situazione appariva romanzata.
SM: Volevo farvi una domanda riguardo al vostro rapporto con il cinema in generale. Cosa vi piace e cosa non vi piace, quali registi vi hanno ispirato o sentite particolarmente vicini al vostro lavoro.
TP: Penso che il mio amore per il cinema non abbia un collegamento diretto col mio lavoro. L’architettura nel cinema è sempre stata legata al business piuttosto che all’arte. Il cinema richiede un certo modello di lavoro e la progettazione degli auditori è solo una parte del processo. Nel mio caso potrebbe essere un po’ fuorviante parlare di cinema in quanto arte. Sono più interessato al cinema come fenomeno storico e sociale. La domanda cruciale è cosa accade quando un interesse di questo tipo viene incanalato nel mio lavoro. Direi che ci sono alcune influenze, come il movimento espressionista in architettura, Poelzig, Taut, da una parte, e gli esperimenti costruttivisti di Klutsis e Melnikov dall’altra. Penso che il primo modernismo in architettura sia sempre un punto di riferimento interessante. Questo progetto a Modena, assieme ad altri simili che ho fatto finora, cerca di trattare un certo aspetto funzionale dello spazio. Per questo sento che l’architettura è un riferimento più appropriato, nonostante la mia conoscenza e percezione di essa sia molto eccentrica.
RI: Credo sia proprio per questo motivo che la nostra collaborazione ha raggiunto un accordo o un equilibrio perfetto. Io guardo il cinema dall’interno. Mi sento molto coinvolta dal cinema, come se fossi all’interno dell’“architettura del cinema”: dall’altra parte dello specchio.