“Retracing Black”, la rassegna dedicata ad Aldo Tambellini alla Tate Modern di Londra, a cura di Comer, Bursi e Bolognesi, segna un primo passo fondamentale, dopo la rassegna dei suoi “Black Films” al Centre Pompidou, per la definitiva scoperta di questo artista italo-americano che, a eccezione di un circuito ristretto di conoscitori, è rimasto finora inspiegabilmente sconosciuto. Presente in testi fondamentali per la storia dei mixed media quali Expanded Cinema di Gene Youngblood (1970), Art and the future di Douglas Davis (1973), Art as subversive art di Amos Vogel (1974), per dirne solo alcuni, Tambellini è stato una sorta di cavaliere nero della sperimentazione artistica transmediale. I suoi pionieristici electromedia, come egli chiamava le sue pratiche intermediali, sfidavano direttamente l’establishment, allora dominato dal paradigma modernista di una rigida distinzione fra i vari linguaggi artistici.
Tale posizione, sostenuta da Clement Greenberg, benché motivata dalla necessità di distinguere l’avanguardia pura dall’arte commerciale, finiva per opprimere la nascente sperimentazione legata alle nuove tecnologie e volta alla fusione tra le diverse arti. Ciò oltretutto in un momento di radicale trasformazione sociale e culturale. Infatti la diffusione dei mass media, dalla radio alla televisione, era direttamente legata alla riproduzione del nuovo stile di vita della società fordista.
Per questo, quando nel 1962 Tambellini fonda con altri artisti il Group Center, avverte la necessità, come artista, di reimpadronirsi degli strumenti di comunicazione interdetti all’audience come i linguaggi video-cinematografici. Ciò per creare direttamente un proprio pubblico, uscendo dal cliché dell’artista isolato ancora in voga presso l’Espressionismo Astratto. Negli Electromedia i diversi mezzi artistici e tecnologici si fondono in un apparato unitario: pittura, scultura, performance, danza, musica, lettura di testi e proiezione multipla di slide, video, cinema found-footage e off-camera. All’interno di environment dinamici e scintillanti, dominati da uno sfondo nero, risultano inclusi performer, oggetti, schermi, supporti, luci stroboscopiche, cavi e strumentazione tecnica.
Con gli artisti del Group Center Tambellini aveva organizzato le prime performances electromedia e alcune mostre di grande risonanza alle quali avevano preso parte anche artisti europei quali i tedeschi del Gruppo Zero. Dopo lo scioglimento del Group Center alcuni di loro passano all’attivismo politico, come Ben Morea e Ron Hahne. Altri alimenteranno l’arte psichedelica allora nascente, come Don Snyder, Jackie Cassen e Rudi Stern, assieme a Timothy Leary. Tambellini invece fonda il Gate Theatre nel 1966 e in seguito, sempre nella chiesa di Saint Mark in the Bouwerie, il Black Gate, assieme a Otto Piene: il primo electromedia theatre newyorkese.
Nato a Syracuse, Tambellini viene portato a Lucca dalla madre, dove studia fino al 1946. A sedici anni rientra negli Stati Uniti e nel 1959 si trasferisce nel Lower East Side di New York. Proprio in questo quartiere povero ancora in via di ricostruzione, abitato da afro e ispano-americani, con cui stringe amicizia, inizia una fase nuova del suo lavoro. Lavora a grandi dipinti circolari e a calchi neri di hydrocal dove cola residui edilizi del suo isolato; ruderi, ferri, in cui rivede le rovine del suo quartiere in Italia sotto i bombardamenti, accomunati dalla stessa potenza distruttiva del capitale.
Dal 1963 inizia a lavorare ai lumagrams: diapositive trovate e modificate con reagenti o dipinte in tinte nere monocrome, in seguito forate o incise con motivi circolari, e proiettate, all’inizio, su un palazzo all’aperto — dunque, non solo su schermi, ma su architetture e persone nello spazio reale. All’epoca non conosce Lucio Fontana, ma con la perforazione e proiezione dei lumagrams il concetto spaziale si trasforma in cinema espanso e in flusso totale di energia, anche politica. Il nero, difatti, onnipresente nella sua produzione, visto da Tambellini come totalità primigenia ed espansione della coscienza in ogni direzione del cosmo, coinvolge anche il problema della discriminazione razziale, suggerendo un modo nuovo di guardare all’universo e agli esseri umani non più in termini di colore. Non si dimentichi che sono gli anni dell’esplorazione spaziale, della lotta per i diritti civili e contro la guerra. Poco dopo, lavorando su pellicola, dà vita ai suoi primi “Black Films”, una serie di sette 16mm, basati sul nero, in cui le arti plastiche e pittoriche espandendosi progressivamente si fondono al cinema sperimentale, confluendo all’interno di dispositivi sempre più complessi in cui acquisivano amplificazioni ambientali, psichiche e interattive con il pubblico.
I “Black Films” sono realizzati su pellicola, utilizzando spezzoni di cronaca, film girati o trovati, poi lavorando con reagenti chimici e abrasivi, emulsioni, inchiostri, graffiando o forando i supporti. Dalla sua uscita sul mercato, affiancando alla Bolex 16mm un sistema Portapak inizia a sperimentare il segnale video, modificandolo per svelarne le potenzialità. Nascono anche le prime opere catodiche in cui le immagini e il dispositivo elettronico televisivo vengono alterati e ricodificati attraverso magneti e oscilloscopi. Black Spiral, prima opera del suo genere, è una scultura televisiva in cui l’immagine acquisisce un movimento spiraliforme. Nel 1968 Black Gate Cologne, realizzata con Otto Piene, è poi la prima trasmissione tv prodotta da artisti, nata dalla rielaborazione delle electromedia performances degli anni precedenti.
Questa sorta di opera totale degli electromedia venne definita in quegli anni come teatro dei sensi. Richard Preston la paragona (erroneamente) all’LSD: “l’unione dei media altera i sensi per garantire al pubblico una totale e travolgente esperienza. A questo fine film diapositive stroboscopi, oscilloscopi, suoni stereo, attori, ballerini e musicisti vengono utilizzati singolarmente e collettivamente in questa grande sintesi delle arti”.
Jonas Mekas, tra gli spettatori di Moondial, adesso riproposto alla Tate, descrive il suo profondo coinvolgimento: “…mi girai e vidi dov’erano posizionati i proiettori e le diapositive… vidi accadere qualcosa di incredibile, quasi fantastica cosa: vidi entrambi i Tambellini immersi in una trance profonda. I proiettori con le diapositive erano tenuti a mano, muovendo scuotendo e tremando non più consapevoli di loro stessi… andavano analogamente attraverso cambiamenti fantastici e sembrava che le cose sul palco fossero direttamente, fisicamente connesse con le loro punta delle dita, … e i loro corpi… attraverso la loro carne e le loro anime”.
Tali pratiche entravano immediamente nel circuito artistico di quegli anni, alimentando ad esempio la nuova sperimentazione psichedelica. Joseph D. Ketner scrive che Andy Warhol nel 1966 modifica il suo show multimediale Exploding Plastic Inevitable (EPI) usando effetti visivi e tecnici degli elecromedia di Tambellini.
Nel 1967, su una rivista canadese, Ann Brodsky e Greg Curnoe scrivono sui mixed media a New York. Hanno entrambi visto sia Exploding Plastic Inevitable di Warhol che Black Zero di Aldo Tambellini. Per Curnoe l’opera di Tambellini e quella di Warhol distinguono il nuovo stile di New York. “Comunque [aggiunge], è ovvio che EPI abbia colto effettivi accorgimenti dell’opera di Tambellini e da altri filmmaker e li abbia impacchettati per il consumo di massa (questo è come differenziare i loro stili… Madison Avenue contro The Village)”. E conclude: “Con Warhol vieni attirato dentro e poi sei escluso; con Tambellini vieni impegnato in un dialogo”.