Ne il Marinaio, una pièce in atto unico scritta in poche ore del 1913, Fernando Pessoa mette in scena tre donne senza nome. Sono in una stanza circolare, immobili, e così resteranno per l’intero spettacolo; alle loro spalle, una finestra lascia intravedere un profilo montuoso e un lembo di mare; vegliano un cadavere, e per passare la nottata decidono di parlare. “Di cosa?”, si chiedono, all’apertura del sipario. “Parliamo del passato”, risponde una di loro. “È bello, ed è sempre falso.” Come i discorsi delle vegliatrici di Pessoa, la ricerca artistica di Alek O. (argentina di nascita, ma attiva a Milano e a Londra) nasce dal desiderio di riesumare o ricostruire o ripensare per piccoli frammenti il tempo passato; come le vegliatrici di Pessoa, Alek O. parte dalla consapevolezza che rievocandolo lo renderà falso.Il cuore di questa ricerca si articola attraverso una serie di sculture a cui Alek O. lavora dal 2009. Si presentano, in apparenza, come semplici oggetti quasi geometrici, di materiali di uso quotidiano: rettangoli, piastre, parallelepipedi di quello che sembra truciolato o metallo di scarsa qualità. Se queste sculture fossero ciò che appaiono, un omaggio rozzo al Minimalismo, si rivelerebbero profondamente compromesse con le necessità di una manifattura poco precisa o i vincoli di una materia prima recalcitrante. Gli spigoli delle sculture sono imprecisi, stondati a tratti e in alcuni casi chiaramente fuori squadra o scheggiati; il legno è chiazzato e friabile, il metallo punteggiato di impurità. Ma queste sculture, naturalmente, non sono un omaggio al Minimalismo.
Per realizzare ognuna di esse, Alek O. ha preso le mosse da un oggetto particolarmente significativo della sua storia personale o famigliare, e si è dedicata alla sua laboriosissima distruzione mediante procedure artigianali, al fine di ridurlo a una qualche regolarità. Qualche esempio: Keys (2010) è la fusione di tutte le chiavi inutili, trovate per casa prima di un trasloco; Corkscrew (2010) applica la medesima procedura a un cavatappi di fine Ottocento, che ha attraversato l’oceano con gli antenati di Alek O. ed è tornato dall’Argentina con lei; Desk (2009) era il tavolo da lavoro su cui per anni si era esercitata come artista, e così via. I mobili, o gli oggetti di maggiore complessità, sono suddivisi in base ai componenti: legno e metallo; il primo è ridotto a segatura e plasmato, con la colla, in un solido regolare; il secondo è fuso e ricondotto alla forma di piastra. Le lastre di vetro restano inalterate. Quello che risulta è un allestimento di forme minimali, imprecise, stranamente piccole rispetto all’originale, di cui pur condividono fino all’ultima particella.
Un processo simile è anche alla base di una serie di ricami, tirati ed esposti su telai da pittura (Brigitte Bardot, Ayrton Senna, Lost, Montevideo, tutti realizzati fra il 2009 e il 2010). Ognuno di essi nasce da un maglione legato a un momento particolare della vita dell’artista, e successivamente disfatto, filo per filo, dall’artista stessa. La lana così ottenuta viene quindi ritessuta secondo un pattern geometrico, determinato dalla distribuzione originale dei colori, visibile nelle imprecisioni del motivo, nell’insufficienza del bianco o del verde a finire la sezione che dovrebbe occupare.
L’impatto visivo con ognuno di questi oggetti evoca immediatamente in due modi il lavoro necessario a crearlo, sottolineandone da una parte la durata e ripetitività (scucire filo per filo, piallare raccogliendo la segatura), e dall’altra esibendone la necessaria imperfezione, visibile nell’imprecisione del risultato finale e a sua volta in un contrasto quasi crudele con la fatica che è stata necessaria per ottenerlo. Ciò che viene evocato è quindi un lavoro in apparenza vano, doloroso per via della sproporzione fra l’intensità dell’impegno e le sbavature del risultato, e ancor più terribile in virtù di ciò in cui esso consiste: la meticolosa, laboriosissima e inutile distruzione di un oggetto amato. Questo lavoro è il lavoro della memoria.
Cosa facciamo quando ricordiamo qualcosa? Ne ricordiamo la storia. Ma questa storia, naturalmente, non può essere completa — ce ne mancano i mezzi, memoria e attenzione, ma soprattutto una storia completa sarebbe ridondante, eccessiva. E allora? Ne ricordiamo alcune parti — i momenti salienti, quelle frasi in grado di riassumere in toto una persona, una città, un anno di vita, quei gesti che sembrano assommare in sé le ragioni che ci fanno innamorare di qualcuno o quelle, sotterranee, per cui anni dopo scegliamo di andarcene. E se il riassunto non è corretto? Se la persona non si adatta alla frase che abbiamo scelto, se quell’anno di alti e bassi non può essere ricondotto a nessun singolo picco o avvallamento? La domanda non si pone: il riassunto è sempre corretto, e se non lo era prima lo diventa una volta eseguito, per la semplice ragione che ciò che poteva smentirlo ne è stato escluso, e quindi viene dimenticato. Cosa facciamo quando ricordiamo qualcosa? Lo facciamo quadrare.
È questo che fa Alek O. con gli oggetti significativi dai quali parte per questi suoi lavori. La scelta di dedicarsi specificamente a essi è di per sé un segno di attenzione (come lo è quella di ricordare qualcosa); la trasformazione che ne consegue non è un vero e proprio tradimento, perché la materia è la stessa (così come il ricordo, anche compiaciuto, anche falso, si regge sull’illusione della sua esattezza — sull’esaustività del riassunto). Il processo messo in atto, però, è un processo di distruzione, tanto più terribile quanto più meticoloso: un processo teso, appunto, a far quadrare, letteralmente, qualcosa che quadrato non è. E alla fine quadra, certo, come i ricordi si allineano spontaneamente, il più delle volte, a ciò che ci aspettiamo da loro: ma qualcosa resta sempre a segnalare la falsità della nuova forma, e quindi il prezzo pagato per la sua quadratura. Le imperfezioni delle forme minimali di Alek O. testimoniano appunto che la forma che abbiamo di fronte non è quella originale, e che se tanto di esso si è conservato nella trasformazione, altrettanto si è perso; così come a volte qualcuno ci fa tornare alla mente una frase di chissà quanti anni fa che ci sembra impossibile aver pronunciato davvero. Ma certamente l’abbiamo pronunciata.
Se queste due serie di lavori di Alek O. sembrano tese a offrire un’immagine del ricordo, esse sembrano suggerire qualcosa in più, e cioè che un ricordo può essere riscritto. Come questi possono cambiare — al mutare, forse, di ciò che ci aspettiamo da loro: della quadratura che ci serve — così il processo a cui Alek O. sottopone gli oggetti e gli indumenti del suo passato può essere evidentemente reiterato all’infinito. Quegli stessi blocchi di metallo o di legno possono essere distrutti e nuovamente forgiati, in forme simili o diverse; quegli stessi ricami possono essere sfilati e, dopo, ritessuti. Ciò che ne risulterà sarà in questo caso indistinguibile dalla scultura iniziale e potrà assumere qualunque forma, più o meno regolare, più o meno trasparente nelle sue mancanze, così come un ricordo potrà essere ripensato a piacere, a seconda dei casi, dei desideri, delle necessità: la materia resterà quella vera, la forma, qualunque essa sia, resterà falsa.
Qualunque? No, certo: la scelta è vincolata dal materiale di partenza, come nel caso della memoria, che può selezionare ma non creare da zero — e le imprecisioni del ricamo, le aree non finite, sono lì a testimoniare questo, la resistenza della materia. Qualunque? Non esattamente, come è ovvio, non potrà riassumere la forma di partenza, quella dell’oggetto originale. L’erosione e la ricomposizione che caratterizzano il lavoro di Alek O. sono indefinitamente reiterabili proprio in virtù del fatto che sono irreversibili, come irreversibile è la perdita che accompagna la loro trasformazione in forme quasi perfette.
Oltre a Pessoa, anche Aldo Busi ha iniziato un libro dedicato alla memoria annunciandone, ex abrupto, l’inaffidabilità — e sottolineando come questa derivi da un processo più o meno laborioso di quadratura — di accomodamento. “Cosa resta”, si chiede il primo paragrafo del suo Seminario sulla gioventù, “di tutto il dolore che abbiamo creduto di provare da giovani? Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta passato, si riduce tutt’al più a un risolino di disgusto — disgusto per essercela presa tanto per così poco, per aver trovato fatale qualcosa che alla lunga si è rivelata letale solo per la noia che viene a ripensarci. A pezzi o interi, non si sopravvive comunque, ugualmente scissi? E i dolori del nostro passato ci sembrano mondi talmente lontani che pare impossibile averli un tempo abitati.”
A rileggerlo, questo paragrafo sembra riassumere perfettamente l’idea di memoria suggerita dalle sculture e dai ricami di Alek O. Col tempo il dolore viene levigato, faticosamente polverizzato per ricomporlo nella curva rassicurante del sorriso. Non sono sicuro, però, che Busi lo abbia scritto davvero così. È passato del tempo da quando ho letto quel libro. Cito a memoria.