Tutto è sempre qualcos’altro nel lavoro di Alex Cecchetti. Le poesie si fanno disegni erotici (Erotic Cabinet, 2016–2017), i nastri sono una danza che è anche una storia (Singing Line, 2018), un corrimano è un arabesco (Arabesque, 2016). Gli uffici e corridoi di un museo, inaccessibili al pubblico, sono anche l’inferno. Con generosità, romanticismo ed entusiasmo, Cecchetti ti chiede di seguirlo, perché vuole farti vedere una cosa (la vedi?), proprio quella lì. L’artista, l’incantatore. o vuole a tal punto che tu, per un attimo, gli crederai e finalmente quella cosa la vedrai. E ti dirai, “ma certo!”, e ti fermerai appena, per contemplare l’evidenza, e proprio in quel momento lui ti esorterà a proseguire: “Non c’è tempo! E anche ad avercelo dove lo mettiamo?”
Il Nonsenso
Ogni bambino è animista. Il che non è uguale a dire che l’animismo è una cosa da bambini. Lo psicologo infantile Jean Piaget identifica nell’infanzia una fase, fra i due e i sette anni, che precede l’uso proprio della ragione logica[i]. All’interno di questo periodo, egli colloca il pensiero animista – la sicurezza del fatto che le cose sono vive, che possiedono coscienza e potenzialità. Piaget sostiene che questo pensiero si sviluppa in quattro stadi: (a) fino ai 4-5 anni, tutto vive ed è cosciente; (b) fra i 5 e i 7 anni, solo le cose che si muovono sono coscienti; (c) fra i 7 e i 9 anni, solo le cose che si muovono spontaneamente sono capaci di pensiero e, infine, (d) dai 9 anni, solo gli animali e gli umani sono vivi e pensano. Si può guardare a tutto questo come ad un progresso verso la socialità, il pensiero simbolico, l’empatia, persino verso la civilizzazione. Oppure, si possono invece guardare tutte le cose che sono state uccise lungo la strada. La trasformazione, per Cecchetti – da un essere a un altro, da un oggetto a un essere, dall’artista, a te, a tutto il resto – è al contempo barocca, performativa (nel senso che viene compiuta dal solo fatto di’essere stata affermata), poetica ed infantile. Lontano dalla metamorfosi, questi oggetti e concetti non ne diventano altri, e neppure li contengono. Piuttosto, “saltano” e, nel saltare, vengono ad essere. Singing Chandelier (2018) è una scultura di uccelli di vetro soffiati a mano – ma è anche un candeliere, e uno strumento musicale, e anche… Insomma, per dire certe cose ci vuole la danza. E Cecchetti è coreografo, e danzando la poesia esiste, e le cose ritrovano la possibilità di balzare. “E per qualcuno che non ha mai visto una nuvola, potrebbe essere scioccante sapere che un uccello la attraversa tranquillamente in volo, mentre la luce non ce la fa”.[ii] C’è un certo infantilismo all’interno di questa questione, e qualcosa di ovvio, anche. Se, come suggerisce Alison Gopnik, “I pensieri e le azioni dei bambini spesso appaiono caotici, anche folli… Ma essi hanno una capacità sconcertante di arrivare esattamente alle ipotesi più strane e più corrette; in effetti, nel farlo sorpassano di gran lunga gli adulti”[iii], allora nel crescere si perde molto, e il poeta (l’artista, il danzatore o la guida) questo ce lo può restituire.
Spesso, le performance di Cecchetti attraversano qualcosa, che sia il Louvre (Louvre (guided tour of the Louvre without the Louvre), 2014) o l’inferno e il paradiso (Nuovo Mondo, 2014). Lungo strada, l’artista – e alle volte anche altri, incarnando ruoli specifici – ci porta ad affrontare uno di questi momenti di nonsenso. Ed è sempre attraverso la poesia che ci si arriva. Dalla poesia, Cecchetti compone un rigoroso e al contempo fantastico, esuberante, montaggio di opere, proprie e di altri. A questo riguardo, l’artista è enciclopedico, ma la sua enciclopedia presenta una logica completamente insensata, seppur fradicia di significato. Da piccola, chiedevo il perché delle cose a mia nonna e, senza eccezione, lei mi rispondeva, “perché due non fa tre.” Nell’ovvio di questo “ma certo!” si nasconde un segreto colmo di vitalità.
Nel lavoro Marie & William (2013), una coreografia per corpo, muro e more, i protagonisti sono in uno stato di sospensione reso possibile solo dalla logica interna alla narrazione stessa, sostenuta dall’artista: Marie e William sono su un tetto; Marie dice a William che non lo ama più, e sentendo questo, William si butta. Subito Marie gli grida: “Aspetta!” Lui, obbediente, si ferma a mezz’aria e aspetta. In quel momento, Marie si rende conto – come una Sheherazade al contrario – che William resterà in aria finché avrà da aspettare che lei finisca di parlargli. Tra poesia e filosofia, e con disegni di more schiacciate sui muri che sono al contempo aiuti mnemonici e notazioni di movimento, la storia quindi continua, in apparenza (spero, per il povero William) all’infinito (o almeno finché arrivi l’elicottero dei pompieri).
Questa condizione di attesa accomuna William al pubblico dell’opera di Cecchetti: vi è, all’interno di essa, un certo senso di possibilità infinita – secondo la quale qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, si può animare. E da un animismo a un altro: mi viene in mente la relazione fra le tecnologie di oggi e l’infanzia. Non solo a causa del touch screen (da notare che le teorie di Piaget influenzarono la predilezione per le icone piuttosto che il testo nelle interfacce), ma anche perché a queste macchine, che adesso devono ascoltare tutto per poter adempiere alle loro funzioni quando ci servono, è stata data un’anima, fosse anche solo quella che noi diamo loro, sentendoci sorvegliati.[iv]
Tornando al nonsenso, che poi è un genere letterario, Anthony Burgess lo descrive così: “un modo giocoso, pragmatico, di interpretare l’universo”. Ma anch’egli si corregge subito: “Non che si possa mai dare senso all’universo”. Il nonsenso relativizza dunque quel “senso di senso” che, in questo tempo e spazio specifico, ci diamo. E, facendo questo, riorganizza le cose, attraversando il sogno, il gioco, la danza o la poesia, a modo di rendersi sempre più credibile quanto più rimuove la verosimiglianza del suo opposto, il cosiddetto “buon senso”. Incitata dal “Non c’è tempo!” di Cecchetti, cerco sul dizionario espressioni usate per la prima volta in lingua inglese nel 1865, l’anno in cui Lewis Carroll pubblica Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie. Trovo “fish farm” e “button mushroom”, e mi domando se si può mai arare il mare o cucirsi i funghi sul cappotto. E perché qualsiasi altra cosa dovrebbe dunque essere più assurda? Nella sua “Snowberry”, Cecchetti reinterpreta in poesia una leggenda della popolazione amerinda Salish dedicata al personaggio South Wind. L’eroe, una sorta di Ulisse precolombiano, perde gli occhi, e li sostituisce con due bacche. Quando incontra un’aquila, fingendo di riuscire a vedere, più lontano di lei, dei presunti invasori oltre mare, South Wind la convince a scambiarsi gli occhi. Eppure, come suggerisce Cecchetti, questo non è inganno bensì profezia: “In questa storia nessuno è mai stato cieco / Uno vedeva lontano nello spazio l’altro nel tempo.” Mi ricorda John Berger: “La vista arriva prima delle parole. Il bambino vede e riconosce prima di parlare. Ma c’è un altro senso nel quale la vista arriva prima delle parole. È essa che stabilisce il nostro posto nel mondo che ci circonda; spieghiamo questo mondo in parole, ma le parole non potranno mai disfare il fatto che il mondo ci è comunque intorno.”[v]
Il Senso e la Sensualità
La mostra di Alex Cecchetti a Spike Island (Bristol, Regno Unito, 2018) aveva come titolo “At the Gates of the Music Palace” (Alle Porte del Palazzo Musicale). Tra sculture, installazioni, musica e performance, la mostra stessa era un teorema: tutto è vivo e, se è vivo, vibra e, se vibra, fa suono e, se fa suono, tutto fa musica. E così il tutto è orchestra. Però solo, c’è da dirlo, se vi si presta abbastanza attenzione. Ogni sala, ogni lavoro, si anima con il movimento del visitatore: una doppia porta diventa uno strumento a corda che suona il desiderio stesso di attraversarla (Music Door, 2017). Un enorme theremin, inventato dall’artista in scala quasi impensabile (Music Hall, 2018), suona il movimento del pubblico, interpretando quindi la relazione che l’individuo ha all’aria, la materia, il suolo. L’invisibile che diventa udibile (un altro salto). Affissi alla parete del Music Hall ci sono cinque acquarelli. Di fronte ad ognuno di essi, il visitatore diventa nota – trasformando in musica, attraverso il theremin, la propria posizione. E qui, di nuovo, tutto ciò che ci circonda è anche vitale.
Cetaceans (2017), nello spazio centrale della mostra, è composto di poesie e brani per armonica a vetro, waterphone e un coro di voci che impersonano il canto delle balene. Il lavoro, che può essere installato o messo in scena, è in entrambi i casi della durata di un ciclo di sonno, circa 90 minuti. Così come l’artista accompagna il suo pubblico all’inferno, al paradiso e al Louvre, con questo lavoro Cecchetti ci accompagna nel sonno. In questa fragile intimità, il pensiero diventa poroso, condiviso: si estende oltre il confine del sé e si congiunge all’altro. Un senso ecologico della mente ne emerge – nello spazio fra il sé e il tutto. E ci si accorge che la comunicazione non ha bisogno di altro, se non di stare insieme. Vi è un’intensa sensibilità ecologica nella cosmologia di Cecchetti: un’intuizione del fatto che il corpo si estende al di là del confine precario – e comunque non stagno – della pelle. Nella performance Walking Backwards (2013), il visitatore cammina all’indietro in un giardino, mentre l’artista, alle sue spalle, racconta storie e poesie. Camminando a ritroso, è come se ogni foglia che si incontra emergesse dal proprio corpo, e la voce che richiama non è altro, anch’essa, che una parte del sé. Nel lavoro, ancora in via di sviluppo, Astronomic Weather Choir, un coro canta il tempo che cambia – le nuvole che si trasformano, la pioggia che cade… L’atmosferico diventa corpo, e viceversa. Daisy Hildyard lo chiama “il secondo corpo”: “Il secondo corpo”, scrive, “è certo letteralmente la tua esistenza biologica e fisica – è una versione di te. Non è un concetto – è il tuo corpo.
Ma il linguaggio che abbiamo al momento per parlarne è debole: possiamo discutere vagamente di come le cose sono connesse a livello globale; o di come i gas emessi entrano in circolazione; o possiamo parlare di impatti. Eppure, su scala forse microscopica o intangibile, i corpi si stanno infrangendo l’uno nell’altro.” E se questo è vero, e se tutta la materia vibra (e lo fa), allora ciò implica, per Cecchetti, che ogni poesia, ogni parola, ogni suono o gesto è, per sua stessa natura, relazionale, ed erotica, ed anche eroticamente circolare. “With what the swan made love to Leda / If not with his entire head / Down with all his neck / Wait a second / With his eyes open?” Cecchetti ride delle cose tragiche – fa così nella vita come lo fa nell’arte. Nel Tamam Shud (2015), la fine non è altro che la fine che non è altro che la fine: il protagonista è un uomo morto, un fantasma. L’unica cosa che sa di se stesso è racchiusa in una nota che ha in tasca, che legge solo, “tamam shud”: questa è la fine. (Una mente senza corpo: un corpo ecologico). Tamam Shud è un giallo: un mistero irrisolto e comunque perdutamente, comicamente circolare. Ed è così anche per l’Erotic Cabinet (2016–2017), un mobile che racchiude una collezione concentrica di 69 disegni erotici eseguiti dall’artista: entrambi, disegni e artista, incoraggiano, seduttori, ad arrivare fino in fondo (come dentro una rosa, petalo dopo petalo, sempre più all’interno della struttura). Alla fine non trovi niente, o quasi: nell’ultimo disegno ci sei tu, culo per aria, che ti infossi nell’armadietto. Un’amica mi raccontò così il suo ricordo di un corso di anatomia. Disse: “Tu scavi, e scavi e scavi in questo corpo, e c’è una parte di te che pensa che forse troverai qualcosa di essenziale, non so, un segno che rende senso all’idea di una persona. E poi continui a scavare, e alla fine c’è solo il tavolo”. E così anche l’amore, o un cetriolo. E così un’orchidea, l’oceano, un panda, una vita.