Alfredo Jaar, classe 1956, cileno, architetto di formazione, filmmaker che vive e lavora a New York, cresciuto a pane e violenza quotidiana nel clima della dittatura militare di Pinochet, è noto per il suo impegno etico e civile con opere (video, fotografie, installazioni site specific), che denunciano la “mattanza” umana e le ingiustizie sociali che divampano nelle aree povere del nostro pianeta, sempre più malato, inquinato e violato dall’uomo hyper moderno.
Jaar a Milano si presenta con “It is difficult”, un progetto complesso di arte pubblica in difesa della natura, presentato allo Spazio Oberdan e all’Hangar Bicocca, a cura di Gabi Scardi e Bartolomeo Pietromarchi, promosso dalla provincia di Milano, con la collaborazione della Regione Lombardia. Le sue opere affrontano il genocidio del Ruanda e altri casi imbarazzanti di emergenza umanitaria, di oppressione politica, di emarginazione sociale; schierandosi contro la violazione dei diritti umani e civili.
Jaar appartiene a una generazione di artisti che credono nell’inscindibilità tra etica ed estetica, creando opere di una perfezione formale indiscutibile, ma dal contenuto terrificante, che ci fanno tremare e riflettere sul ruolo della cultura e dell’arte umanitaria, senza scadere nella retorica vuota del terzomondismo, a cui i media ci hanno addomesticato.
All’Hangar Biococca, all’ombra delle Torri di Kiefer, si trovano otto installazioni, anni 1987-2006, a effetto “pugno nello stomaco”, come The Sound of Silence: un ambiente/stanza a forma di scatola nera in cui è proiettato un video dedicato a Kevin Carter, autore di una foto scioccante realizzata nel Sudan nel 1993, in cui compare, oltre a scritte relative al numero di morti a causa della fame nel mondo, l’immagine di una bimba denutrita, ricurva su se stessa, scortata da un avvoltoio, angelo custode della morte. Carter si è tolto la vita dopo aver ottenuto il Premio Pulitzer, poiché non ha retto il peso delle accuse di aver preferito scattare questa foto, piuttosto che soccorrere la bambina. Questa, e altre sue opere dovrebbero indurci a riflettere sulla responsabilità del fotografo, sui limiti della rappresentazione della realtà, e sul mercato delle immagini dei media onnivori, che trasformano anche le catastrofi umane in un business come un altro.
Allo Spazio Oberdan sono esposti video, fotografie e lightbox dedicati al Ruanda, Angola, Nigeria, zone off limit della sopravvivenza, strette nella morsa della fame, della povertà e della rassegnazione alla morte. Tra gli altri lavori, segnaliamo le 5 opere estrapolate da “The Rwanda Project”, costituito da 21 lavori eseguiti tra il 1994 e il 2000, difficili da dimenticare come “The Eyes of Gutete Ermerita”, da vedere più che raccontare.
Il progetto di arte pubblica si concretizza nei luoghi urbani della città, dove fanno capolino, tra un cartello pubblicitario e l’altro, manifesti con domande, dirette sul ruolo della cultura, della religione, dell’impegno civile e sociale, in un epoca vacua, leggera e superficiale, irresponsabile che non si pone problemi etici, cieca e sorda nei confronti delle emergenze umanitarie. Chi è senza peccato scagli la prima pietra!