Mentre i ritratti di Piero della Francesca sembrano usciti da una medaglia, tanto sono circoscritti nel profilo e compressi nei volumi, quelli di Antonello da Messina ambiscono a essere busti scultorei vivificati da ombre che intensificano i caratteri di ogni volto.
La posizione a tre quarti e gli occhi in macchina sanciscono una relazione ai limiti dell’ossimoro: come se fosse reso manifesto un distacco interessato.
Una separazione vitrea che potenzia quello sguardo rivolto a noi, acuendo espressioni tutt’altro che penetrabili. Alcune di queste risultano impassibili come nel Ritratto virile di Torino, mentre altre appaiono perfino beffarde, grazie a un sorrisetto tirato a fior di labbra che proprio la sfuggenza del viso rende di una lontananza onirica. Ma siamo entro un sogno nitido, terso, che tornisce le epidermidi e sottolinea i movimentati declivi delle guance con chiaroscuri che non si erano mai osservati prima su una superficie dipinta. Antonello riesce a rendere, con la neonata pittura a olio, una fisicità che i pigmenti a tempera non permettevano nemmeno di immaginare. Così il sogno giunge ai confini dell’illusorio, del tattile, eppure è ancora ipnotico e anche la sofferenza del Cristo fustigato è tradotta in tristezza, in una delusione dell’umana stoltezza che lascia sulla tavola pittorica solo gocce trasparenti e rosse, di “minerale sconforto della materia”, per usare parole di Valerio Magrelli.
Oltre il cappello di panno a forma di zuccotto, del presunto Autoritratto di Londra, o dietro alle capigliature composte di tutti gli altri sconosciuti individui, capelli acconciati su disegno geometrico quasi fossero immersi nella cera liquida, non c’è un cielo notturno o il buio di una stanza, non uno spazio profondo, ma una parete nera, come di lavagna bagnata, solida e consistente, quali appaiono tutte le superfici visibili del quadro.
L’invenzione del fondale nero, in condizione di luce diurna, si dimostrerà una scelta di stile quantomeno veggente. Si dovrà infatti attendere Caravaggio, che l’allestirà dietro ai modelli in posa, per rendere la finzione di un effetto-notte, di teatrale e assoluta efficacia.
Ma pensare queste cose intorno al 1475, scandagliare il volto di un uomo sotto quella miscela volumetrica di luce e ombra, quando Botticelli si apprestava a dipingere la sua piana “Primavera”, quando Leonardo era ancora nella bottega del Verrocchio, significava aprire una strada maestra, che venne immediatamente intesa e percorsa da Giovanni Bellini.
Il paesaggio, che altri mettevano regolarmente alle spalle dei ritratti, si direbbe quasi che per Antonello fosse una questione sacra, da porre nella prospettiva liturgica, dietro le crocifissioni o nello scenario di una Pietà come quella di Madrid. Oltre il corpo morto del Cristo, che pare ancora esalante, la natura non piange, non arrossa il proprio sguardo come invece ha fatto l’angioletto reggente, ma continua a essere limpida, imperturbabile e cristallina. Così come nell’intimità ritrattistica si concentra una pittura da camera, nel sottofondo del sacro si apre una sinfonia luminosa, ma è un requiem privo di note basse, davanti al quale si staglia per contrappunto la divina statua ferita.