AMPHIBIA
Michele Bertolino: Amphibia nasce nel 2017 e incrocia i vostri percorsi formativi (l’architettura e il graphic design) con l’esperienza condivisa nella stessa crew di graffitari a Torino. Ripensa la vita notturna, provando a ridisegnarne gli spazi, le modalità di comunicazione e ricollocandone al centro la volontà di costruire comunità – a partire da un luogo particolarmente importante per la notte di Torino, il Bunker. Come è nata la volontà di formare il collettivo, e quali sono state le prime forme che avete preso? Quanto è centrale la riconfigurazione dello spazio nella vostra pratica?
Amphibia: Amphibia inizia a prendere forma dall’incontro di Jacopo Lega e Georgios Angeletopoulos. Un passaparola. Una rete di contatti solida anche se nascosta. Ci si passava le yard dove andare e gli orari migliori per dipingere. Ed è anche così che ci siamo conosciuti. Senza il passaparola, se non eri particolarmente spavaldo, non avresti trovato il modo di dipingere. È così che dall’inizio, anche se non sempre con regolarità, i graffiti hanno definito per noi attitudini, dinamiche e approcci che inevitabilmente hanno influenzato il modo di vivere la notte, gli spazi urbani oltre che il modo di fare gruppo e comunicare. Una libertà, tanto pretesa quanto trovata, che abbiamo trasferito nel modo di ritrovarci insieme, condividere e suonare musica, ricontestualizzandoci negli ambienti dell’intrattenimento notturno. All’epoca ci sentivamo poco rappresentati dalle dinamiche dei club torinesi, dalla loro deriva consumistica e dal monopolio di poche realtà promotrici che a rotazione riempivano le stesse venue con le dj-star. Prevendita o lista, bastava vendere. “Il quartiere come contesto congenito” citava la descrizione del nostro primo evento al Bunker. Fin da subito abbiamo pressoché annullato le distanze tra artisti e pubblico, consapevoli che il club, come spazio fluido e dalla innata propensione aggregativa, potesse prendere ogni volta una forma diversa e nel quale ballare fosse solo una delle ragioni per condividere lo stesso spazio. Un percorso che presuppone evoluzione, nel quale abbiamo coinvolto artisti provenienti da vari contesti per ripensare il modo di esperire il club, spinti principalmente da una genuina voglia di creare una rete espansa di persone affini. È stato così anche per le nostre prime manifestazioni editoriali pensate proprio come estensione del dancefloor, come racconto dei satelliti che ruotavano attorno la nostra piccola realtà rendendola speciale.
MB: Siete multiformi. Quando ci siamo incontratə mi avete raccontato di come fin da subito abbiate voluto affiancare al momento sul dance floor la costruzione di uno spazio discorsivo, in cui ritrovare in una veste differente produttorə, djs e performer invitatə alle serate. Mi riferisco alle vostre zine, in cui avete raccolto interviste, saggi, recensioni: un vero e proprio spazio (grafico) che avete progettato e affiancato al party. Dalla pista alla pubblicazione: quanto c’è di simile e perché avete voluto aggiungere questo livello?
A: Verso la fine del 2018, Insieme ad Enrico Tarò, abbiamo iniziato a lavorare ad Amphibia World Zine. Mentre le nostre serate iniziavano a farsi un po’ più affollate, segno che il passaparola e il guerrilla postering stavano funzionando, l’esigenza di raccontare, espandere, comprimere ciò che succedeva durante i nostri eventi diventava concreta. Con Amphibia
World Zine abbiamo voluto lasciare una traccia. Una manciata di A4, stampati rigorosamente in bianco e nero. Come nel dancefloor, l’immaginario collettivo di Amphibia trovava nel formato editoriale uno spazio ancora una volta di aggregazione, nel quale ospiti, amici e l’affiatata comunità nata tra le mura del bunker veniva esplorata tra documentazione degli eventi, recensioni musicali, interviste agli ospiti, deliri grafici di amici. Tutte storie che oltre ad aver messo in discussione gli spazi del club come univocamente dedicati al ballo, si sono trasformate in un oggetto fisico, una traccia del nostro passaggio, un altro mezzo per comunicare e raggiungere nuovi pubblici, traghettandoci verso isole inesplorate. Pur essendo nata in stretta relazione ai momenti di ritrovo, per poi essere distribuita esclusivamente durante gli eventi (unico modo per averla!), dopo il primo numero – uscito a ottobre 2018 – siamo stati invitati da Dafne Boggeri a partecipare a SPRINT – Independent Publishers & Artists’ Books Salon a Spazio Maiocchi, Milano. A quel punto ci siamo resi conto che avremmo potuto rivolgerci a un pubblico nuovo e più ampio, propagando la rete di connessioni che tra lo spazio del club e quello editoriale si stava facendo più fitta. Per noi questo è stato un passaggio tanto fondamentale quanto inaspettato, divenuto poi un appuntamento fisso annuale che tuttora prosegue.
MB: La vostra attività editoriale è espansa. Avete lavorato con l’archivio di Ferruccio Belmonte, mente del primo Cocoricò, di cui avete curato “È amore. o è follia? Cocoricò 1991-1992”. Con Verso e in altre occasioni avete provato a costruire archivi in presa diretta (sotto forma di zine e prodotti editoriali), affiancando i momenti performativi o le maratone discorsive, nel tentativo di immaginarne una conservazione quasi istantanea. Mi accennavate al futuro, alla volontà di esplorare sempre di più l’archivio, anche come un luogo: cos’è per voi l’archivio e come interseca la musica e la night life? Può un archivio essere un dance floor?
A: Con Amphibia: Grafica e cultura del divertimento (tesi triennale di Jacopo) è iniziato un percorso parallelo di Amphibia, volto alla scoperta e mappatura della fenomenologia dell’intrattenimento notturno. Seguendo le fascinazioni di cui ci siamo cibati – a partire dai blockparty nel Queens, in cui mc, dj e graffitari si ritrovavano a ballare e dipingere nello stesso parchetto, passando per l’esperienza radicale che ha trovato nei club (vedi Space Electronic e Gruppo 9999) uno spazio di libera sperimentazione, fino ai veri e propri monumenti della notte come il Cocoricò degli anni 90 – Amphibia ha contestualizzato i propri intenti anche sulla base delle esperienze passate, oltre che affiancare alle proprie pratiche un nuovo approccio archivistico. Anche se Amphibia
World Zine si configurava già come forma di archivio, è solo dal 2019 che abbiamo iniziato a relazionarci con archivi esterni. Con Ferruccio Belmonte abbiamo ripercorso la genesi del Cocoricò, rispolverando materiali fino a quel momento inediti, editando una pubblicazione di 300 esemplari interamente fatta a mano. Lo scanner è diventato forse l’emblema di quel periodo, accompagnandoci nell’archiviazione e catalogazione di volantini, adesivi, fotografie e documenti fino ad oggi. Ultimamente ci siamo chiesti se l’idea di fare pubblicazioni stampate – anche a partire dagli archivi – non corresse il rischio di limitare il processo, rendendolo a volte un ciclo fine a se stesso, in cui la circolazione è limitata al momento della vendita. Non sarebbe forse ora il momento di ripensare a chi e a cosa servono gli archivi? E come potremmo costruirli insieme invece che custodirli gelosamente per poter essere rivenduti in pillole? Crediamo nella definizione di una memoria collettiva, multi-sfaccettata, che vorremmo perseguire con la creazione di una piattaforma d’archiviazione collaborativa e open source. Con l’idea di questo spazio aperto e libero per archiviare-immaginare-narrare, abbiamo avuto la possibilità con Verso (Fondazione Sandretto Re Rebaudengo) di testare la potenzialità partecipativa e performativa di creare archivi. In 48 ore abbiamo raccolto, disegnato, registrato, schematizzato, illustrato, fotografato, impaginato e stampato una pubblicazione intitolata Archivio Invisibile (2021), come forma di archiviazione spontanea degli incontri tenutisi in quelle ore. L’abbiamo fatto trovandoci tuttə nello stesso spazio, abbiamo condiviso gli stessi strumenti, radunandoci, respirando la stessa aria, sporcandoci le mani, facendo anche confusione tra quelle mura. Non sarà un dance floor ma le sensazioni sono molto simili.
CROSS PROJECT
Michele Bertolino: Ho conosciuto CROSS project tramite il progetto di residenza che organizzate ormai da diversi anni. Sono momenti di ricerca e di produzione, non necessariamente finalizzati a una immediata restituzione, ma profondamente legati al territorio. Anche il festival, altra attività che vede impegnato CROSS dal 2013, si stringe intorno a questa posizione geografica. Una collocazione periferica – tra il lago d’Orta e il lago Maggiore (con una delle principali sedi a Verbania) – con cui avete sempre intessuto legami. In che modo questa dislocazione determina le azioni e il carattere di CROSS?
CROSS: Il nostro progetto nasce in un luogo di confine, tra due laghi e in un territorio poco abituato alla cultura contemporanea. La collocazione geografica ha influito molto sulle nostre scelte artistiche e sulle linee progettuali. Verbania e in generale i Laghi sono luoghi geograficamente decentrati, una porzione di territorio che si trova sul confine tra Italia e Svizzera. CROSS si sviluppa in un territorio lontano dalle logiche in grado di garantire lo sviluppo culturale dei grandi centri urbani, inserita nelle traiettorie di un turismo prevalentemente estraneo all’offerta culturale, e ancorata a una memoria industriale di cui ormai rimangono solo le tracce e le rovine dei grandi complessi industriali. A partire dalla necessità di trovare una nuova forza propulsiva che contribuisca a creare senso di identità, di appartenenza e possibilità sostenibili per il futuro del Territorio, CROSS vuole essere agente del cambiamento all’interno di un territorio che cerca fortemente una sua nuova identità culturale. Mediante una serie di linee di azione, creazione e progettazione che interrogano luoghi (reali e/o immaginati) all’interno dello spazio urbano e naturalistico limitrofi, promuoviamo la cultura e la creatività quali forze motrici per modelli di innovazione sostenibili e socialmente inclusivi, capaci di produrre spazi di dialogo, incontro e confronto con la comunità di riferimento. CROSS Project è quindi la reale possibilità di sperimentare nuovi processi di rigenerazione culturale con la consapevolezza che una rigenerazione architettonica dei luoghi non è sufficiente: è necessaria invece una profonda revisione dei modelli culturali, attraverso una progettazione dinamica e aperta, che veda oltre il confine delle discipline e sappia mettere in dialogo artistə, urbanistə, botanicə, ambientalistə e che possa svilupparsi in tempi lenti e in luoghi rurali grazie ad un articolato progetto di residenze artistiche.
MB: Il cartellone di CROSS, tra la coreografia e la performatività contemporanea, raccoglie artistə da punti geografici differenti: Singapore, Corea, Taiwan, Uganda e numerosə italianə. Come avete costruito questa rete, fatta spesso di ricorrenze (artistə che trascorrono un periodo di residenza e poi, anche a distanza di anni ritornano a presentare il loro lavoro)? E quali sono le relazioni che si sedimentano tra performer internazionali e il pubblico o le realtà locali più piccole – penso ad Ameno o Orta San Giulio?
C: La crisi pandemica da Coronavirus ha sicuramente impresso un’accelerazione a un rapporto più forte e penetrante tra società e cultura, imprese e territorio. L’attenzione alla tutela dei diritti umani, la valorizzazione delle differenze, la salute e la sicurezza delle persone, la protezione dell’ambiente, con particolare riferimento al tema del climate change e la valorizzazione del paesaggio e dei territori sono condizioni irrinunciabili a ogni ipotesi di sviluppo.
Attraverso le proposte artistiche, anche internazionali, suggeriamo possibili soluzioni alla crisi sociale che stiamo affrontando, anche riappropriandoci gradualmente degli spazi urbani e naturalistici in cui viviamo. In particolare la presenza di artistə in residenza, di proposte innovative e l’incontro con il nostro pubblico sono fondamentali per rilanciare il prossimo triennio. Sin dal 2012, data di fondazione, le attività si concentrano sul coniugare attività di promozione, formazione e produzione di progetti legati ai linguaggi performativi contemporanei (danza, teatro contemporaneo, installazioni, performance interattiva, video arte, musica, circo e arti di strada) con la valorizzazione del territorio, contestualizzando i luoghi scelti attraverso percorsi e interventi artistici innovativi. Forte di una rete internazionale che lavora su questi temi da molti anni, CROSS Festival svolge da tempo un’attività prevalentemente di ricerca artistica attraverso la produzione e il sostegno di progetti legati ai linguaggi delle arti performative mediante un articolato programma di residenze, un bando annuale e il Festival che è incentrato soprattutto sulla fruizione e formazione del pubblico. L’interdisciplinarietà e l’innovazione sono la mission di CROSS, che nel 2020 ha ottenuto la certificazione ISO 2012 “eventi sostenibili”. Questo ci ha permesso di adottare una serie di strategie che attivano procedure di sostenibilità con il Territorio, stakeholder e pubblico. E il dialogo con i partner internazionali è arricchente anche in termini di soluzioni da adottare in tema sostenibilità, modelli ibridi di fruizione e utilizzo di nuove tecnologie.
MB: Mi avete accennato del futuro, che già vediamo nel programma di quest’anno, quando avete organizzato alcuni degli spettacoli direttamente nelle aree boschive del lungolago. La vostra progettualità si confronta con le amministrazioni locali, spesso si appoggia a queste. Riflettete su questioni sempre più urgenti e critiche, penso al pensiero e all’azione ecologica, alla necessità di intessere co-esistenze naturali o al movimento di fuga dalle città – uno degli effetti del Covid-19. Quali percorsi prevedete per i prossimi anni?
C: CROSS Residence e CROSS Festival 2022-2024 si fondano sulla convinzione che abitare i luoghi attraverso forme e pratiche artistiche costituisca un elemento in interazione dinamica con i territori, le entità e le comunità che li abitano. Si tratta cioè di una componente particolarmente fervida ed energica di un ecosistema sinergico. Attraverso l’esperienza decennale di ospitalità, siamo giuntə a concepire le programmazioni come una unità generatrice di pratiche ecologiche nei confronti del territorio, della ricerca artistica, della produzione culturale e, più in generale, del nostro modo di essere umani e di abitare il pianeta. Nel futuro concentreremo le nostre energie nell’approfondire, rendere solida e calare ancora più nella pratica questa intuizione, prendendo atto dell’urgenza di fronteggiare la relazione stretta tra rischio ambientale e vulnerabilità sociale. Intendiamo intercettare, produrre e immaginare un insieme di strumenti da mettere a disposizione, condividere e scambiare con il comparto dello spettacolo nelle sue varie e variegate manifestazioni. Lavorare sul pensiero ecologico correlato ai processi artistici produce ricadute estetiche, sociali, politiche e filosofiche su diversi ambiti e questo significa: contribuire a smantellare una logica estrattivista di turistificazione dei territori con un ingente “capitale naturale”, apparentemente incontaminato, e adottare un pensiero che privilegia il rispetto di una interazione dinamica tra comunità umane, mondo naturale, paesaggio, produzione culturale e processi creativi; sponsorizzare un’ottica di decentramento, che vada verso un riequilibrio culturale tra metropoli e provincia e che promuova, per contrasto, modalità di produzione culturale in controtendenza all’iperproduttivismo di un sistema insostenibile ormai al collasso; contribuire a rendere culturalmente stimolante, accessibile e sostenibile la vita nelle province in dialogo con la creatività contemporanea, corroborando una qualità della vita che spesso è sbilanciata verso infrastrutture verdi, minori livelli di stress e maggiore benessere economico, ma che spesso manca di offerta culturale innovativa; rilanciare la cultura “rurale” in un’ottica contemporanea, contribuendo a ridurre lo stigma di provincialismo e soprattutto sponsorizzando un’opera necessaria di diversificazione culturale, fondamentale al mantenimento di una “biodiversità” di estetiche di cui la scena delle pratiche performative italiane ha grande necessità; promuovere i linguaggi artistici come forma concreta di ricerca, di produzione di nuove visioni e di immaginari, quindi come forma di esplorazione dei futuri e allenamento pratico e patico ai mondi possibili, attraverso forme di speculazione solidamente intrecciata con la realtà.
queernotqueerness
Michele Bertolino: Definire qeernotqueerness è difficile, ma credo che non sia neppure necessario. Seguendovi e incrociandovi mi sembrate un organismo cangiante, brillante o, in altri casi, sfumato. Una galassia in espansione. Come vi siete riconosciutə inizialmente e come (o perché) avete deciso di iniziare a costruire una piattaforma come queernotqueerness insieme?
queernotqueerness:
a- queernotqueerness vive in un’amicizia virtuale, un incontro su chat-roulette
b- ai tempi aprimmo una camera pornobasilico, molti soldi e tanta freschezza c- che poi nel 2016 divenne pornopizza a marsiglia b- l’estate dei roghi, in provenza
a- virtualmente abbiamo aperto queste camere e poi ci siamo incontrate la prima volta ad ortigia c- fuori dal festival di ortigia, cazzi da succhiare a 10 euro
a- prima al festival di ortigia, poi pornopizza a marsiglia b- è difficile definirlo per chi non è dentro quel sistema, noi non abbiamo nessuna necessità di descriverci. perché è tipico di chi domina, la necessità di definire le cose come i confini, i generi, il nord e il sud.
c- rifiutiamo il genere sotto qualsiasi tipo di forma,
rifiutiamo di aderire alla forma autoriale, il tentativo di profilazione è un comportamento eterosistemico.
a- sappiamo che nel fare questo tipo di dichiarazioni risultiamo super sexy e appetibili per tutto il sistema (parcella minima 100 euro a sputo)
b- voyeristico io vorrei una prugna che galleggia nel profumo servita in un cappello da uomo, siamo racchiusə dentro questa esigenza che ci sembrava importante, ora più che mai: un cruising a cielo aperto per tuttə.
MB: Prima ad aprile poi a giugno avete organizzato due momenti in cui si sono sovrapposti diversi formati. Tavole rotonde, esposizione di zine, performance musicali, spettacoli di cantastorie, mostre. Hanno trovato spazio riflessioni sulla storia del movimento LGBTQ+, rivendicazioni attuali rispetto a un aggiornamento della legge 164 e riflessioni collettive sullo stigma perdurante di HIV e la necessità di ribadire U=U (undetectable=untrasmissable). Un unico punto di partenza: i corpi.
qnq a- ok partiamo dallə corpə:
infezione da clamidia (chlamydia trachomatis, compresi i sierotipi L1, L2, L3 responsabili del linfogranuloma venereo) gonorrea (neisseria gonorrhoeae), sifilide (treponema pallidum), ulcera venerea o cancroide (haemophilus ducreyi), donovanosi o granuloma inguinale (klebsiella granulomatis), infezioni batteriche non gonococciche e non clamidiali (gardnerella vaginalis, mycoplasma genitalium, mycoplasma hominis, ureaplasma urealyticum, streptococco di gruppo B), infezione da hiv (virus dell’immunodeficienza umana), herpes genitale (herpes simplex virus di tipo 2 e di tipo 1), condilomi ano-genitali (papillomavirus umano – HPV), epatite B (virus dell’epatite B – hbv) e epatite C (virus dell’epatite C – Hcv), mollusco contagioso (poxvirus), infezione da cytomegalovirus (cytomegalovirus), infezione da trichomonas (trichomonas vaginalis), pediculosi del pube (phtirus pubis), scabbia (sarcoptes scabiei)
c- li hai fatti i test? perché: test, prep, condom, dental dam, pillola del giorno dopo, pillola ru846
b- prima di aprile c’è stato novembre a berlino, un after party organizzato per la ghegehn al tiergarten. è stato un momento importante, abbiamo organizzato dei tavoli di lavoro, di riflessione su autoerotismo, pissing e fisting, algolagnia cioè dolore che colpisce le zone erogene che differisce dal sadomachismo, dendrofilia, asfissia, efefilia, teasing & denial, dirty talk, castità, cuckoldism, schiaffi in faccia, morsi, colpi, spinte, penetrazione violenta, negare il tocco o l’orgasmo, sputi, pugni, sculacciate, sesso orale a soffocare, insulti e bondage. alla gente piace anche dare baci che dimostrino il controllo, soffocare e sbatacchiare il bottom sul letto, sbatterlo contro il muro, pizzicare capezzoli, palle e labbra vulvari, afferrare e strizzare cosce/chiappe/braccia/polsi, tirare i capelli, spingere la faccia del bottom contro il cuscino, controllarne il respiro, turpiloquio, strappare i vestiti e dichiarare la propria “proprietà” di qualcuno.
MB: Sia la tre giorni di aprile sia l’appuntamento di giugno hanno ricamato l’idea di memoria, frastagliandola tra lo storytelling, l’immagine sfocata, la lingua spezzata, i vuoti e i silenzi. L’idea di una memoria che somiglia più a un oblio – quasi una forma di opacità (un balaclava) di fronte a richieste (altre) di trasparenza necessaria. Mi viene in mente, in particolare, l’ultimo momento che avete organizzato (a giugno) quando avete presentato una zine autoprodotta che è archivio, immagine, storia e fantasma. Cos’è per voi l’archivio? Esiste la possibilità di archiviare e, se sì, cosa si archivia?
qnq: oggi giorno si fanno musei su qualsiasi cosa, si archivia di tutto, adesso si sono svegliati che vogliono farne uno sull’omosessualità, ma è chiaro che se si vuole stare sulla cresta dell’onda parlare di orientamenti sessuali è vintage. come dire, cioè, certo che esiste la possibilità di archiviare quello che non esiste! piuttosto l’empatia.
continuiamo a vedere musei, mostre, archivi dove si parla di qualsiasi noia ma soprattutto dove si parla per invece di. chi ne fa le feci?
in realtà vorremmo essere dimenticate, quello che non è chiaro nella nostra cultura è che non si può prendere tutto ciò che ci piace, non è che se ai tuoi occhi è bello, te lo puoi prendere!
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