Avrebbe sessantaquattro anni l’artista cubana Ana Mendieta se nel 1985 non fosse precipitata dal 34° piano del suo appartamento di New York.
L’attualità della sua ricerca artistica, perpetuata dal 1972 al 1985 con energico spirito combattivo, porta a chiedersi come si sarebbe evoluto il suo lavoro, fortemente legato all’identità femminile e alla natura.
La sua opera, non sempre compresa dal mercato, fu simbolico esempio per artiste e performer delle generazioni successive.
La sua morte violenta in seguito al litigio con il marito Carl Andre, processato e poi prosciolto, lascia ancora misteri irrisolti.
La sua vita è determinata delle vicende politiche di Cuba: il padre, dopo aver aderito alla Rivoluzione di Fidel Castro, diventa controrivoluzionario e teme ripercussioni sulla famiglia.
Nel 1961 lei e la sorella sono accolte negli Stati Uniti nell’ambito dell’operazione Peter Pan e passano anni tra istituzioni religiose e famiglie adottive, sradicate dalla loro terra e dal nucleo familiare.
All’Università dello Iowa (dove, nel 1972, consegue il Bachelor of Arts, un Master of Arts in Pittura e un Master of Fine Arts in Intermedia) l’artista inizia a nutrire interesse per le culture primitive e matriarcali che hanno lasciato impresso nella roccia o nella pietra il simbolo sinuoso della Dea Madre come forza rigeneratrice.
In mostra un allestimento semplice e molto efficace ripercorre il flusso creativo dell’artista che si considerava “heart-body artist” con proiezioni, fotografie, disegni e sculture.
Ovunque è presente l’immagine del suo corpo mimetizzato con un elemento della natura: emblematico è L’arbor de la vida. Le sue Silueta diventano sempre più minimali.
La sua impronta è un simulacro ripetuto infinitamente, che vive anche animata da acqua, fuoco, sangue.
Curata da Beatrice Merz e Olga Gambari “She Got Love” è la prima retrospettiva della Mendieta in Italia, scelta felice che cade in un momento di forte incertezza sul futuro del Museo.