Samuele Menin: Lo spazio sembra essere l’elemento più importante dei tuoi lavori. Come lo percepisci e gestisci?
André Komatsu: Lo spazio è un dato molto importante per il mio lavoro. Esistono però anche altri quesiti e temi fondamentali per lo sviluppo delle mie opere, quali la situazione politica, sociale o economica. Io personalmente uso lo spazio per costruire e/o decostruire, per ripensare situazioni e idee radicate in un territorio e in un contesto sociale.
SM: Come decidi di interagire invece con la location dove devi mostrare il tuo lavoro?
AK: A volte utilizzo le location quali luoghi per creare una situazione, una discussione e in altri casi, quando lo spazio non è un white cube, preferisco fare alcune indagini sulla storia della zona alla ricerca di qualche avvenimento che potrebbe aiutare la nascita di domande utili alla realizzazione del mio lavoro in quel luogo.
SM: Nei tuoi lavori usi spesso materiali “poveri”. Perché? Che significato gli dai?
AK: Di solito nel mio lavoro uso questi materiali, come simbolo o come ricordo che essi stessi portano con sé. A volte il lavoro inizia a parlare attraverso le osservazioni delle situazioni codificate all’interno degli oggetti stessi. Forse la preferenza per l’utilizzo di questi oggetti grezzi è un modo per cercare di creare una connessione per me essenziale tra i pensieri concettuali e la vita ordinaria.
SM: L’architettura e l’idea di “casa” sembra uno delle maggiore fonti di ispirazione delle tue installazioni. Cosa è una casa per te?
AK: Questo tema è stato particolarmente presente, in alcuni lavori all’inizio della mia carriera. Nello specifico in Projeto Casa: Entulho del 2002, dove per un periodo di 30 giorni, ho raccolto oggetti trovati per la strada e vi ho costruito mobili all’interno della galleria, un modo per ripensare lo spazio bianco e ufficiale rendendolo un luogo maggiormente rassicurante. A ogni modo, dopo aver costruito molti oggetti, ho capito quanto fosse difficile trasformare questo spazio così ufficiale e atemporale in una “casa”. Per questo durante l’ultimo giorno di mostra ho distrutto tutto con un martello e con un’ascia, riportando poi il materiale negli stessi luoghi in cui era stato raccolto. Più tardi ho realizzato Mim Tarzan, você Jane, una struttura di tubi d’acciaio e casse di legno fissata su un’albero. L’opera richiedeva alle persone di arrampicarsi per raggiungere una posizione dove fermarsi, dove essere presenti in quel dato momento. Voleva essere un modo per far “vedere” il paesaggio di San Paolo e ripensarlo grazie al particolare punto di tale vista. “Home” era una proposta concettuale per cercare di svelare e umanizzare gli spazi. È stato un modo per iniziare a ripensare spazi pubblici e privati.
SM: Che significato rappresenta per te il “frammento” e lo “scarto”?
AK: Forse essi simbolizzano i ricordi e il significato di tutte le cose, rammentandoci il valore stesso degli oggetti, anche se sono stati scartati. Pensando, per esempio, alla storia recente dell’America Latina degli anni Sessanta e di come, dopo, la dittatura, l’intero sistema scolastico pubblico sia stato danneggiato, con la cancellazione meotodica di molti ricordi, creando un’enorme vuoto nella conoscenza e nella comprensione dei meccanismi di potere all’interno della società brasiliana. Ricordo, ad esempio, Paisagem (2005), un’opera in cui ho disegnato il palazzo che sarebbe stato edificato direttamente sul frammento di una vecchia casa demolita nella stessa area per permetterne la costruzione. Dopo anni sono poi ritornato a questo tema nella serie Três Vidros (2013), basata sull’estetica dell’architettura moderna, e ho realizzato dei modelli di architettura razionalista spinti però al collasso.
SM: Un altro tema che mi sembra molto presente nei tuoi lavori è quello del “collasso” della materia.
AK: Certo, il collasso, la rottura, il fallimento, il contrasto naturale/artificiale, azioni che hanno luogo entro vecchie strutture, regole e sistemi, sono i meccanismi per risvegliare il mondo al presente.
SM: Quando capisci che un tuo lavoro è in “equilibrio”?
AK: Forse si tratta di quel momento in cui sono in grado di connettere i miei pensieri con il processo spirituale del lavoro.
SM: Le tue opere spesso sembrano i resti di un’azione, di una performance. Quanto questo è importante per te e a cosa lo riconnetti, visto che hai incominciato come performer?
AK: All’inizio della mia carriera ho fatto qualche performance, la maggior parte delle quali per le strade e senza pubblico, solamente riprese da una videocamera. In quel periodo queste azioni erano qualcosa di importante per me, per provare a comprendere la relazione tra il corpo e l’ambiente. Ad esempio in Ou até onde o sol pode alcançar, 2006, ho camminato per le strade di San Paolo, da Est a Ovest, cercando di seguire lo stesso percorso che il sole segue all’interno della città, con la guida di una bussola. Ho cercato di seguire una percorso lineare insistendo inutilmente per distruggere limiti fisici e sociali. Probabilmente l’unica performance alla presenza di un audience è stata Mato sem cachorro não tem dono, 2005, nella quale riflettevo sulla naturale tendenza dei cani a urinare per marcare il territorio seguendo un’ordine gerarchico. In quell’occasione ho costruito due scatole di legno con della sabbia all’interno (per fare in modo che sembrassero delle sabbiere per gatti, un luogo che stimola l’animale a fare i propri bisogni in quel determinato spazio), posizionati agli angoli dello spazio espositivo. L’azione prendeva il via durante l’inaugurazione, con questi spazi quali unici luoghi dove poter urinare. Qualche anno piu tardi ho iniziato a essere più scultoreo, lasciando le prove delle azioni anonime che prendevano vita all’interno dello spazio.
SM: Da quali caratteristiche dei tuoi lavori pensi che emerga il tuo essere brasiliano?
AK: Probabilmente, se il pubblico pensa agli avvenimenti politico-sociali del momento storico in cui viviamo, si può intuire qualcosa…
SM: Quale sarà il titolo del tuo prossimo lavoro? Di cosa parlerà?
AK: Il mio prossimo progetto consiste in una presentazione all’interno del Padiglione Brasile alla Biennale di Venezia, dove verranno esposti due lavori. Il primo è una nuova istallazione, Status quo, una struttura di acciaio che andrà a formare un’area semi chiusa che separa lo spazio espositivo in due spazi completamente opposti, riproducendo la paradossale condizione della libertà. Verranno realizzati due percorsi tra la griglia e le pareti del padiglione costringendo il corpo ad addossarsi a queste ultime. Il secondo lavoro O estado das coisas 2 (três poderes), 2011, che ho presentato per la prima volta alla Biennale di Mercosul, è un’asta appesa e fissata alla facciata dell’edificio. Su quest’asta ci sarà una corda di cotone bianco e un paio di sneaker usate. Il supporto che dovrebbe permettere alla bandiera di svolazzare, rivelando il simbolo della nazione, diventa così più noiosa e anonima. Un’inversione di significato di questo oggetto, solitamente portatore di uno status più nobile.
SM: A tuo parere, quali caratteristiche deve avere un lavoro per essere “perfetto”?
AK: L’opera, per essere “perfetta”, deve tentare di essere anonima.