Silvia Conta: Con tre pellicole – Wunderkammer (2008, cortometraggio), Medeas (2013) e Hannah (2017) – hai guadagnato l’attenzione della scena cinematografica internazionale, ottenendo importanti premi e riconoscimenti come la Miglior Regia al Marrakech Film Festival, premiato da Martin Scorsese, e il Miglior Film al Palm Springs International Film Festival. Un’ascesa coronata quest’anno alla 74a Biennale del Cinema di Venezia con la conquista della Coppa Volpi da parte di Charlotte Rampling, sotto la tua direzione in Hannah.Tre film diversi tra loro, uniti nella tua ricerca di un cinema di grande profondità, capace di ritrarre personaggi molto complessi con cui lo spettatore è libero di creare un rapporto del tutto personale. Hai affermato che cerchi di esplorare la natura umana con un linguaggio poetico, come lavori per farlo?
Andrea Pallaoro: Il mio obiettivo è di instaurare con il singolo spettatore un rapporto il più introspettivo possibile, che entri in risonanza direttamente con il mondo interiore dei personaggi. Lo scopo è dare la possibilità allo spettatore di riflettersi nella condizione emotiva e psicologica del protagonista del film, senza suggerirgli cosa provare o a quali conclusioni arrivare; e lasciarlo, invece, libero di giungere alle proprie conclusioni e di capire aspetti di se stesso proiettandosi nel personaggio. Questo è il mio obiettivo massimo, la vera catarsi del cinema a cui aspiro: l’opportunità di riconoscersi e capire meglio se stessi.
SC: Quali argomenti ti interessano maggiormente?
AP: Sono sempre stato attratto da personaggi spesso emarginati o incompresi dalla società, attraverso l’esplorazione di temi quali l’alienazione, l’incomunicabilità e l’abbandono. Un elemento che ha segnato tutte le mie opere è il rapporto di alienazione che un individuo può avere con il resto della società. Per riuscire a trovare un linguaggio cinematografico che riuscisse a riflettere la mia visione del personaggio nel modo più eloquente e più sincero possibile, è stata necessaria una lunga ricerca formale, che credo si condensi in Hannah.
SC: In questo rientra il bilanciamento tra informazioni esplicitate e celate all’interno del film?
AP: La relazione tra ciò che viene detto e ciò che non viene detto è fondamentale: spesso quello che resta fuori dall’inquadratura o non viene svelato è importante quanto ciò che viene rivelato. Attraverso questo delicato equilibrio si instaura una dinamica in cui si cerca di eccitare l’immaginazione dello spettatore o di creare un senso di angoscia e ansia, a volte nascondendo piuttosto che mostrando. Ci sono grandi maestri, per me punti di riferimento, come Henri Cartier-Bresson, che fanno molto leva sul concetto di erotismo velato, di eccitare, appunto, l’immaginazione dello spettatore nascondendo informazioni o azioni piuttosto che mostrandole.
SC: Come si traduce questo in un film?
AP: C’è un mio preciso interesse di voler fotografare il pensiero del personaggio, anziché raccontare quello che se ne può dire. Sono molto interessato a tracciare un ritratto dei personaggi che non porti mai lo spettatore a giudicarli, perché trovo che in ogni giudizio ci sia un limite alla comprensione. Tendo quindi a eliminare tutto ciò che può andare in questa direzione. In molti film o in molte espressioni artistiche di vario tipo noto il bisogno di sottolineare nessi logici, cause e conseguenze, fatti e pensieri, un modo di procedere che nella vita reale non trova un riscontro tangibile. Questo desiderio o bisogno di specificare sempre, di dare delle risposte, spesso mi infastidisce, perché si tratta di soluzioni chiuse e limitanti che inducono lo spettatore a trarre conclusioni superficiali, mentre lasciandolo libero di sviluppare considerazioni personali c’è la possibilità di raggiungere profondità maggiori.
SC: Puoi fare un esempio?
AP: In Hannah non viene mai esplicitata la ragione per cui il marito viene incarcerato, lo si può dedurre da diversi elementi, ma non viene espresso chiaramente di cosa il marito sia accusato. Ho voluto che il coinvolgimento dello spettatore avvenisse esclusivamente in relazione al dramma interiore di una donna intrappolata nelle sue insicurezze, nel suo senso di dipendenza e di devozione nei confronti del compagno. La sua è una disperazione che mi tocca profondamente e che ho voluto concentrare senza le distrazioni spesso superflue di ciò che sta attorno al personaggio. Ho voluto proprio penetrare questa sofferenza.
SC: In alcune occasioni pubbliche hai definito il tuo un cinema sensoriale…
AP: Penso che il mio cinema sia sensoriale perché, invece di focalizzarsi su una traccia logica di come si svolgono i fatti o su una narrazione causa-effetto, si sviluppa lungo un’osservazione fisica ed emotiva del personaggio. In questa scelta c’è l’elaborazione di un linguaggio che riesca a trasmettere allo spettatore una situazione ricca di quegli stimoli sensoriali – visivi, acustici, tattili e olfattivi – che le appartengono nella realtà, perché ritengo siano questi gli elementi che possano portare a un percorso più intimo dello spettatore.
SC: Quali elementi impieghi, a livello tecnico, per dare vita a un effetto di questo tipo?
AP: Cerco di adottare un linguaggio cinematografico coerente. Ad esempio non utilizzo colonne sonore non diegetiche, non c’è un uso della musica emozionante. Il montaggio stesso del film è quasi ellittico nel suo rapporto tra scena e scena: è un montaggio che, anch’esso, punta all’osservazione. Anche il rapporto che la cinepresa ha con il personaggio è volto a un’osservazione introspettiva. Sono caratteristiche di una grammatica cinematografica volta a manipolare il meno possibile lo spettatore nella costruzione del suo rapporto con il personaggio e la storia.
Più specificamente, dal punto di vista formale, con il direttore della fotografia Chayse Irvin, abbiamo cercato di sviluppare un linguaggio che riuscisse a riflettere il dialogo costante tra il personaggio e il mondo che lo circonda, prestando molta attenzione agli interni abitati dai protagonisti, allo spazio esterno e al concetto stesso di spazialità, che è parte attiva nel costruire il dialogo tra interno-psicologico ed esterno-fisico.
SC: Hai definito il tuo un cinema minimalista. Come va intesa questa affermazione?
AP: Il mio è un cinema il cui linguaggio cerca di essere il più essenziale possibile, privo di ridondanze, ma ricco di ripetizioni che hanno un valore concettuale: lo definisco un cinema minimalista perché punta direttamente all’essenziale, alla sottrazione di tutto ciò che non è necessario.
SC: Credi che questa sottrazione possa spingersi oltre il livello che hai già raggiunto?
AP: Questa è una domanda che mi pongo in continuazione e penso sia una scommessa con me stesso: a che punto si arriva al limite? Qual è il limite della sottrazione? É una risposta che non sono ancora riuscito a darmi. Trovo, tuttavia, che proprio in questa sottrazione ci sia un riflesso del disorientamento e del senso di confusione che i protagonisti stessi provano nei film, specialmente nel caso di Hannah. Da parte dello spettatore c’è un continuo chiedersi cosa è vero e cosa non lo è, questo trova un parallelo anche in certi momenti del film, quello, ad esempio, in cui Hannah è nella classe di recitazione: qui entra in scena esattamente il senso di disorientamento in merito a che cosa è vero e cosa non lo è, su cosa è performance e cosa è realtà, che credo possa far parte di un viaggio molto personale che lo spettatore può intraprendere.
SC: Da dove nasce, in generale, questo tuo approccio?
AP: Penso sia un mio modo di procedere istintivo, che passo dopo passo nasce dalla mia osservazione del personaggio. Cerco di scavare nelle immagini, nelle situazioni che credo diano la possibilità – a me innanzitutto e spero anche al pubblico – di arrivare a un’intimità profonda con il soggetto rappresentato. C’è poi l’ispirazione che mi deriva da grandi punti di riferimento cinematografici e non, come ad esempio Michelangelo Antonioni, Chantal Akerman, Lucrecia Martel, John Cassavetes, Béla Tarr, Tsai Ming-liang, per nominarne solo alcuni…
SC: Hannah è il primo film di una trilogia…
AP: Sì, è una trilogia che si focalizza su personaggi femminili e inizia con Hannah, una donna costretta a ridefinire la propria identità. Il secondo “capitolo” si intitola Monica ed è l’osservazione, il “character study”, di un personaggio transgender, una donna transessuale che fa ritorno alla casa materna dopo una lunghissima assenza per prendersi cura della madre morente, in uno stadio avanzato del morbo di Alzheimer. É un film ispirato alla storia di una persona a me molto cara, un’amica, ed è, anche per questo, un progetto a cui tengo moltissimo. È un film che esplora il tema dell’abbandono e delle sue conseguenze. Il terzo film, invece, è in fase di sviluppo e non mi sento ancora pronto a parlarne.
SC: Realizzare un film è un lavoro immenso. Che cosa resta dopo la sua conclusione? E come riesce un gruppo tanto numeroso quanto quello dei collaboratori di una produzione cinematografica a raggiungere un’effettiva e sincera comunanza d’intenti?
AP: Si cerca sempre di rimettersi in discussione e di trovare nuove scommesse con se stessi e con il resto del mondo. Penso che nella parte di scrittura di un film si entri profondamente in rapporto con se stessi, in una ricerca personale che diviene un’esplorazione, mentre nella fase che va dalla produzione al montaggio prevale il rapporto con i collaboratori. Il film è il risultato di un lavoro di gruppo molto complesso che è ispirato dall’interazione tra tantissime collaborazioni diverse. Come regista è per me fondamentale creare sul set un rapporto di stima e di fiducia tra tutti i miei collaboratori: dal direttore della fotografia, alla montatrice, alla production designer, agli attori, a tutti i collaboratori. Per arrivare al necessario grado di intimità dove ognuno si possa sentire nella condizione di dare il meglio, ci vuole grandissima fiducia. In questo senso, per esempio, con Charlotte Rampling è stato preziosissimo e fondamentale il fatto che prima dell’inizio delle riprese avessimo avuto due anni e mezzo di tempo per conoscerci e creare un rapporto di intimità che ci permettesse di assumere insieme dei rischi. Questo è l’aspetto principale per realizzare un percorso creativo di questo tipo.
SC: Proprio in merito al percorso creativo, c’è un aspetto che pensi sia stato per te particolarmente influente?
AP: Un elemento che ha senza dubbio segnato il mio percorso fino a ora è la mia condizione di straniero, di diverso, in cui mi riconosco molto, che ha influenzato gran parte della mia vita e che forse, inconsciamente, ho cercato di creare per me stesso: all’età di diciassette anni sono andato a studiare negli Stati Uniti e poi ci sono rimasto per studiare cinema a Los Angeles e, in seguito, per vivere e lavorare. Non sono più tornato a vivere nel mio paese d’origine, benché all’inizio avessi dato per scontato che lo avrei fatto. Credo che “essere straniero” condizioni profondamente il proprio approccio nei confronti del mondo.
SC: Che relazione hai con il pensiero di ciò che una persona porta via dalla visione dei tuoi film?
AP: Non mi sento in dovere – o in potere – di controllare che cosa lo spettatore porta via, quindi per me non è essenziale questo aspetto o che tipo di percorso faccia guardando il film. È per me però fondamentale che il film offra allo spettatore la possibilità di compiere un percorso personale e a far proprio ciò che può essere importante, o almeno utile, in quel momento della sua vita.
SC: Per lo scrittore Mario Bellatin, un autore a te caro, il senso profondo di un libro è oltre le parole…
…come il senso del film va al di là delle immagini proposte. Il senso risiede in ciò che le immagini suggeriscono e nel potenziale che il pubblico può cogliere: in questo sta il vero potere di un’opera cinematografica.