Francesco Garutti: Untitled (Ruhrtal) (2008) trae spunto da un gigantesco viadotto in cemento che si trova in Germania. Puoi parlarmi dell’origine di quest’opera?
Andreas Golinski: Il lavoro fa riferimento a un ponte che collega la Ruhr, regione da cui provengo, con la Renania. È il ponte in acciaio più lungo della Germania e rappresenta una delle opere pubbliche più importanti nell’Europa del secondo dopoguerra; poggia su diciotto colonne cave e la sua sovrastruttura consiste in un’unica trave a scatola in acciaio. Ciò che mi interessa è la sua particolare architettura e il modo in cui strutture di questo tipo possano diventare prigioni. In particolare, è stato un fatto avvenuto qualche anno fa a colpire la mia attenzione: il rapimento di una bambina che venne rinchiusa all’interno dell’enorme trave a scatola in acciaio, nella parte inferiore del ponte. È una storia incredibile perché i rapitori si accorsero di aver rapito per errore la figlia del custode del ponte e decisero di lasciarla morire imprigionata là dentro: se l’avessero liberata, sarebbe stata in grado di riconoscerli. Generalmente il ponte viene ispezionato solo una volta all’anno, ma fortunatamente, dopo undici giorni di prigionia, la bambina fu trovata casualmente da qualcuno e tratta in salvo.
L’opera è composta da diciotto pali in acciaio tinti di nero, in posizione verticale e appesi al muro, a formare uno spazio analogo a quello che si trova nella parte inferiore del ponte.
FG: Guardando le immagini di questo lavoro e le foto che mi hai mostrato, mi è venuta in mente la storia dei ponti di New York disegnati da Robert Moses negli anni Trenta. Egli li concepì volutamente molto bassi, in modo da impedire il transito degli autobus che trasportavano le persone di colore verso le spiagge e i parchi di divertimento della città. Soltanto le auto private, solitamente guidate dai bianchi, riuscivano a transitarvi. Questi ponti erano, in un certo senso, delle strutture razziste. Mi interessa l’idea che un prodotto di ingegneria civile, apparentemente tecnico e oggettivo, possa diventare protagonista di un’inquietante strategia politica. Allo stesso modo, nella tua opera, spazi architettonici e urbani nascondono delle storie, racchiudono una sorta di eco sileziosa. Sei d’accordo?
AG: Se pensiamo a personaggi come Moses o Speer, ma anche ad alcuni architetti contemporanei, il problema risiede nel fatto che quando si raggiunge un ruolo di potere o si ottiene la possibilità di realizzare determinate opere, si perdono di vista le proprie idee e si entra a far parte di un meccanismo in cui sarebbe meglio non entrare — un gioco, un gruppo politico, ecc. In quel momento si perde il senso. Lo stesso accade nell’arte; forse è per questo che si può parlare di un’eco silenziosa nel mio lavoro: le storie della vita vera, che accadono ventiquattro ore al giorno, dietro i muri, non sono mai insensate o prive di importanza, perché le vite possono cambiare completamente in un istante; sono storie che accadono intorno a noi in continuazione, ma non ne siamo consapevoli.
FG: Questa idea di ascoltare le storie nascoste dietro ai muri mi fa pensare al film Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders. Sembra che la narrazione giochi un ruolo cruciale nel tuo modo di operare. Come scopri le storie e le trame che entrano a far parte dei tuoi lavori?
AG: Il cielo sopra Berlino è un film molto significativo per me, perché sono andato a Berlino per la prima volta con mio padre — era un vero ragazzo berlinese! — proprio nel periodo in cui il film è stato girato. È interessante vedere quanto la città sia cambiata e quanto del suo fascino sia andato perduto, gli spazi vuoti stanno sparendo.
Per alcuni anni ho guardato i film senza le immagini, ascoltandone solo l’audio. Solo in un secondo momento li riguardavo anche con le immagini. Questo esercizio mi piaceva molto; soprattutto i film di Jean-Luc Godard sono molto meglio senza le immagini!
Talvolta le storie e le trame dei miei lavori traggono ispirazione da certi film — per esempio, sto preparando un nuovo video che risente dell’influsso del Decalogo di Krzysztof Kieślowski —, oppure mi basta tenere gli occhi e le orecchie aperti, attingere alle mie esperienze e alle mie letture. A volte le cose sono proprio davanti a te, non c’è bisogno di cercare lontano. Prestare attenzione è la cosa più importante.
FG: Alcune delle tue installazioni somigliano a delle mise-en-scène della memoria. Una volta mi hai parlato della tua passione per il Nuovo cinema tedesco e per il teatro degli anni Settanta e Ottanta. Puoi spiegarmi meglio il modo in cui il cinema ha influenzato la tua pratica artistica?
AG: Come ho detto in precedenza, per circa tre anni ho esaminato molti film, solamente ascoltandone l’audio. Questa pratica ha esercitato una grande influenza sul mio lavoro. All’epoca c’erano moltissimi bravi registi in Europa, era un periodo incredibile! Ero interessato anche al teatro, ma non ho mai avuto la possibilità di vedere dal vivo uno spettacolo di Heiner Müller (ero troppo giovane quando lui era ancora vivo). Ho letto e ascoltato tutti i suoi romanzi, le poesie, i testi teatrali, i racconti, i radiodrammi, ecc. Mi piaceva il fatto che utilizzasse il linguaggio semplice degli operai. Penso che Fassbinder e Müller abbiano molto in comune.
FG: “Lo spazio è curvo o diritto?” si chiedeva Mario Merz nel 1974. Oggi lo spazio sembra essere in qualche modo “piegato”. Nonluoghi, jet lag e déjà-vu sono metafore di questo concetto. In alcune tue opere, come Schächte (2007) o Lost Dreams (2008), è molto evidente la relazione tra memoria, architettura e inconsapevolezza privata. Puoi parlarmi più specificatamente dello spazio della memoria che esplori con la tua pratica?
AG: La mia ricerca sulla memoria è molto semplice ed è connessa soprattutto al senso di colpa. Spesso i miei lavori hanno a che fare con storie che vogliamo dimenticare, forse perché ci fanno sentire a disagio. Alcuni luoghi particolari sono caratterizzati proprio da ciò che tu hai definito un’“eco silenziosa”.
In Schächte mi trovavo sotto terra, in una miniera di carbone. Ho registrato i suoni che la abitavano ma, cosa più importante, ho incontrato un vecchio minatore che aveva lavorato là sotto per quarant’anni. Dopo quasi tre mesi di incontri e conversazioni, egli mi ha donato tre lampade da minatore. Una apparteneva a un suo amico che morì in un incidente nella miniera. Mi raccontò tutti i suoi ricordi, mi cantò delle canzoni e mi mostrò degli appunti che aveva scritto mentre era sotto terra. Credo sia questa la vera realtà.
Trovo molto interessante come l’architettura possa ingoiarti e trasformarsi in una prigione. Per Lost Dreams ho lavorato per tre mesi in una fabbrica. Gli operai mi trattavano come uno di loro — non sapevano che fossi un artista —, come qualcuno che non ha potuto inseguire i propri sogni e lavora lì, giorno dopo giorno, sei giorni a settimana, dalle nove di sera alle sei del mattino, senza via di fuga. Mi hanno raccontato le storie della loro vita e come sono finiti a lavorare in fabbrica.
FG: Mi affascinano molto le storie trasmesse oralmente. È un fenomeno strettamente connesso alla diffusione del pensiero e delle informazioni. Spesso la comunicazione orale è parte integrante del tuo processo creativo.
AG: Sì, la trasmissione orale è uno dei motivi alla base del mio lavoro. Le persone che vivono da tempo in una determinata area, anche se si tratta di una grande città, conoscono delle storie che solo gli abitanti possono conoscere, sebbene alcune di queste siano spesso solo pettegolezzi. Il dialogo con gli abitanti di un luogo è essenziale per me. Conoscono ciò che i giornali non vogliono dirci.