Pensare alle immagini di Annette Kelm è come pensare a una potenziale fotografia. Una fotografia che è Unheimlich, che in italiano significa “inquietante”. Data la provenienza di quest’artista, preferisco focalizzarmi sul termine tedesco, che letteralmente si traduce con “non accogliente”. Freud usava questa parola per descrivere una cosa che assomiglia a qualcosa di familiare, ma allo stesso tempo crea una specie di disagio, dovuto al suo essere diverso. Nella serie “Michaela Coffee Break” (2009), una giovane donna è fotografata più volte in posizioni leggermente diverse, ma sempre seduta e con in mano una tazza di caffè. Eppure c’è qualcosa che non quadra: la sua è una posa che non le rende possibile bere il caffè. Tiene la tazza troppo in alto, a un lato del capo. È come una statua. Sta posando per un ritratto del passato. Non è a casa, ma è altrove, in un luogo dove una tazza di caffè è un oggetto di scena. Ed è anche una fotografia. Alcune immagini della serie, sbiadite e sgranate, sembrano la fotografia di una fotografia. Non c’è un’immagine dominante, ma ci sono più versioni della stessa cosa, anche se non sono la stessa cosa, perché in ognuna la posa è diversa. Inoltre le fotografie non sono stampate con un’unica tecnica. Nessuna versione è riconducibile a un’altra, e nessuna ci fornisce più informazioni rispetto a un’altra. C’è la ripetizione e la differenza, e noi spettatori siamo curiosi di non sapere esattamente che cosa stiamo osservando: una fotografia di una fotografia, una fotografia di una giovane donna che posa, una fotografia di una statua. Qualcosa ci è familiare, e qualcosa no.Molte delle serie dell’artista evocano scene quotidiane che sono o potrebbero essere domestiche, ambientate sia all’interno che all’esterno di una casa. Immagini di stoffe, di piante, di macchine e altri elementi, poco spettacolari, dell’universo quotidiano. Al contempo, queste immagini tendono a qualcosa di non così reale. I motivi delle stoffe, come per esempio in Big Prints #6 (Jungle Leaves — Cotton Twill 1974 Design Dorothy Draper, Courtesy Shumacher & Co) (2007), sembrano appartenere a un’altra epoca, sono macchiate e segnate dal tempo. Oppure, una macchina senza paraurti né vetro o targa (Art Car, 2007). In Untitled, Oranges (2007) un piccolo albero di arancio viene fotografato serialmente su uno sfondo giallo-verde, un motivo che evoca il tipico décor dei salotti anni Settanta. Ma la stanza non c’è, e ancora una volta, ciò che ci sembra familiare non lo è.
Lo spazio domestico — inteso sia come spazio fisico, sia come una serie di elementi di uso domestico — non ha un ruolo stabile nel lavoro della Kelm. Anche la cosa più familiare è comunque distante. Per esempio, la famosa serie “Caps” (2008) presenta immagini di cappelli trovati a Chinatown, New York, fotografati da diverse angolazioni. Di primo acchito ci appaiono emblematici cappellini da baseball americani (quindi “familiari”), eppure così visibilmente “estranei”, in quanto fatti di paglia. Fotografati su uno sfondo bianco, sembrano immagini di un catalogo improbabile di prodotti stranamente familiari. Un cappello da baseball per la raccolta del riso.
C’è una dissonanza culturale in queste immagini. Marx sostiene che i beni sono alienati dal lavoro che li ha prodotti. Le scarpe da ginnastica che troviamo in un superstore non portano tracce della loro provenienza, che sia una fabbrica in Cina, Messico, Thailandia, Queens, né dei lavoratori che le hanno prodotte. Sono magicamente pronte al consumo. Rovesciando le aspettative legate all’oggetto di consumo, la Kelm demistifica l’origine di tantissimi prodotti attorno a cui ruotano le vite di noi consumatori. Un cappellino da baseball di paglia assume un significato molto diverso da quello più familiare di stoffa. Non ha nomi di squadre né marchi. La diversità del materiale ci porta dunque a pensare alla distanza fisica, a dove e come questi prodotti siano stati fabbricati.
È stato più volte sottolineato che le immagini della Kelm sono attentemente prodotte, e che l’artista scatta e stampa le sue fotografie in analogico. La sua poetica è presente in tutte le sue immagini, anche se non in maniera esplicita; questo lavoro è comprensibile solo attraverso il senso di Unheimlich che è presente nelle sue opere.
Nella serie “Michaela Coffee Break” e “Stars Look Back” (2006) il processo operativo dell’artista ha un ruolo primario. Come già detto, in “Michaela Coffe Break” alcune immagini sembrano fotografie di fotografie, stampate in modo da apparire imperfette. In “Stars Look Back”, piccoli cambiamenti nelle angolazioni di ripresa dell’oggetto fotografato, così come i cambiamenti di colore, di luce e consistenza nelle tre fotografie danno la sensazione di essere realizzate con materiali diversi. Come quella che ritrae un tavolino Bauhaus posizionato su un plaid che fa da sfondo. Una fotografia sembra tinta di blu; le altre due sono qusi monocromatiche. In una c’è il riflesso di un flash, come se il soggetto fosse stato fotografato attraverso un vetro. Nessuna è tecnicamente perfetta, ed è qui che si nota il processo operativo. Attraverso le imperfezioni, rese più evidenti dal raggruppamento di tre immagini che hanno lo stesso sfondo, l’idea di creare una rappresentazione fotografica “reale” di un oggetto è messa in discussione. L’iterazione degli oggetti e le diverse tecniche di stampa complicano l’idea dell’immagine. Restiamo quindi con più versioni di un’idea di rappresentazione, molteplici versioni di una fotografia verosimile. L’era di Photoshop non ha eliminato la verità fotografica; questi problemi sono sempre esistiti. L’utilizzo della Kelm di tecnologie analogiche e il rifiuto del digitale le permettono di sottolineare come la rappresentazione fotografica sia sempre qualcosa di altamente costruito e plasmato. Non esiste la rappresentazione perfetta; ci sono solo livelli di lavoro e tecniche applicati alla produzione di qualcosa che appare, o in questo caso, non appare, reale.
Il lavoro della Kelm fornisce un modo inedito di pensare alla fotografia, che è molto di più dell’insieme dei suoi lavori. Come un rapace, attinge a più fonti. I soggetti che sceglie di fotografare contengono elementi che si rifanno alla storia dell’arte, al vissuto personale e all’origine culturale e geografica dei beni di consumo. Spesso questi elementi sono elegantemente agglomerati in un’unica immagine, una serie, o un contesto espositivo attentamente studiato.
Anche se l’Unheimlich è una forza seminale e operativa nel lavoro della Kelm, alla fine, uno spettatore prova paradossalmente una sensazione di familiarità. O, almeno, di cosa questo concetto possa significare, dell’ambiente che sta documentando. La casa esiste solo in relazione allo spettatore, è uno spazio mutevole, mobile. Come spettatori e consumatori di informazioni e di beni di consumo, di immagini e di esperienze, esistiamo soltanto in relazione a ciò che abbiamo di fronte. Siamo qualcosa a metà strada tra la differenza e la ripetizione delle sue fotografie, le dislocazioni e i suoi crolli, siamo spettatori e abitanti di uno spazio specifico. Ci sentiamo a casa in uno mondo caratterizzato dall’incertezza: è un mondo costruito sulla poetica della presenza, un mondo che è “il posto per noi”.