Una costante nell’intero corpus di lavori del tedesco Anselm Kiefer è la messa in discussione dell’obbiettività della storia. Secondo Kiefer, essa è puramente nelle mani dell’artista-demiurgo.
Sta a lui plasmarla, darle forma, scandagliarne i cascami. Operare plurime letture, diacroniche e sincroniche, per disegnare connessioni generatrici di senso e di nuovi, potenti, immaginari. Una crasi fra memoria personale e collettiva, tradizioni ancestrali e archetipi.
Nel corso degli anni, Kiefer ha attinto alle grandi narrazioni, ha fatto di se stesso il soggetto della sua arte, ha toccato, non senza critiche, drammi profondi e reinterpretato iconiche figure di leader carismatici come Mao Zedong, per poi inseguire esoteriche suggestioni derivanti dallo studio della cabala fino alle più recondite pratiche alchemiche.
Kiefer raccoglie e ricodifica un repertorio visuale che, astratto da un predeterminato hic et nunc, attraverso il medium pittorico e scultoreo viene proiettato nel territorio del mito.
Le opere si fanno catalizzatori di flussi di energia. Un’energia che trova nel segno e nella materia la propria espressione (si tratti di piombo ossidato mai uguale a se stesso per via di un particolare trattamento elettrolitico, di sabbia o di densi e pastosi strati di pigmenti), induce trasformazioni, provoca cambiamenti, fisici e, di riflesso, spirituali.
Nella personale alla Galleria Lia Rumma, Kiefer posa lo sguardo su quella che è stata definita la “culla della civiltà”, la Mezzaluna fertile, lembo di terra che si estendeva dall’antico Egitto fino alla Mesopotamia.
Parla di templi, vestigia, monumenti e documenti di epoche e civiltà lontane eppure riunite in un ideale abbraccio sincretico. Ma, ancora una volta, è il punto di partenza, un pretesto.
L’imponente Der fruchtbare Halbmond (2009), la babelica Bavel Balal Mabul (2012), o, ancora, Fulcanelli: il mistero delle cattedrali (2012), scagliano memento terribili alla posterità e, al contempo, stimolano il recupero di un pensiero più ampio e trasversale.
Sempre con cieca e sincera fiducia nella valenza salvifica dell’arte. Perché, come evidenzia l’artista, “sappiamo che quando tutto sarà finito, l’arte continuerà”.