Michele Robecchi: Di recente ho visitato “Dance Your Life” al Centre Pompidou. C’era un video di William Forsythe sulle geometrie della danza, dove a un certo punto lo si vedeva muovere intorno a un fermo immagine di se stesso. Per qualche ragione mi ha fatto pensare al tuo lavoro.
Antony Gormley: Sì, l’ho visto anche io. In effetti è uguale a Zero Degrees (2007) e all’idea della copia di noi stessi in quanto oggetto. Zero Degrees giocava molto sulla distinzione del corpo come idea e come episodio in movimento. C’è una strana relazione tra fascismo e libertà in quella mostra, è interessante vedere come nel nome di una libera espressione si finisca spesso con il creare strutture accademiche o disciplinari. Il vero punto di collegamento tra il mio lavoro e la performance art, e per certi versi anche il teatro, è l’idea di elevazione, di evento. Mi interessa concentrarmi su un momento di unificazione con il corpo, e di come poter sostenere quella sensazione. Credo sia importante riconoscere che ci sono cose non accessibili al linguaggio o alla dialettica, che fanno parte di un’esperienza fisica. Non mi considero né un minimalista, né un impressionista, spero di essere un realista, e quello che voglio non è usare il corpo per comunicare una sensazione, ma permettere allo spettatore di essere una sensazione, e di sostituire la rappresentazione con la riflessione. Questi corpi utilizzano lo spazio in un modo che invita a pensare al proprio ruolo in relazione alla loro presenza. Sono un invito a riconsiderare il corpo non come oggetto, protagonista di una storia, figura idealizzata o ritratto, ma come luogo.
MR: Quindi si tratta di trasformare un’esperienza soggettiva in un’esperienza oggettiva?
AG: Sì, forse sì. Marcus Steinweg ha scritto un bellissimo testo in merito intitolato Soggettività senza Soggetto. Quello che cerco di fare è di parlare di soggettività in maniera kantiana, cosa che succede piuttosto raramente. Non mi interessa tanto la psicologia del soggetto quanto l’oggettività e la verità.
MR: Come vedi questa parte del tuo lavoro, che si fonda sulla figura umana e sulla ripetizione di essa all’interno di uno spazio, in relazione ad artisti come George Segal e Juan Muñoz?
AG: Ci sono sicuramente delle affinità procedurali, ma non credo si possa parlare di vere e proprie similitudini perché mi interessa più lo spazio occupato dal corpo anziché il corpo in quanto tale. Alla fine, sia in Segal che in Muñoz, l’equazione teatralità/presentazione supera le qualità intrinseche della scultura. Quello che non accetto è l’idea del tableaux, della figura in quanto modello scultoreo. Per quanto mi riguarda è come abbandonare una sfida prima ancora di iniziarla. Una scultura, se aspira a una propria condizione, deve essere vissuta, deve persistere. È importante vederla sia in uno stato di concentrazione che di distrazione, in inverno e in estate, da adulto e da bambino. Il rapporto migliore che si può avere con una scultura si estende nel corso di una vita, è come un testimone silenzioso che sostiene, contrasta o trasforma i pensieri. Una grande scultura lascia un segno nel tempo e nello spazio contro cui si può misurare la vita umana. Non ce ne sono molte, e non mi sorprende. Richard Serra ci è riuscito. Le opere di Serra sono i monumenti megalitici della nostra epoca. Parlano dell’abilità di plasmare i materiali ma sono anche uno specchio della nostra esistenza, ci rendono consapevoli dei nostri movimenti, della nostra libertà, dei nostri limiti, e anche della nostra vulnerabilità. Questo è quello che dovrebbe fare una scultura.
MR: La mostra a San Gimignano si intitola “Vessel” (Vascello). La prima volta che ho trovato questa parola nel tuo lavoro è stato in uno scritto nel 1985.
AG: Davvero?
MR: “Il mio lavoro è di trasformare corpi in vascelli che contengano e occupino spazio”.
AG: Be’, è ancora vero. Spero che la mostra sviluppi diverse narrazioni che se percepite con una mentalità aperta possano favorire a loro volta altri collegamenti. La ragione ultima per fare una mostra è di discutere l’idea di mostra stessa e che tipo di rapporto possa stabilire con la vita. Se accedi alla galleria principale vedi queste nuvole che sono un diagramma tridimensionale di una struttura sfuggente fatta di schiuma e bolle, come se ci fosse un’entità che cresce nello spazio, dove non è chiaro se sia possibile o no riconoscere una figura all’interno senza farla emergere. È una forma libera, un corpo vuoto. È un dialogo continuo tra presenza e assenza, massa e vuoto, la natura del materiale e la condizione architettonica odierna dell’habitat umano. È un gioco perpetuo tra massa e disegno. Ci sono molti disegni in mostra. Tutta la cornice poliedrica dello spazio è certamente una forma di disegno. In un certo senso Vessel è una scommessa. Una parte di me ha paura che possa sembrare una stravaganza, mentre invece è un gesto distopico. Space Station in fin dei conti è un tentativo di oggettificare l’identità collettiva in un momento storico in cui il 50% della popolazione vive all’interno di una griglia creata dalla popolazione stessa. Il nostro futuro dipende dalla capacità di massimizzare la densità dell’ambiente urbano. Non ci sono dubbi che in termini di futuro della specie, il destino sia questo. L’idea di disorientamento all’interno di una matrice spaziale è molto importante. La mia speranza è che si possa arrivare all’idea di immagine solo dopo aver circumnavigato lo spazio. L’unico modo per attraversare lo spazio è girarci intorno, il che dovrebbe incoraggiare il pubblico ad andare sulla balconata e guardare dall’alto. Il messaggio è chiaro e voluto — cos’è il cinema come un luogo di spettacolo e come possiamo inserire al suo interno un oggetto radicalmente diverso. Mi piace molto l’idea che non troppo lontano, sul litorale toscano, ci sia in questo momento un altro vascello in una posizione analogamente precaria. Ovviamente non ho pensato il mio lavoro in questi termini, è solo una coincidenza, ma sono curioso di sapere se qualcuno farà questa associazione. Di recente Adam Curtis ha scritto una riflessione molto interessante su cosa spinge la gente a intraprendere una crociera. È una parabola sul desiderio di lusso senza responsabilità. Le crociere cercano di trasformare un’esperienza elitaria in un’esperienza di massa, il che è ovviamente un’illusione.
MR: È anche un’illusione architettonica. Alcune navi sono costituite da edifici di sei piani, campi da golf, cinema. Ricreano l’esperienza urbana in alto mare, il che ci riporta a quello che dicevi prima sull’architettura e sulla necessità di imparare a vivere all’interno di una struttura creata da noi stessi.
AG: Sì, Vessel è fondamentalmente un tentativo di pensare a come l’immaginazione umana e il modo in cui consideriamo noi stessi siano influenzati dall’habitat in cui viviamo. Per me la vera questione è questa. In un certo senso è un problema antropologico. Le nostre scelte sono condizionate costantemente dall’ambiente esterno. Abbiamo anche inventato protesi corporee, intese come auto, aerei, case, e la nostra attitudine verso il mondo è filtrata dalla capacità di assorbirle. Viviamo una vita di seconda mano sotto molti punti di vista, e mi chiedo quale possa essere l’effetto di uno spazio dettato da principi geometrici euclidei sul modo in cui pensiamo e ci muoviamo.
MR: Come hai affrontato invece lo spazio aperto nel giardino?
AG: C’è un altro lavoro in marmo come quello che ho fatto per la Biennale di Carrara (2 x 2, 2010). Anche qui c’è l’elemento rischio: realizzare una forma umanoide verticale in un giardino pieno di cipressi può risultare qualcosa di molto convenzionale, ma spero che, dato che si tratta di due figure che adottano una geometria che si rifà direttamente al materiale di cui sono costruite, venga messo in discussione non solo il rapporto tra vita e ambiente, ma anche tra la forma umana e il modo in cui questa debba essere riconsiderata in un epoca di riproduzione meccanica. In città invece non ho resistito alla tentazione di mettere una figura in cima a una delle torri, mentre le altre sono sparse per strada, dove il comune ci ha permesso di collocarle.
MR: A distanza di quasi tre anni, come vedi One and Other, il tuo intervento sul Fourth Plinth a Londra?
AG: Ne sono fiero. Non ho idea di come sia riuscito a integrarsi all’interno di una visione tradizionale della scultura, ma è fantastico. In un certo senso è uno sviluppo di Fai Spazio, Prendi Posto, il progetto che ho fatto a Poggibonsi in occasione di “Arte all’Arte” (2004). Non credo sia qualcosa che voglio rifare, ma è stata un’esperienza assolutamente incredibile. Per me è stata una prova del desiderio della gente di occupare lo spazio in maniera creativa. Si dice che il pubblico costituisca il 50% di un’opera d’arte. Be’, in quel caso era il 100%. Ne è valsa senz’altro la pena.