Nato in una famiglia di collezionisti, Anupam Poddar è attualmente il più illuminato e avventuroso collezionista indiano di arte contemporanea del Sud Asia. La sua famiglia ha fondato la Devi Foundation e all’inizio del 2008 aprirà un spazio espositivo di 2.300 metri quadrati nella periferia sud di New Delhi.
Peter Nagy: Ci puoi spiegare brevemente come funzionerà il nuovo edificio una volta inaugurato?
Anupam Poddar: Il programma si concentrerà su un numero limitato di mostre ogni anno in cui saranno esposte sia opere della collezione che nuove commissioni. Metteremo anche a disposizione uno spazio non vincolato da limitazioni commerciali e ci proponiamo di presentare artisti dal Subcontinente che facciano lavori all’avanguardia e sperimentali, fornendo loro un centro dedicato all’arte in cui possano esplorare temi e tecniche senza restrizioni. Inoltre verrà avviato un ciclo di conversazioni e conferenze che accompagnerà le mostre, nel tentativo di gettare un ponte tra chi produce arte e il vasto pubblico.
PN: C’è un artista o un’opera in particolare che ti piacerebbe avere in collezione ma che ancora non avete?
AP: Ci sono alcune opere di Ranbir Kaleka e anche alcuni dei primi lavori di Jitish Kallat e Atul Dodiya che mi piacerebbe entrassero in collezione. Come le sculture di Subodh Gupta e Bharti Kher che sono sempre state tra le mie preferite e sembrano non bastare mai.
PN: Da anni esponi le opere della collezione in casa tua. Intendi continuare con questo approccio insolito o adotterete una modalità espositiva più tradizionalmente museale?
AP: Lo spazio della fondazione sarà più formale dal punto di vista installativo, ma abbiamo anche in mente di utilizzare spazi non convenzionali, come il tetto, la caffetteria e in parte i sotterranei, che verranno utilizzati anche come parcheggio per le auto. L’idea di base è che l’arte non ha bisogno di essere fruita necessariamente in uno sterile white cube ma che dovrebbe interagire con ambienti diversi.
PN: Mi puoi raccontare un particolare “momento di illuminazione” in cui i tuoi parametri estetici si sono ampliati trasformandoti in quel campione dell’arte sperimentale che sei oggi?
AP: È stato quando ho acquistato un’opera di Subodh Gupta intitolata My Mother and Me, che consiste in una stanza circolare fatta di escrementi di mucca appiattiti e impilati uno sull’altro: è stata la prima volta in cui mi sono sforzato di ignorare qualsiasi considerazione pratica di conservazione, restauro o vincoli di spazio. Questo mi ha permesso di prendere decisioni riguardo a opere senza le quali non potrei vivere, e di acquistarle. Stabilire come e dove installarle diventa una questione (spaziale) secondaria.
PN: Quali sono gli artisti internazionali che preferisci (contemporanei o storicizzati)?
AP: Rebecca Horn, Maurizio Cattelan, Ron Mueck e Anish Kapoor.
PN: Puoi farmi un esempio di come l’esperienza di vivere con un’opera in casa ha cambiato radicalmente la tua percezione iniziale di quell’opera?
AP: Anita Dube ha realizzato un’opera intitolata Blood Wedding, che consiste in una scultura di 13 pezzi fatta di ossa umane coperte di velluto rosso. Ho rincorso quest’opera per alcuni anni e ora è installata sul mio tavolo da pranzo. Ho sempre saputo di amarla ma non mi ero reso conto completamente di quanto fosse speciale finché non ho iniziato a conviverci quotidianamente. Non finisce mai di sorprendermi.
PN: In che misura dovrebbe essere “indiana” l’arte indiana contemporanea?
AP: Penso che l’arte sia semplicemente arte. In un mondo così globalizzato ci sono certezze condivise e un linguaggio quasi universale che molti artisti tendono a utilizzare nel loro lavoro. Se l’espressione di questo potrebbe essere per alcuni versi indiana, l’arte non dovrebbe essere guardata come se avesse necessariamente bisogno di esserlo. Che cosa c’è di così americano in certa arte di artisti che vivono a Brooklyn, che tende a essere di tutto il mondo?
PN: Potremmo vedere una programmazione sponsorizzata dalla Devi Foundation in altre parti dell’India, o fuori dall’India, in futuro?
AP: Stiamo attualmente valutando l’ipotesi di sponsorizzare uno spazio non profit in Pakistan, in modo che qualsiasi finanziamento extra possa essere utilizzato per borse di studio, programmi di residenza e pubblicazioni all’interno del paese. Inoltre, se e quando troveremo progetti in linea con gli obiettivi della fondazione, proveremo a finanziarli.