Davide Giannella: La maggioranza dei tuoi lavori sembra essere caratterizzata dall’utilizzo di materiali insoliti per l’arte, pare arrivino da altri mondi. È una pura questione estetica? Da dove nasce questa scelta?
Arcangelo Sassolino: Non sono sicuro che siano così inusuali, forse nel caso di certa componentistica industriale come vetro, gas, plastica, acciaio, legno, cemento. Forse, più del “che cosa” ha senso ricordare “come” un materiale viene usato. Intuire, svelare, diventare consapevoli di un uso alternativo e straniante, tirare fuori un potenziale che sta dentro la materia, credo possa contribuire a porre le basi di una tua estetica e di un tuo pensiero. Mi chiedi della questione estetica, che rimane un fatto cardine. A volte mi sembra che sia stato rimosso il fatto che abbiamo a che fare con arte visiva. Assisto spesso alla visione di oggetti inerti, morti, balordi, giustificati e millantati accampando “ragioni espressive” filosofiche, intimiste o di sociologia spicciola, per nascondere l’incapacità di tradurre in materia un’idea. E dell’idea “ideale” in certi casi non rimane che un corpo fiacco, smorto.
DG: Parlami di più del tuo rapporto con i materiali che utilizzi. È come se i materiali, la ricerca, e le forzature in relazione a essi fossero funzionali a raccontare altro?
AS: Il mio è un tentativo di prendere per il collo la materia, di torturarla per tirarle fuori qualcosa di nuovo, per farle dire la verità. Con un genio come Lucio Fontana nel DNA nazionale ho serie difficoltà a potermi permettere un’ennesima forma e fare finta di niente. Mi dico allora: perché non forzare la superficie di quella ipotetica forma tanto da deformarne le pareti, magari immettendovi e togliendo aria per far diventare la scultura un oggetto che cambia volume? Se uso un materiale che è nato per rimanere immobile, solido come l’acciaio inox, cosa succede? Perché non snaturare il materiale, perché non lasciare uscire l’imprevedibile? Perché non tentare di affermare con forza la labilità, l’ansia, il limite, il fragile? Un artista come Paul McCarthy legato alla propria cultura, alla “fanciullezza” degli americani, ha la forza immaginifica di riuscire ancora a sorprenderti solo facendo una scultura in bronzo. Beati loro, per me non è così!
DG: Questo senso per la materia è una caratteristica e un elemento comune a tutto il tuo lavoro; sembra inoltre che vi siano come due filoni espressivi: da una parte una serie di opere maggiormente figurative o di più immediata lettura — come per esempio Figurante — dall’altra una produzione di lavori informali leggibili in maniera meno diretta. Penso a opere come Afasia 2 o a Piccolo Animismo, di recente presentato al MACRO.
AS: A volte parto da un’immagine precisa che mi viene in testa; a volte un materiale può essere un punto di partenza, a volte attorno a un sentimento costruisco qualcosa per definirlo. Anche se ogni caso è diverso, si stanno delineando un paio di filoni. In alcuni lavori un’affinità con il solco segnato dall’Arte Povera è tracciabile e sicuramente mi è caro quell’immaginario. Ma poi penso che un certo clima politico e sociale io non l’ho neppure lontanamente respirato, quel clima non c’è più. Sono figlio piuttosto di una provincia in pochi anni massacrata dalle scavatrici di imprese bieche, dalla mediocre lungimiranza urbanistica dei politici locali, condita da una forte dose di ignoranza generalizzata che ha impiccato il territorio e l’ambiente. È una melassa indistinta di cattivo gusto e un ennesimo piccolo esempio di come la condizione umana tenda sempre a franare. Questa trasformazione continua e peggiorativa si ritrova nel mio lavoro. Figurante è un lavoro molto esplicito di un pessimismo e di una drammaticità che pervade la mia opera in generale; le interpretazioni più o meno ovvie di questo lavoro le lascio ad altri. Però c’entra il fatto di chiedermi che fine fanno i corpi in un disastro aereo o in un frontale automobilistico, o con una bomba che esplode in mezzo alla folla, c’è in ballo la vulnerabilità del nostro corpo. La maledetta morsa del tempo.
DG: Che cosa ricerchi nel passato, nella tradizione artistica del nostro paese e come lo riversi nel tuo lavoro?
AS: Trovo straordinario quando sento Jannis Kounellis che traccia con precisione una linea che parte da Masaccio, investe Caravaggio, tocca Gericault passa per Delacroix e via via arriva fino al suo lavoro. Com’è stato possibile che la Transavanguardia abbia fatto finta che non esistesse un artista come Mario Sironi? Questa visione a volo d’uccello sulla storia è fondamentale per prendere coscienza di chi siamo come individui, ma è obbligatoria se ti poni come artista. Come puoi pensare di fare qualcosa di nuovo se hai un’amnesia sul passato? E poi diciamocelo: sapendo che la storia dell’arte è costellata da certe figure di giganti, come faccio a non chiedermi se vale veramente la pena fare il mio lavoro? In qualche modo uno può anche barcamenarsi a livelli diversi del sistema, trovare la sua nicchia, mantenersi a galla, ma la vera questione è se hai veramente qualcosa da dire. E se la risposta è affermativa, poi arriva la difficoltà bestiale di forzare fino in fondo quella tua possibilità/volontà contro la realtà quotidiana che rema spesso contro. Anche la questione della globalizzazione nell’arte, del fatto che tutti possono fare tutto, che puoi andare qua e là a piluccare, mi fa un po’ cascare le braccia. Mi auguro che i costumi nazionali vadano sempre più verso la fusione di diverse culture, ma questi processi impiegano decenni e se sei cresciuto e hai vissuto in Italia i primi vent’anni della tua vita l’unico modo che hai per distinguerti è esprimere al meglio la tua matrice senza scimmiottare altre mode.
DG: Quando parli di onestà del lavoro, intendi anche che il lavoro non dovrebbe aver bisogno di giustificazioni sovrastrutturali?
AS: Credo che prima di tutto il lavoro debba essere un nucleo che sta in piedi da solo, che si autoalimenta. Dovrebbe bastare a se stesso senza bisogno di troppe decostruzioni e sovrastrutture ermeneutiche. Dovrebbe avere l’impatto che ha un’intuizione, che è qualcosa di diverso dal capire chiaramente, è come un sospetto suggestivo. Tradurre un pensiero complesso in materia non è facile: questo è il primo vero inghippo che incontri nel fare arte. Concedersi scorciatoie intellettuali per giustificare una debolezza formale è tremendo, perché se è il testo quello che conta bisognerebbe scrivere un libro di poesie invece; anche lì non freghi nessuno se non sei davvero capace. Questo è il motivo perché molti lavori deperiscono nel giro di un paio d’anni, diventano lingua morta, patetici e deprimenti come abiti che sono stati di moda una stagione. Chiediti il perché dell’impatto immediato di certe raffigurazioni medievali di Cristo in croce, di un sarcofago egiziano, della densità spiazzante e enigmatica di un vetro grigio di Gerhard Richter. In questi casi materia e intelletto sono reciproci, irriducibili. L’aura è quella, parte da lì, sta nella cosa in sé, non può stare nella sovrastruttura. Lavorare a fondo su questo nodo è un valore intramontabile in arte.
DG: Da dove nasce o da cosa è alimentato l’interesse per la tecnologia? Hai un know-how, precedente a quello artistico, in campo tecnologico? È forse una maniera per bilanciare elementi classici con altri moderni e contemporanei?
AS: Innanzitutto una precisazione su questo discorso della tecnologia va fatta. Quando leggo di certi esperimenti tipo quelli che fanno al CNR, in cui creano temperature di milioni di gradi, oppure penso al sistema di atterraggio di un Boeing 787, in questi casi si può parlare di tecnologia. Ma quella che vedo applicata all’arte, compresa la mia, è solo una schiuma tecnica. E va bene così, altrimenti uno farebbe lo scienziato, ma diciamo pure che l’arte scopiazza a casaccio da produzioni industriali applicate a volte già da parecchi decenni. Fatta questa premessa, per quanto mi riguarda, questa di un mio passato da ingegnere è una fesseria. Mi sento vicino a un certo immaginario che è quello delle trasformazioni dei materiali che avvengono all’interno delle industrie. Questo brutale realismo mi fornisce spunti per tentare di aprire nuove frontiere del pensiero. Le tecnologie mi danno la possibilità di mettere in atto delle performance inorganiche in cui si annida una visione di annientamento, vulnerabilità, caducità.
DG: Perché spesso e volentieri le tue opere collassano, arrivano a un punto di rottura?
AS: In questo mio peregrinare tra sforzature, attriti, equilibri instabili, cadute, pressioni, strappi, è normale che ci sia anche qualcosa che collassa o si disintegra.
DG: Sei tu a costruire direttamente le tue opere oppure ti avvali della collaborazione di artigiani e altre figure competenti per la loro realizzazione?
AS: In certi momenti del lavoro non intervengo perché non ne ho davvero le competenze. Mi metto da parte e lascio il posto a chi è in grado di eseguire certi lavori. È però fondamentale avere tutti gli elementi e tutte le fasi di produzione sotto controllo. Le aziende o gli artigiani con cui collabori sono una tua estensione, la filiera di produzione va seguita. Queste figure di cui ti avvali possono apportare molto e allo stesso tempo possono essere brutalmente castranti per la tua poetica, per questo motivo devi imporre la tua volontà. Con la scultura è un po’ complicato: per esempio, quando Richard Serra deve calandrare le sue lamiere è costretto ad andare in uno dei due soli posti al mondo in cui fanno questo tipo di lavorazione; è difficile tenere una calandra nello scantinato, per non parlare delle competenze necessarie per usarla. Invece, se penso a Lucien Freud, immagino una pratica diretta in cui non hai quasi mai bisogno di lasciare lo studio. Diciamo che, a seconda del lavoro che mi viene in mente di fare, alterno il solipsismo al lavoro di squadra.
DG: Sei stato alcuni anni negli Stati Uniti, hai esposto in gallerie e istituzioni sia europee che italiane. Quali differenze hai riscontrato lavorando all’estero e nel nostro paese? Che idea ti sei fatto del sistema dell’arte in generale?
AS: Non sono in grado di fare confronti europei e internazionali sullo stato delle istituzioni. Di sicuro non credo che alcuni problemi del sistema dell’arte possano essere solo nostrani — come certe oligarchie che impongono i propri gusti, oppure troppa gente che si improvvisa, forse troppe fiere e gallerie, e ancora, critici, collezionisti, artisti, e dilettanti allo sbaraglio, un mordi e fuggi continuo, un “proviamo magari funziona anche per noi”, tutta una certa proliferazione di dinamiche senza spessore e dialoghi stupidini è solo mortifera. Inoltre, c’è una pressante richiesta di nuovi lavori a ogni costo, meglio se facili da capire, da consumare, intrattenitori come un format televisivo alla Signorini, facili da trasportare, leggeri, non troppo cruenti, facilmente appendibili e magari soprattutto “divertenti”, dato che l’ironia è disgraziatamente considerata il massimo. Se non riesci a liberarti da tutto questo, rischi di farti scannare da questo frullatore spettacolistico/consumistico.
DG: Quali responsabilità senti dal punto di vista professionale? Ha ancora senso questa domanda per te?
AS: Ha senso eccome. Sento la responsabilità di dover continuare a lavorare, e di cercare sempre una precisazione alle mie intuizioni, senza barare.