La quiete che precede la catastrofe ha sempre qualcosa di sacro. Come la morte. Rilke lo sapeva bene quando, nelle Elegie Duinesi (1923), affermava il diritto di ogni fenomeno terribile di manifestarsi attraverso la bellezza. Una inquietudine incudine. È in questa stessa tensione che si muove l’opera di Arcangelo Sassolino, dove la calma apparente delle forme, nella sua estetica classica, nasconde sempre un nucleo di violenza trattenuta, un respiro di devastazione possibile. Un improvviso che diventa imprevisto, che cambia, la vita, le vite e travolge i percorsi; e quel piedistallo su cui poggiano le nostre sicurezze frana tragicamente, con un boato, che distoglie l’opera da se stessa.
Nel suo lavoro, la materia non è mai davvero inerte, ma sempre attiva, anche nella quiete, sul punto di rivelare la propria natura più drammatica che si fa grammatica. Sono passati vent’anni da Momento: una massa di calcestruzzo di quattro metri, alta venti centimetri, apparentemente docile nella sua inclinazione nello spazio, nascondeva una verità più inquietante. Il sottilissimo perno d’acciaio che la tratteneva è stato calcolato per essere il più esile possibile, espediente continuo in Sassolino, creando quella che l’artista stesso definisce una “trappola” per lo spettatore. E la gente si aggirava come sotto un masso in bilico, o come sotto i pericoli interiori, piegando la schiena per riflesso involontario. È proprio in questo stato di tensione permanente che si manifesta quello che Georges Bataille chiamava il fascino del pericolo, capace di metterci in uno “stato di sovranità” – una condizione in cui la consapevolezza della minaccia acuisce paradossalmente la nostra presenza nel mondo. Sentiamo che la vita è, è li nella sua permanenza impermanente.
Questa dialettica tra apparenza e potenziale distruttivo trova la sua espressione più sottile in Tempo piegato (2023), dove il vetro temperato rivela quella che gli ingegneri chiamano la sua “anima liquida”. Che è un semi haiku di suo. Non è solo una metafora tecnica, ma una perfetta incarnazione di ciò che Junichiro Tanizaki, nel suo Libro d’ombra (1933), descrive come la vera natura della bellezza: non una sostanza in sé, ma un gioco di tensioni, un equilibrio precario tra stati diversi della materia.
Le opere di Sassolino utilizzano la vita dell’industria e del caos o industriale e post industriale della produzione e della produzione dei massa. I Pistoni idraulici spremono lentamente travi di legno fino al punto di rottura creano quello che Paul Virilio definirebbe «un incidente al rallentatore», ma vanno oltre la semplice esibizione della violenza meccanica. Quando il legno, appena tagliato, ‘piange’ rilasciando la sua linfa vitale, assistiamo a quello che Walter Benjamin chiamerebbe un momento di pericolo che illumina improvvisamente il passato – in questo caso, la vita precedente del materiale, la sua storia interrotta e trasformata in rito di passaggio.
Damnatio Memoriae (2016) porta questa riflessione a un livello ulteriore, dove lo “sconfinamento della forma” di cui parla Sassolino diventa anche uno sconfinamento ontologico. La scultura che si trasforma in polvere non è solo un esempio di dematerializzazione, ma incarna quella che il filosofo Byung-Chul Han identifica come la vera profondità della bellezza: la capacità di sostenere la propria contraddizione interna. La polvere che impregna l’aria diventa così una metafora della precarietà non solo della forma, ma dell’esistenza stessa. Eravamo polvere, torneremo polvere.
In un’epoca ossessionata dal controllo e dalla prevedibilità, le sculture di Sassolino si ergono come monumenti alla potenzialità del caos, sempre presente sotto la superficie dell’ordine apparente. Come nell’esperienza del sublime kantiano, ci mettono di fronte a forze che superano la nostra capacità di comprensione immediata, ma lo fanno attraverso un linguaggio contemporaneo che parla di industria, di meccanica, di pressioni e resistenze. Di Veneto e di etereo, di Trissino e di operai, di laser e tubi per il gas. Quelle schegge di territorio e di memorie che tornano, sempre, nel Terraneo tiepolesco animale Veneto.
Sassolino è un poeta ingegnere. Trasforma la tensione in poesia materiale. Le sue opere non sono semplicemente pericolose, sono pericolose come le parole. Sono meditazioni sulla natura della materia stessa, sul modo in cui ogni forma contiene in sé il seme della propria dissoluzione. In questo senso, il suo lavoro trascende la semplice opposizione tra sicurezza e pericolo per esplorare quello che potremmo chiamare, prendendo in prestito le parole di Maurice Blanchot, “lo spazio della letteratura” – quel territorio dove i contrari non si escludono ma si alimentano reciprocamente, creando un nuovo tipo di verità estetica.



