Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, un diverso approccio all’arte inizia a definirsi in maniera organica indicando così un nuovo percorso per le ricerche visuali, dominate fino a quel momento dall’Espressionismo Astratto negli Stati Uniti e dall’Informale in Europa.
Nei primissimi anni Sessanta stava, infatti, svanendo il clima di indagine legata all’arte espressionista astratta e informale, che aveva contraddistinto buona parte delle ricerche internazionali degli anni Cinquanta, per lasciare spazio a un nuovo orientamento estetico più prossimo al clima caratterizzato dalle importanti scoperte scientifiche in atto e al conseguente mutamento di tutta la struttura sociale.
Dopo la caduta delle grandi teorie e finalità del mondo occidentale, causate anche dalla tragedia del secondo conflitto mondiale, la ricerca artistica non si rivolge più alla poetica del gesto di matrice esistenziale, praticata dall’artista introiettivo e solitario che intendeva il gesto come strumento capace di ridare al soggetto la possibilità di agire nel mondo, ma propone un nuovo approccio al linguaggio artistico-visuale.
I concetti fondamentali di questo nuovo modo di fare arte sono rappresentati dal fatto di pensare e praticare una forma artistica basata sull’analisi sistematica dei fenomeni percettivi, di ricercare una loro base scientifica e oggettivamente verificabile, di pensare l’arte come scienza esatta e, pertanto, non soggetta a libere e individuali interpretazioni.
I giovani artisti si rivolgono così a un fare arte basato sui processi logici, sul calcolo scientifico e, di conseguenza, si definisce una nuova figura di artista capace di interagire con la struttura sociale in rapida trasformazione. Anche l’uso dei materiali artistici subisce un sostanziale cambiamento. La giovane generazione artistica che ha dato impulso alle nuove ricerche e che si interessa ai fenomeni percettivi, inizia a utilizzare materiali ad alto valore tecnologico, per lo più appartenenti al mondo della produzione industriale, e a comporre opere ad elevato valore ottico-percettivo. Ciò che ne consegue è un’arte intesa sostanzialmente come progetto rigoroso i cui punti fondamentali sono: il primato della ricerca, e di conseguenza la necessità di non fermarsi a formulazioni definitive ma affermare la necessità del movimento e della continua evoluzione, la spersonalizzazione, la comunicazione aperta, il lavoro collettivo, lo sviluppo di un insieme di teorie e forme comuni, fino all’idea di un’opera “anonima”.
È su queste basi che nel 1961, alla Galleria d’Arte Contemporanea di Zagabria, viene realizzata la prima edizione della mostra internazionale “Nuove Tendenze”, alla quale segue, nel 1963, la seconda. Nata dal sodalizio fra il pittore Almir Mavignier, il critico Matko Mestrovic e il direttore della Galleria d’Arte Moderna di Zagabria Bozo Bek, “Nuove Tendenze” rappresenta, in quel momento, la punta più alta della ricerca artistica internazionale. Coloro che vi partecipano provengono da mondi, culture e pratiche artistiche differenti — concreti, surrealisti, dadaisti, tachisti — accomunati dal desiderio di ricercare una nuova motivazione all’arte, di esplorare un linguaggio capace di concretarsi in oggetti, in opere il cui presupposto è l’unione fra estetica, scienza e tecnologia.
“Nuove Tendenze” si fa così interprete di tali teorie e intendimenti e gli artisti che, numerosi, vi partecipano rappresentano un nuovo modo di operare. Accanto ai gruppi quali gli italiani Gruppo N di Padova (Manfredo Massironi, Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi) e Gruppo T di Milano (Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi, Grazia Varisco), il GRAV (Groupe de Recherche d’Art Visuel) di Parigi (François Morellet, Julio Le Parc, Joël Stein, Jean-Pierre Yvaral, Horacio Garcia Rossi, Francisco Sobrino) e, inoltre, singolarmente, Alviani, Le Parc, Morellet, Von Graevenitz, Mack, Zehringer, Ivan Picelj, Julije Knifer, Ludwig Wilding e altri ancora. Alle ricerche di questi artisti si affiancano quelle del Gruppo di ricerca (Bruno Munari, Enzo Mari e il teorico Umberto Eco), che con altri artisti quali Enrico Castellani e Piero Manzoni avevano anch’essi iniziato a indagare sulle teorie percettive e cinetiche, soprattutto nello spazio espositivo Azimut, aperto a Milano tra il 1959 e il 1960 dagli stessi Manzoni e Castellani con Agostino Bonalumi. Successivamente si uniscono anche il Gruppo Uno di Roma, con l’appoggio del critico Giulio Carlo Argan, e il Gruppo Zero di Düsseldorf, al quale si avvicinano per un certo periodo, fra gli altri, Lucio Fontana e Yves Klein, così come iniziano le proprie ricerche in tale direzione molti altri quali Milan Dobes, Marina Apollonio, Peter Lowe.
In tutti i loro lavori è evidente l’impegno ad analizzare i fenomeni percettivi e luminosi al fine di pervenire a un linguaggio artistico strettamente connesso con quello scientifico, con le tecniche di progettazione e produzione industriali e le nuove tecnologie.
A queste due manifestazioni segue, nel 1965, la mostra “The Responsive Eye”, al Museum of Modern Art di New York, organizzata da William C. Seitz, che nel catalogo scrive: “È anche chiaro quanto siano vicini i confini della ricerca della scienza e della tecnologia e quelli delle opere artistiche più rigorose, e ciò al tempo stesso ci ricorda quanto siano vicine all’arte alcune delle immagini della scienza”.
“The Responsive Eye” è una mostra sorprendente che vede la presenza di ricerche visuali definite optical, programmatiche e cinetiche.
La mostra riscuote un sensazionale successo, il pubblico è affascinato dagli stupefacenti giochi ottici e percettivi che le opere rendono evidenti.
Accanto alle ricerche puramente percettive, optical, si sviluppa anche il versante programmato e cinetico, dove l’interesse principale è rivolto invece ai materiali che si caratterizzano per la loro struttura altamente tecnologica ottenuta attraverso un processo puramente scientifico; materiali prodotti in laboratorio, asettici, neutri, apparentemente privi di storia vissuta, aperti però a ogni possibile utilizzo, a ogni ipotetica forma o gioco di visione. Sia gli artisti ottico-percettivi sia i programmati e cinetici utilizzano un potenziale teorico basato su strutture logiche e matematiche, e si rivolgono a strumentazioni appartenenti a un nuovo codice, quello del mondo della tecnica.
Pertanto, in una società a tecnologia avanzata quale è quella in cui essi operano, è inevitabile l’abbandono delle categorie di definizione dell’opera fino allora utilizzate, mentre si fa strada l’idea di un’estetica “scientifica” che viene teorizzata da Max Bense il quale, attraverso la ricerca di un’estetica matematica, vuole giungere a un’estetica della tecnologia capace di determinare scientificamente il grado di bellezza di un’opera d’arte. Pertanto, l’applicazione di regole e operazioni scientifiche rende possibile una produzione estetica sistematica che Bense definisce “estetica generativa”. Quest’arte, nello sforzo di far coincidere l’esperienza estetica con il processo dell’opera, mette a fuoco l’analisi formale del processo artistico. Porre l’accento sul processo e non semplicemente sul risultato fenomenico, sull’opera conclusa, significa portare in campo una problematica di carattere linguistico relativa alla definizione stessa di opera, che diviene dispositivo aperto tendente a produrre serie iterative, quindi strutture dove il processo estetico dei segni è sempre collegato con il processo tecnologico dei supporti.
La tensione verso la ricerca di linguaggi innovativi, capaci di trasmettere il senso di un tempo in vertiginosa accelerazione verso il futuro, non mette però in discussione una radice profonda che gli artisti programmati ritrovano nelle esperienze delle avanguardie storiche razionali e costruttive.
Senza dubbio il Costruttivismo russo, con la domanda sulla funzione tradizionale dell’opera d’arte, le sperimentazioni dell’ungherese László Moholy-Nagy, operante nell’ambito del Costruttivismo e poi attivo al Bauhaus, che approfondisce il processo motorio della percezione, e le ricerche di Pevsner e Gabo rappresentano alcuni dei presupposti alla nuova ricerca. Ma figure fondamentali per la nuova arte che si sta formando sono anche Henryk Berlewi con la Mechano-faktura, attraverso la quale elabora un’idea di arte il cui carattere fondamentale è la ripetizione iterata dei medesimi elementi, Richard Lohse, con l’organizzazione degli ordini seriali, oltre ad altri artisti e maestri della scuola di Weimar. Anche alcune ricerche futuriste di Balla, le “Compenetrazioni iridescenti”, l’approfondimento sull’autonomia del colore di Josef Albers, il rigore progettuale di Max Bill assumono un’importanza fondamentale per i giovani che si avvicinano alle nuove problematiche della visione. Con i maestri dell’avanguardia storica i nuovi artisti condividono l’interesse per i processi percettivi e per la messa in discussione della soggettività della visione, ma soprattutto come loro credono nella possibilità di dar vita a un’arte capace di realizzare un progetto “buono”, puro, utile e necessario.
È su questi principi, e soprattutto sul fatto che l’arte possa divenire strumento dinamico capace di intervenire sullo spettatore, sul fruitore e coinvolgerlo come elemento necessario alla sua attivazione, che essi muovono i propri passi con percorsi affini anche se differenti. Gli optical, tra i quali spicca già dalla metà degli anni Cinquanta la figura di Victor Vasarely, ma poi, a partire dai primissimi anni Sessanta, anche i più giovani Getulio Alviani, Paolo Scheggi, Jesús Rafael Soto, Yaacov Agam, Bridget Riley, Julio Le Parc, Carlos Cruz-Diez, sono concordi nel dichiarare che la propria ricerca si basa sul fatto che è necessario sottrarre l’individuo ai condizionamenti che lo hanno determinato, pertanto egli deve essere libero nell’utilizzo delle proprie facoltà percettive, e che la percezione rappresenta una parte, un momento dell’immaginazione intesa come attività di pensare attraverso immagini, inizialmente statiche e successivamente dinamiche.
Ne consegue il fatto che una visione non può risolversi in una sola immagine, ma in una sequenza di immagini determinata da un ritmo, e che la capacità di tali immagini di associarsi può avvenire nella sequenza stessa, nello spettatore oppure esternamente a lui, determinata da meccanismi ottici o luminosi. Ciò che sottostà a tali ricerche è un preciso rigore scientifico messo in atto attraverso l’utilizzo di elementi geometrici semplici ma anche complessi, una specifica conoscenza delle teorie del colore e della percezione visiva, di cui la Gestalt ha posto i principi.
Inizialmente, attraverso il bianco e nero e figure geometriche relativamente semplici, vengono creati effetti ottici la cui definizione della forma è precisa e dichiarata. Si passa poi a sfruttare le leggi della teoria dei colori, dei contrasti simultanei, delle scale tonali degradanti o crescenti, della modulazione delle forme e delle implicazioni spaziali, con una particolare attenzione all’aspetto scientifico-tecnologico. Le forme, così come i conseguenti aspetti percettivi, da semplici divengono sempre più complesse, ponendo allo spettatore molteplici interrogativi. Ciò che si ha davanti è molto più di un “quadro”, è un dispositivo estetico complesso la cui corretta lettura presuppone la conoscenza dei suoi codici costruttivi. Ma in fondo tutta l’arte ha posto queste condizioni, solo che spesso la maggioranza che guarda si ferma all’effetto di superficie.
Partendo da questi elementi semplici gli artisti iniziano a muovere il piano dell’opera secondo una logica formale più libera, fino a suggerire sulla piatta superficie effetti ottici tridimensionali ottenuti attraverso la strutturazione del piano secondo sofisticate e sempre più complesse regole percettive e dove, nel caso di inserimenti di elementi tridimensionali, questi non sono ciò che l’occhio vede, ma ciò che l’esigenza progettuale ha costruito.
Da tali premesse viene elaborato un nuovo linguaggio in cui elementi di stretta progettazione e programmazione vengono inglobati nell’opera e diventano, in alcuni casi, modelli utilizzabili anche dal design e dalla progettazione industriale determinati da una “predeterminazione progettuale”.
L’oggetto artistico è il risultato di un progetto la cui realizzazione non presuppone un’operazione manuale, artigianale, ma l’intervento della tecnologia industriale. È per questo che le opere sono pensate secondo una logica di serie, tipica del prodotto industriale, anche se in molti casi sono lavori unici, dove la possibilità della produzione in serie corrisponde, nell’opera, al dispositivo stesso della creazione di senso e dove l’elemento cinetico-percettivo è dato dal fatto che non ci si ritrova davanti a un oggetto che si muove, ma a un oggetto che muove la visione.
Presupposto dell’opera è l’elaborazione della stessa secondo una precisa metodologia di progetto e la sua capacità di inserirsi nel contesto sociale per influenzarlo e modificarlo: una posizione, dunque, di chiara matrice avanguardistica.
Attraverso l’utilizzo di materiali e tecnologie avanzate, meccanismi e strutture industriali, questi artisti cercano i collegamenti tra mondo e arte, tra funzionalità dell’opera e il suo valore estetico. L’opera è il risultato di un progetto che prende in considerazione fattori tecnici, materiali, ambientali, spaziali, presuppone uno stretto rapporto con lo spettatore, la cui fruizione diviene un elemento decisivo per la vita dell’opera stessa. Essa ha come finalità la ricerca, da non intendersi come ricerca di un puro tecnicismo o meccanicismo della forma fine a se stessa, ma ricerca finalizzata alla costruzione di un meccanismo-opera disponibile per infiniti utilizzi, reali o virtuali.